Codice Civile art. 2106 - Sanzioni disciplinari.

Paolo Sordi

Sanzioni disciplinari.

[I]. L'inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all'applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell'infrazione [e in conformità delle norme corporative] [1175; 97 att.] (1).

(1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo.

Inquadramento

L'articolo in esame definisce l'area degli illeciti che può dar luogo a responsabilità disciplinare (individuandola nella violazione degli artt. 2104 e 2105), esprime il fondamentale principio di proporzionalità tra sanzione e gravità dell'infrazione e, infine, fonda la generale competenza della contrattazione collettiva (così dovendosi ormai intendere il rinvio alle norme corporative) in materia disciplinare.

Fondamento del potere disciplinare del datore di lavoro e natura giuridica delle sanzioni disciplinari

Nonostante che non manchino voci secondo le quali il potere disciplinare mal si concilierebbe con la logica paritaria dei rapporti contrattuali (Grandi, 350), il prevalente orientamento della dottrina configura quel potere come giustificato dall'organizzazione di lavoro, intesa come fatto elementare di coordinamento della prestazione all'interesse del datore (Persiani, 272), riconducendolo quindi alle radici del rapporto, cioè al contratto di lavoro (Montuschi, 17; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 229). In questa prospettiva, parte della dottrina afferma esplicitamente che il fondamento del potere disciplinare va ravvisato nella responsabilità contrattuale del prestatore e lo concepisce come il riflesso della subordinazione in relazione all'inadempimento (Ghera, 88; per un'impostazione che invece distingue l'illecito disciplinare da quello contrattuale Fontana, 329).

Sempre nell'ottica di collegare il potere disciplinare a categorie proprie del diritto privato, la dottrina attribuisce alle sanzioni disciplinari natura di pene private (Vardaro-Gaeta, 3), non riconducibili però alla clausola penale, perché esse non adempiono ad una funzione risarcitoria (Santoro-Passarelli, 188; conforme, in giurisprudenza, Cass. n. 11153/2001). Tuttavia si riconosce anche (Montuschi, 109) che le sanzioni disciplinari assolvono ad una funzione tipica (che le contraddistingue dalle altre pene private), per un verso afflittiva e di prevenzione speciale nei confronti di chi ha commesso l'infrazione (conforme, in giurisprudenza, Cass. n. 767/1999) e, per altro verso, intimidatoria e di prevenzione generale nei confronti della generalità degli altri lavoratori.

L'esercizio in concreto del potere disciplinare, in presenza dei relativi presupposti, è riservato alla discrezionalità del datore di lavoro in quanto contenuta nel più ampio potere di direzione dell'impresa attribuitogli dall'art. 2086, a sua volta compreso nella libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost. (Cass. n. 5753/1995). Peraltro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, il datore di lavoro non può esercitare una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato (principio del ne bis in idem: Cass. n. 17912/2016; Cass. n. 22388/2014).

Requisiti sostanziali

L'illecito disciplinare

La dottrina sottolinea come, attraverso il richiamo, compiuto nell'art. 2106, alle disposizioni contenute negli artt. 2104 e 2105 e agli obblighi ivi previsti a carico del lavoratore, vengano collocate sullo stesso piano, sotto il profilo degli effetti di ordine disciplinare, diverse condotte poste in essere dal prestatore medesimo — come la negligenza, l'imperizia, la violazione di regole stabilite dalla cosiddetta disciplina aziendale, l'infedeltà, la commissione di illeciti di rilevanza penale — che si ricollegano all'osservanza di doveri che derivano da fonti anche eterogenee (Montuschi, 21).

Per i contenuti degli obblighi enunciati dagli artt. 2104 e 2105, si rinvia ai relativi commenti.

La proporzionalità

Il requisito della proporzionalità della sanzione alla gravità dell'infrazione è richiesta dall'art. 2106 a pena di nullità (in dottrina: Montiuschi, 156; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 230).

La giurisprudenza è ferma nel ritenere che il giudizio di responsabilità non deve essere effettuato in astratto, bensì con specifico riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, considerando la portata del fatto, le circostanze del suo verificarsi, i motivi nonché l'intensità dell'elemento volitivo (Cass. n. 2906/2005; Cass. n. 313/2003; Cass. n. 1892/2000).

Specifica rilevanza, nel giudizio di proporzionalità, assume la recidiva, vale a dire la circostanza che una determinata infrazione sia già stata sanzionata, la quale determina un aggravamento della sanzione. A norma dell'art. 7 l. n. 300/1970, non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione. Secondo la giurisprudenza la recidiva per sua stessa natura, presuppone non solo che un fatto illecito sia posto in essere una seconda volta, ma che lo sia stato dopo che la precedente infrazione sia stata (quanto meno) contestata formalmente al medesimo lavoratore; ove tale contestazione per la precedente infrazione sia mancata, e non sia pertanto configurabile la recidiva, la reiterazione del comportamento, che si ha per effetto della mera ripetizione della condotta in sé considerata, non è però irrilevante, incidendo comunque sulla gravità del comportamento posto in essere dal lavoratore, che, essendo ripetuto nel tempo, realizza una più intensa violazione degli obblighi del lavoratore e può, pertanto, essere comunque sanzionato in modo più grave (Cass. n. 22162/2009). La stessa giurisprudenza aggiunge che soltanto la rilevanza autonoma, attribuita dalle fonti di regolazione del rapporto di lavoro alla recidiva, presuppone l'irrogazione di una sanzione disciplinare ed incontra il limite del biennio, mentre la valutazione della gravità dell'inadempimento si estende a tutti i fatti contestati al dipendente con l'avvio della procedura di licenziamento disciplinare, anche concernenti comportamenti tenuti in precedenza e per i quali il datore di lavoro non abbia ritenuto, nella sua autonomia, di irrogare sanzioni disciplinari, salva l'operatività del limite costituito dal principio di tempestività e senza che tale determinazione datoriale possa ritenersi idonea ad arrecare pregiudizio al diritto del lavoratore alla difesa (Cass. n. 27104/2006). Con l'ulteriore precisazione che la necessità di contestazione della recidiva sussiste quando questa rappresenti un elemento costitutivo dell'infrazione disciplinare e non quando la recidiva stessa sia assunta come criterio di determinazione dell'entità della sanzione a carico del lavoratore (Cass. n. 1313/1983).

Requisiti procedimentali

L'art. 7 l. n. 300/1970 ha introdotto obblighi procedimentali che il datore di lavoro deve osservare in caso di esercizio del potere disciplinare, essenzialmente al fine di consentire al lavoratore di conoscere preventivamente le infrazioni suscettibili di essere punite con l'irrogazione di sanzioni disciplinari e di permettergli di esporre le proprie difese a fronte degli addebiti imputatigli.

Anche questi obblighi costituiscono presupposti di quel potere, onde la loro violazione determina la nullità della sanzione (in dottrina: Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 230; in giurisprudenza: Cass. n. 5222/1987).

Ambito di applicabilità: il licenziamento disciplinare

La Corte cost. n. 204/1982 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dei primi tre commi del citato art. 7 l. n. 300/1970, interpretati nel senso che siano inapplicabili ai licenziamenti disciplinari, per i quali detti commi non siano espressamente richiamati dalla normativa legislativa, collettiva o validamente posta dal datore di lavoro. I tre commi in questione stabiliscono, rispettivamente, l'obbligo della previa affissione del codice disciplinare, quelli della previa contestazione degli addebiti e di sentire il lavoratore a sua difesa e il diritto di quest'ultimo di farsi assistere da un sindacalista.

È ormai consolidata in giurisprudenza la concezione ontologica del licenziamento disciplinare, secondo la quale tale è il licenziamento motivato da una condotta colposa o comunque manchevole del lavoratore, indipendentemente dalla sua inclusione o meno tra le misure disciplinari nella specifica regolamentazione del rapporto (v., tra le più recenti, Cass. n. 18270/2013; Cass. n. 14326/2012; Cass. n. 17652/2007).

Il codice disciplinare

Il citato art. 7 l. n. 300/1970 prevede anzitutto la necessaria pubblicità del codice disciplinare, obbligo che a sua volta presuppone quello di predeterminazione delle infrazioni, delle sanzioni e delle procedure di contestazione.

La forma di pubblicità imposta dalla norma è quella dell'affissione delle norme disciplinari in luogo accessibile a tutti, che la giurisprudenza intende nel senso che l'accesso deve essere libero e comodo, ossia senza difficoltà particolari, mentre non è richiesta l'affissione in un luogo in cui i dipendenti debbano passare necessariamente, né nelle bacheche aziendali (Cass. n. 20733/2007). Ove l'impresa sia articolata in più unità produttive, l'affissione deve essere effettuata in ciascuna sede, stabilimento e reparto autonomo e che altrettanto deve avvenire qualora l'impresa operi presso terzi, utilizzando locali di altri per tenervi materiali o persone (Cass. n. 247/2007).

L'inosservanza dell'onere di pubblicità del codice disciplinare non è esclusa dal fatto che l'affissione di questo nei locali dell'azienda si sia protratta per un certo periodo di tempo, essendo invece necessario che essa sia in atto al momento in cui il comportamento sanzionato è stato posto in essere (Cass. n. 3845/1997; secondo Cass. n. 4245/1985 e Cass. n. 3322/1984, è necessario che l'affissione sia in atto anche al momento della contestazione degli addebiti e dell'irrogazione della sanzione). Né l'obbligo di affissione ammette equipollenti, come la consegna di una copia del codice disciplinare ai dipendenti (Cass. n. 3845/1997; Cass. n. 474/1987) — e ciò neppure nel caso in cui il dipendente abbia partecipato, come sindacalista, alla stipulazione del contratto collettivo contenente il codice disciplinare (Cass. n. 7082/1991) — ovvero l'affissione nella bacheca aziendale di un avviso con l'indicazione della possibilità per i dipendenti interessati di consultare il codice di disciplina custodito in un ufficio dell'azienda medesima (Cass. n. 1861/1990). Infatti, quelle contenute nel codice disciplinare costituiscono disposizioni indirizzate ai lavoratori dipendenti non come singoli, ma come componenti di una collettività indeterminata e variabile (Cass. n. 4072/1990).

La giurisprudenza ritiene che l'affissione non sia necessaria ove il comportamento vietato e la sanzione applicabile siano previsti da disposizioni contenute in fonte normativa avente forza di legge, come tale ufficialmente pubblicata e conosciuta dalla generalità, come accade in alcuni casi nel pubblico impiego contrattualizzato (Cass. n. 56/2007; Cass. n. 25099/2006).

La giurisprudenza di legittimità ha limitato l'applicabilità di tale onere di pubblicità al licenziamento disciplinare, onere invece espresso in via generale dalla sentenza della Corte cost. n. 204/1985. Infatti essa afferma che il principio di necessaria pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica nei casi in cui il licenziamento sia irrogato per sanzionare condotte del lavoratore che concretizzano violazione di norme penali o che contrastano con il cosiddetto «minimo etico» ovvero con i doveri fondamentali del lavoratore, mentre deve essere data adeguata pubblicità al codice disciplinare con riferimento a comportamenti che violano mere prassi operative, non integranti usi normativi o negoziali (Cass. n. 22626/2013; Cass. n. 20270/2009; Cass. n. 19306/2004).  La più recente giurisprudenza ha ormai esteso il principio della non necessità dell’affissione del codice disciplinari in caso di comportamenti immediatamente percepibili dal lavoratore come illeciti, in quanto contrari al  minimo etico o a norme di rilevanza penale anche alle sanzioni conservative (Cass. n. 21032/2016; Cass. n. 1926/2011; Cass. n. 17763/2004; per il diverso, più rigoroso e risalente orientamento, v., da ultimo, Cass. n. 12735/2003).  In alcune occasioni, ancor più radicalmente, è stato deciso che, poiché, a differenza che per le sanzioni disciplinari conservative, per le quali, a fronte di un potere disciplinare solo genericamente previsto dall'art. 2106, sussiste, per il suo concreto esercizio, l'esigenza della predisposizione di una normativa secondaria d'integrazione e specificazione, con conseguente onere della pubblicità di quest'ultima, per le sanzioni espulsive non sussiste alcun onere in tal senso a carico del datore di lavoro, atteso che, indipendentemente dal richiamo o dalla previsione di determinate analoghe condotte, punibili con il recesso, nella pattuizione collettiva, il potere di licenziamento è attribuito direttamente dalla legge al verificarsi di situazioni che ne integrino la giusta causa o il giustificato motivo (Cass. n. 21378/2004; Cass. n. 4593/1998).

Per quel che concerne invece le modalità di redazione del codice disciplinare, la giurisprudenza ha affermato che deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di prescrizioni attinenti all'organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, ed illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell'impresa per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare, che è pertanto sufficiente sia redatto in forma tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e da indicare le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze (Cass. n. 33811/2021). 

La contestazione dell'addebito

La contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, seppure senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati (Cass. n. 10662/2014; Cass. n. 18377/2006). Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato (Cass. n. 10662/2014; Cass. n. 23223/2010; Cass. n. 5115/2010).

La giurisprudenza afferma che l'errata indicazione del giorno in cui sarebbe stato commesso il fatto addebitato assume un valore decisivo ai fini della correttezza della contestazione quando pregiudica il diritto alla prova di fatti a propria discolpa spettante al dipendente (Cass. n. 15006/2013), non anche quando il tenore della contestazione sia tale da consentire comunque al lavoratore di individuare nella loro materialità i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari (Cass. n. 11933/2003).

La contestazione non deve concernere, invece, anche le prove dell'addebito (Cass. n. 22236/2007).

La contestazione degli addebiti deve inoltre essere tempestiva e la giurisprudenza è consolidata nel senso che tale requisito va inteso in senso relativo, dovendosi tenere conto della specifica natura dell'illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l'espletamento delle indagini, maggiore quanto più è complessa l'organizzazione aziendale (Cass. n. 1246/2016; Cass. n. 20719/2013; Cass. n. 2580/2009); il ritardo nella contestazione non può comunque essere giustificato dal fatto che i superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione commessa dal lavoratore (Cass. n. 35665/2021). In caso di illecito continuato il rispetto del principio dell'immediatezza della contestazione dell'addebito va valutato con riferimento al momento di cessazione della continuazione, dovendosi ritenere che in tale momento il datore di lavoro abbia la possibilità di valutare i fatti nel loro insieme e stabilire la congrua sanzione da infliggere (Cass. n. 2283/2010).

Più in generale, ai fini della valutazione dell'immediatezza della contestazione, occorre tener conto del momento dell'avvenuta conoscenza da parte del datore di lavoro della situazione contestata e non di quello dell'astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 21546/2007).

Ulteriore requisito della contestazione dell'addebito disciplinare è la sua immodificabilità, principio che preclude al datore di lavoro di licenziare per motivi diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati a distanza anche superiore ai due anni, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio (Cass. n. 1145/2011; Cass. n. 21795/2009; Cass. n. 7734/2003). Analogamente, si ritiene che il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, non può ritenersi violato qualora, contestati atti idonei ad integrare un'astratta previsione legale, il datore di lavoro alleghi, nel corso del procedimento disciplinare, circostanze confermative o ulteriori prove, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre (Cass. n. 6091/2010). Così come si afferma che il principio in esame non esclude in linea di principio modificazioni dei fatti contestati concernenti circostanze non significative rispetto alla fattispecie, eventualità che ricorre quando le modificazioni non configurano elementi integrativi di una diversa fattispecie di illecito disciplinare, non risultando in tal modo preclusa la difesa del lavoratore (Cass. n. 12644/2005).

In definitiva, può dirsi, in termini generali, che la giurisprudenza è nel senso che violazione del principio di immutabilità della contestazione non può essere ravvisata in ogni ipotesi di divergenza tra i fatti posti a base della contestazione iniziale e quelli che sorreggono il provvedimento disciplinare, occorrendo verificare se tale divergenza comporti in concreto una violazione del diritto di difesa del lavoratore (Cass. n. 9167/2003; Cass. n. 8956/1993).

Il diritto di difesa del lavoratore

Si ritiene in giurisprudenza che l'art. 7 l. n. 300/1970 non comporta in ogni caso l'obbligo per il datore di lavoro di convocare il lavoratore per consentirgli di discolparsi oralmente, atteso che è in facoltà di quest'ultimo di esercitare il suo diritto di difesa nella più completa libertà di forme e, dunque, anche per iscritto o mediante l'assistenza di un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisca o conferisca mandato (Cass. n. 1661/2008; Cass. n. 11279/2000). Pertanto quell'obbligo è correlato alla manifestazione tempestiva (entro il quinto giorno) della volontà del lavoratore di essere sentito di persona (Cass. n. 4435/2004; Cass. n. 12735/2003).

La stessa giurisprudenza aggiunge però che il datore di lavoro non possa omettere l'audizione del lavoratore incolpato il quale, ancorché abbia inviato una compiuta difesa scritta, ne abbia fatto espressa richiesta; tuttavia, tale volontà deve essere comunicata in termini univoci, a tutela dell'affidamento del datore di lavoro (Cass. n. 21899/2010).

La giurisprudenza afferma che il termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito di cui all'art. 7, comma 5, l. n. 300/1970, non ha per il lavoratore natura decadenziale della facoltà di richiedere l'audizione a difesa, sicché è illegittima la sanzione disciplinare che sia stata comminata ignorando la richiesta presentata oltre detto termine, ma prima dell'adozione del provvedimento disciplinare (Cass. n. 23140/2015).

È stato deciso anche che ove il lavoratore, pur dopo la scadenza del termine di cinque giorni dalla contestazione dell'addebito, richieda un supplemento di difesa, seppure la stessa si sia già svolta con l'audizione personale o con la presentazione di giustificazioni scritte, l'obbligo del datore di lavoro di dar seguito alla richiesta del lavoratore sussiste solo ove la stessa risponda ad esigenze di difesa non altrimenti tutelabili, in quanto non sia stata possibile la piena realizzazione della garanzia apprestata dalla legge; conseguentemente, la presentazione di ulteriori difese dopo la scadenza del tempo massimo deve essere consentita solo nell'ipotesi in cui entro questo termine il lavoratore non sia stato in grado di presentare compiutamente la propria confutazione dell'addebito e la valutazione di questo presupposto va operata alla stregua dei principi di correttezza e buona fede che devono regolare l'esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro (Cass. n. 488/2005).

Per converso, il provvedimento disciplinare può essere legittimamente irrogato anche prima della scadenza del termine suddetto allorché il lavoratore abbia esercitato pienamente il proprio diritto di difesa facendo pervenire al datore di lavoro le proprie giustificazioni, senza manifestare alcuna esplicita riserva di ulteriori produzioni documentali o motivazioni difensive (Cass. S.U., n. 6900/2003; Cass. n. 1884/2012; Cass. n. 2873/2004).

Si ritiene che il datore di lavoro sia tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, laddove l'esame degli stessi sia necessario per predisporre un'adeguata difesa (Cass. n. 6337/2013; Cass. n. 23304/2010).

L'adozione della sanzione

Nella comunicazione della sanzione disciplinare (anche di quella espulsiva) il datore di lavoro ben può limitarsi a far riferimento sintetico a quanto già contestato, non essendo tenuto, neppure nel caso in cui il contratto collettivo preveda espressamente l'indicazione dei motivi, ad una motivazione penetrante, analoga a quella dei provvedimenti giurisdizionali, né in particolare esso è tenuto a menzionare nel provvedimento disciplinare le giustificazioni fornite dal lavoratore dopo la contestazione della mancanza e le ragioni che lo hanno indotto a disattenderle (Cass. n. 1026/2015).

Profili processuali

La giurisprudenza ha espresso l'opinione secondo la quale la nullità di una sanzione disciplinare per violazione del procedimento finalizzato alla sua irrogazione rientra tra quelle c.d. di protezione poiché ha natura inderogabile ed è posta a tutela del contraente più debole del rapporto, vale a dire il lavoratore, sicché è rilevabile d'ufficio (Cass. n. 17286/2015).

Dalla qualificazione della potestà di infliggere sanzioni disciplinari come riservata alla discrezionalità dell'imprenditore ex art. 2106, la giurisprudenza fa discendere che il giudice, adito dal lavoratore per l'annullamento di una sanzione, non può, senza esserne richiesto dall'attore, che ammetta la propria responsabilità ma invochi conseguenze più tenui, e senza alcuna eccezione da parte dell'imprenditore, titolare del potere, convertirla in altra meno grave, a ciò ostando il divieto di ultra ed extrapetizione posto dall'art. 112 c.p.c. (Cass. n. 5753/1995; nello stesso senso, in dottrina, Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 230). Ciò salvo il solo caso in cui l'imprenditore abbia superato il massimo edittale e la riduzione consista, perciò, soltanto in una riconduzione a tale limite (in giurisprudenza: Cass. n. 22150/2015; Cass. n. 8910/2007; in dottrina: Fontana, 343).

Si precisa, poi, che è invece è ammissibile la conversione del licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, in quanto le dette causali del recesso datoriale costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso, onde il giudice — senza incorrere in violazione dell'art. 112 c.p.c. — può valutare un licenziamento intimato per giusta causa come licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora — fermo restando il principio dell'immutabilità della contestazione, e persistendo la volontà del datore di lavoro di risolvere il rapporto — attribuisca al fatto addebitato al lavoratore la minore gravità propria di quest'ultimo tipo di licenziamento (Cass. n. 12884/2014; Cass. n. 837/2008; Cass. n. 17604/2007).

La stessa giurisprudenza riconosceva che nell'ipotesi in cui lo stesso datore di lavoro, convenuto in giudizio per l'annullamento della sanzione, chieda la riduzione della sanzione per l'ipotesi in cui il giudice, in accoglimento della domanda del lavoratore, ritenga eccessiva la sanzione già inflitta, l'applicazione all'esito del giudizio di una sanzione minore era da ritenersi legittima poiché la stessa non implica la sottrazione della sua autonomia all'imprenditore e realizza l'economia di un nuovo ed eventuale giudizio valutativo, avente ad oggetto la sanzione medesima (Cass. n. 8910/2007). Tale orientamento è contrastato da altra, più recente, pronuncia (Cass. n. 22150/2015), secondo la quale invece il giudice non potrebbe applicare la sanzione meno grave neppure nel caso in cui sia lo stesso datore di lavoro a chiederlo, pena lo snaturamento della posizione istituzionale del giudice e di quella sociale dell'imprenditore.

Bibliografia

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