Codice Civile art. 2082 - Imprenditore.InquadramentoLa norma definisce la nozione di imprenditore, qualificando come tale un soggetto che esercita un'attività connotata da determinati requisiti e, precisamente, la professionalità, l'economicità, l'organizzazione, il fine della produzione e dello scambio di beni o servizi. La disposizione non menziona altri requisiti (come lo scopo di lucro, la liceità e la spendita del nome) che, secondo parte della dottrina, pure dovrebbero ricorrere affinché possa ritenersi integrata la nozione di imprenditore. È certamente estraneo alla definizione dell'impresa il rischio d'impresa che costituisce invece il contesto orientativo del comportamento dell'imprenditore. Il codice non definisce l'impresa che secondo l'opinione prevalente, è l'attività economica svolta dall'imprenditore. L'economicitàSecondo la giurisprudenza, l'economicità consiste nell'attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, con la conseguenza che deve essere escluso il carattere imprenditoriale dell'attività nel caso in cui essa sia svolta in maniera del tutto gratuita (Cass. n. 16612/2008; Cass. n. 5766/1994). Infatti si nega che l'erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti possa essere considerata imprenditoriale, dovendo essere riscontrabile l'idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio (Cass. n. 16435/2003). Conforme, sul punto, la dottrina (Galgano, 10; Spada, 51; Buonocore, 785; Oppo, 1989, 5). Peraltro, non è sufficiente, per escludere tale carattere, la qualità di congregazione religiosa del soggetto e il fine religioso o altruistico dallo stesso perseguito (Cass. n. 16612/2008; Cass. 20815/2006; Cass. n. 7725/2004). E neppure lo scopo mutualistico di una società cooperativa (Cass. n. 6835/2014), che si realizza solamente nei rapporti interni tra i soci (Cass. n. 2437/1979). Con specifico riferimento alle organizzazioni sindacali, poi, è stato affermato che la loro partecipazione, anche in posizione di controllanti, a società di capitali strumentalmente demandate alla gestione di alcuni settori di attività (quali quello editoriale, del patrimonio immobiliare e dell'assistenza tecnica degli associati), non vale a far perder loro la natura di organizzazioni di tendenza no profit e a trasformarle in imprese ai sensi dell'art. 2082, quando non sia dimostrato che l'attività economica svolta dalle società partecipate costituisca il vero oggetto dell'associazione non riconosciuta e che lo scopo associativo sia la ripartizione degli utili tra gli associati (Cass. n. 17971/2006). Se, invece, l'attività sia svolta secondo modalità organizzative ed economiche di tipo imprenditoriale, la natura di impresa non è esclusa per il fatto che l'attività venga svolta solamente a favore nei confronti di associati al soggetto che tali servizi eroga ovvero ad un'organizzazione sindacale cui il soggetto erogatore sia collegato (Cass. n. 1367/2004). Neppure può essere negata la qualifica di imprenditore a chi esercita un'attività assoggettata ad un peculiare regime di prezzi e costi, poiché ciò non esclude l'obiettiva idoneità dell'attività stessa a produrre un profitto (Cass. n. 4912/1987). La professionalitàTale requisito implica che l'attività economica sia svolta dal soggetto in maniera stabile e non occasionale. È pacifico che non deve trattarsi necessariamente di un'attività ininterrotta, poiché anche quella ciclica o stagionale è idonea, ove costantemente ripetuta, ad essere qualificata come professionale (Panuccio, 618). Così come è certo che non occorre che si tratti dell'unica attività esercitata dal soggetto o della sua attività principale, perché può anche trattarsi di un'attività svolta in via accessoria o marginale rispetto ad altre attività che rappresentino la principale occupazione del soggetto (Galgano, 7; Spada, 9; Buonocore, 782; Oppo, 1989, 6; Panuccio, 618). Ad avviso della giurisprudenza, tale carattere può essere riconosciuto anche allo svolgimento di un unico affare, in considerazione della rilevanza dello stesso e della complessità delle operazioni in cui si articola (Cass. n. 3690/1986). L'organizzazioneIl requisito dell'organizzazione richiede il coordinamento e la predisposizione dei fattori necessari per la produzione e la commercializzazione dei beni e dei servizi oggetto dell'attività. Essa può concernere soggetti (i collaboratori subordinati o autonomi dell'imprenditore) e oggetti (i beni organizzati per l'esercizio dell'impresa) (Panuccio, 619). La giurisprudenza ritiene sufficiente la sistematica aggregazione di mezzi (materiali e immateriali), anche scarsi (Cass. n. 1466/2019) ovvero rudimentali (Cass. n. 15769/2004; Cass. n. 4945/1977). In altri termini, non è necessario che l'attività imprenditoriale si svolga con un apparato esteriore aziendale, ma è sufficiente la direzione specifica impressa, alla propria attività economica (Cass. n. 267/1973; Cass. n. 1025/1972). Va peraltro segnalato che la nozione tributaristica dell'esercizio di imprese commerciali non coincide con quella civilistica, giacché l'art. 55 d.P.R. n. 917/1986 intende come tale l'esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate dall'art. 2195, anche se non organizzate in forma di impresa, e prescinde dal requisito organizzativo, esigendo soltanto che l'attività svolta sia contrassegnata dalla professionalità abituale (Cass. n. 19237/2012; Cass. n. 27211/2006; Cass. n. 17013/2002). La produzione e lo scambio di beni o serviziIl requisito in oggetto esclude che possa rientrare nel concetto di attività imprenditoriale quella diretta al solo godimento di un bene (in giurisprudenza: Cass. n. 2104/1982; in dottrina: Buonocore, 786). Con specifico riferimento alla c.d. multiproprietà, la giurisprudenza ha affermato che l'ente preposto alla gestione di un fabbricato condominiale in regime di multiproprietà, il quale non si limiti a svolgere compiti d'amministrazione dell'immobile, per assicurare il godimento degli appartamenti da parte dei singoli comproprietari o dei loro locatari secondo i turni prestabiliti, ma ceda direttamente tale godimento a terzi, reperiti per il tramite dei comuni canali di accesso al soggiorno turistico, ed altresì unisca a tale cessione tutte le prestazioni proprie dell'alloggio in pensione od albergo, dietro proporzionale corrispettivo, assume la qualità d'imprenditore alberghiero (Cass. n. 9148/1997; Cass. n. 7957/1997). La norma non prevede, invece, limiti circa la natura dell'attività produttiva svolta. Così, la natura eminentemente intellettuale della prestazione lavorativa dei dipendenti non esclude il carattere di impresa all'attività svolta dal datore di lavoro, con la conseguenza che tale carattere deve essere riconosciuto anche agli istituti scolastici o educativi (Cass. n. 9395/1995). Analogamente, può dar luogo ad esercizio di attività imprenditoriale l'attività di intermediazione fra produttori ed acquirenti di determinati beni (Cass. n. 4732/1981). Irrilevante, poi, è l'iscrizione del soggetto in appositi elenchi, poiché ciò che rileva è la natura dell'attività svolta (Cass. n. 3513/1979). Lo scopo di lucroLa giurisprudenza è ferma da tempo nel negare rilevanza, ai fini del riconoscimento della natura imprenditoriale dell'attività produttiva, allo scopo di lucro, affermando che questo concerne il movente soggettivo che induce il soggetto ad esercitare la propria attività (Cass. n. 16612/2008; Cass. n. 16435/2003; per un'affermazione della necessità del fine di lucro, inteso però come finalità di commercializzazione e vendita dei beni prodotti, v. Cass. n. 2321/1997). Più articolate le posizioni espresse dalla dottrina. In effetti, accanto a chi ritiene che tale connotazione del concetto di imprenditore sia inclusa nella sintetica nozione legislativa di professionalità (Bigiavi, 1948, 64), vi è chi invece ritiene che tale carattere non sia compatibile con un ordinamento — quale quello del codice civile — che detta una nozione unitaria di impresa, valevole anche per le imprese esercitate da enti pubblici (art. 2093), nonostante che questi ultimi normalmente non si propongano intenti speculativi, bensì finalità di interesse sociale (Galgano, 9; per critiche a simili argomenti, v. Buonocore, 788). Per una posizione particolare, v. Genovese, 44, secondo cui lo statuto dell'impresa è applicabile solamente al soggetto che adotta il «metodo del tornaconto», vale a dire una politica dei prezzi dei beni ceduti o dei servizi prestati che massimizzi la differenza tra costi e ricavi. La spendita del nomeVigendo nel nostro ordinamento il principio per cui gli effetti giuridici vengono attribuiti al soggetto che li pone in essere o, in subordine, al soggetto il cui nome viene validamente speso nei rapporti con i terzi, la dottrina prevalente (Oppo, 1989, 10) ritiene requisito necessario per la qualificazione come imprenditore la spendita del nome proprio e respinge la teoria dell'imprenditore occulto, in base alla quale deve essere considerato imprenditore e, quindi, esposto al fallimento, il soggetto che, anziché agire in prima persona, si serve di un prestanome per lo svolgimento di un'attività imprenditoriale (Bigiavi, 1954, 26). Anche in giurisprudenza si rinvengono pronunce secondo le quali la condizione perché un soggetto acquisti lo status di imprenditore è che l'attività economico — commerciale, pur svolta per il tramite di altra struttura, sia direttamente e personalmente riferibile ad esso (Cass. n. 1396/1999) e, a tal fine, non è sufficiente la connessione, anche se stretta, o il collegamento con altro soggetto effettivamente imprenditore, ovvero l'utilizzazione dell'attività formalmente imputabile a questo soggetto per il conseguimento dei propri scopi, quando tale utilizzazione non si realizzi attraverso un'attività intrinsecamente imprenditoriale; pertanto, un'associazione non diventa imprenditore commerciale quando, per raggiungere i propri scopi altruistici, si limiti ad utilizzare i proventi dell'attività imprenditoriale di un soggetto distinto, anche se collegato o collaterale (Cass. n. 9589/1993). La liceitàLa dottrina distingue tra illiceità dell'impresa in senso forte e illiceità in senso debole. La prima ricorre tutte le volte in cui la produzione di certi beni o sevizi è vietata in modo assoluto e cioè per tutti incondizionatamente; la seconda quando la produzione è vietata in difetto di certe condizioni ovvero è riservata a certe figure soggettive o classi di figure soggettive. Nel secondo caso vi è accordo in dottrina sul fatto che l'agente non potrebbe invocare le regole dello statuto dell'impresa che tutelano i propri interessi come ad esempio quelle repressive della concorrenza sleale o l'esclusiva sui segno distintivi, mentre invece dovrebbero ritenersi applicabili le regole dettate a protezione di interessi alieni e potenzialmente antagonistici (Oppo, 1980, 119; Spada, 56). Circa l'illiceità forte, si registra un contrasto tra chi ritiene inapplicabile tout court tutta la disciplina ancorata alla fattispecie impresa (Oppo, 1980, 118; Buonocore, 778) e chi invece propone di adottare anche in tal caso la disaggregazione della disciplina dell'impresa già descritta a proposito della c.d. illiceità debole (Spada, 56). Ad avviso della giurisprudenza, la qualifica di imprenditore commerciale si acquista in conseguenza del fatto obiettivo e concreto dell'attività commerciale, indipendentemente dai fini, eventualmente anche illeciti, che l'imprenditore persegua (Cass. n. 2410/1969). L'inizio e la cessazione dell'impresaIn dottrina, è stato autorevolmente detto che l'impresa nasce quando sono realizzate organizzazione e attività produttiva, cioè quando questa attività inizia sulla base di un'organizzazione stabile (Oppo, 1989, 16). Ad avviso della giurisprudenza, ai fini della determinazione del momento in cui inizia l'effettivo esercizio dell'attività di impresa — e dunque, in base all'art. 2082, l'autore acquista la qualità di imprenditore commerciale — fondamentale è il ruolo svolto dal dato dell'organizzazione, poiché in presenza di un'esteriore apparato aziendale la qualità di imprenditore commerciale si acquista anche con il compimento di un singolo atto riconducibile a quella organizzazione («atto dell'organizzazione»); quando, invece, manca un siffatto apparato esteriore, perché l'attività viene svolta con mezzi anche rudimentali, sufficienti comunque ad integrare il requisito dell'organizzazione, soltanto la reiterazione di atti, oggettivamente suscettibili di essere qualificati come atti d'impresa — i quali possono aversi anche prima che si siano instaurati rapporti con i terzi destinatari del prodotto dell'impresa stessa, allorché siano stati posti in essere atti economici preparatori che permettano di individuare l'oggetto dell'attività ed il suo carattere commerciale — rende manifesto che non si tratta di operazioni isolate, ma di attività professionalmente esercitata (Cass. n. 15769/2004). Un simile criterio appare tuttavia irrilevante con riferimento alle imprese sociali, le quali acquistano la qualità di imprenditore dal momento della loro costituzione, non dall'inizio del concreto esercizio dell'attività d'impresa (per la giurisprudenza, v. Cass. n. 28015/2013; Cass. n. 21991/2012; Cass. n. 8694/2001; per la dottrina, in tal senso, Bigiavi, 1948, 10). Quanto, poi, alla cessazione, si nega sussista cessazione dell'attività dell'imprenditore individuale allorquando quest'ultimo ne muti l'oggetto (Cass. n. 25217/2013). La fine di detta qualità è invece subordinata all'effettivo venir meno dell'attività imprenditoriale e non alla formalità della cancellazione dal registro delle imprese (Cass. n. 21714/2013; Cass. n. 9744/2011). La dottrina sottolinea come la fine dell'impresa sia ravvisabile non solo e non tanto nell'univocità dei segnali di dismissione dell'attività, quanto e soprattutto nella irreversibilità, risultante da fatti oggettivi, della determinazione dell'imprenditore: Buonocore, 791. Una volta dissolta l'organizzazione aziendale, l'impresa deve, di regola, ritenersi cessata e non hanno rilevanza, in sé, né la possibilità (non realizzata) di ricostituire l'organizzazione stessa e riprenderne l'attività con altri mezzi, né la permanenza di elementi aziendali residui che non consentano una prosecuzione di attività, sia pure ridotta, né, comunque, vengano, fino al momento della loro completa liquidazione, utilizzati a tal fine (Cass. n. 273/1973). In dottrina è stato affermato che l'impresa dura finché si compiono, sulla base dell'organizzazione aziendale, atti del ciclo produttivo, ancorché residuali (Oppo, 1989, 17). 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