Codice Civile art. 2107 - Orario di lavoro.Orario di lavoro. [I]. La durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro non può superare i limiti stabiliti dalle leggi speciali [o dalle norme corporative] [2108; 36 2 Cost.] (1) (2). (1) Le disposizioni richiamanti le norme corporative devono ritenersi abrogate in seguito alla soppressione dell'ordinamento corporativo. (2) V. r.d.l. 15 marzo 1923, n. 692; r.d. 10 settembre 1923, n. 1955; r.d. 10 settembre 1923, n. 1957; r.d. 6 dicembre 1923, n. 2657. InquadramentoL'art. 2107 afferma il principio secondo cui sono le leggi e i contratti collettivi (così dovendosi ormai intendere il rinvio alle norme corporative) che stabiliscono i limiti della durata giornaliera e settimanale della prestazione di lavoro. Dal canto suo, l'art. 36, comma 2, Cost., con riferimento all'orario giornaliero, configura una riserva di legge comunemente ritenuta di carattere relativo (in dottrina, Carinci- De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 180; Ichino-Valente, 79), onde è sicuramente legittimo il rinvio alla contrattazione collettiva operato dalla norma codicistica (oltre che, come si vedrà, dalla normativa della legge speciale). La disciplina dell'orario di lavoro è ora contenuta essenzialmente nel d.lgs. n. 66/2003. Nozione di orario di lavoroA norma dell'art. 1 d.lgs. n. 66/2003, per orario di lavoro si deve intendere «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni». Ad avviso della giurisprudenza, tale definizione legislativa attribuisce un alternativo rilievo, non solo al tempo della prestazione effettiva, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro (Cass. n. 20694/2015; in dottrina, v. Ichino-Valente, 115, che, aderendo alla giurisprudenza comunitaria, ritengono che debba essere qualificata come orario di lavoro l'attività rispetto alla quale ricorrono almeno due dei tre requisiti — l'essere al lavoro, l'essere a disposizione del datore di lavoro, l'esercizio dell'attività e delle funzioni — indicati dalla norma). Pertanto, i tempi di attesa degli autisti, durante le operazioni di carico e scarico merci, vanno considerati di lavoro effettivo e come tali da retribuirsi (Cass. n. 20694/2015), analogamente al tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro dopo aver timbrato il cartellino marcatempo (Cass. n. 13466/2017)e a quello necessario per il trasferimento dal luogo di ricovero del mezzo aziendale e quello dove il personale tecnico è chiamato ad eseguire il primo intervento della giornata lavorativa (Cass. n. 37286/2021). Altra applicazione di tale principio è stata fatta da Cass. n. 19738/2015, secondo la quale, ai fini della determinazione della durata dell'orario di lavoro, non possono ritenersi discontinue le mansioni del lavoratore addetto, oltre che all'attività di autista, anche a piccole incombenze all'interno dello stabilimento del datore di lavoro. Più in generale, la differenza tra il riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità (Cass. n. 5023/1999). Per quanto riguarda poi il c.d. tempo-tuta (vale a dire il tempo necessario per indossare l'abbigliamento di servizio) la giurisprudenza afferma che esso costituisce tempo di lavoro soltanto ove qualificato da eterodirezione, (Cass. n. 9215/2012) la quale può derivare dall'esplicita disciplina d'impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell'abbigliamento (Cass. n. 1352/2016) . Conforme la dottrina: Ichino-Valente, 125. Analogamente, con riferimento al tempo necessario ad indossare la divisa aziendale, la giurisprudenza ha stabilito che esso rientra nell'orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro onde la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, deve essere eseguita nell'ambito della disciplina d'impresa ed è autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria (Cass. n. 692/2014; Cass. n. 19358/2010). Rientrano sicuramente nell'orario di lavoro i tempi necessari al lavoratore per indossare gli indumenti protettivi necessari per la salvaguardia della sua integrità fisica: in dottrina, Ichino-Valente, 126. La giurisprudenza afferma che il servizio di reperibilità si configura come una prestazione accessoria, strumentale e qualitativamente diversa dal lavoro effettivo sicché i periodi in reperibilità non possono essere assimilabili ai periodi di mancato riposo (Cass. n. 19936/2015; Cass. n. 13055/1995). L'orario settimanaleL'art. 3 d.lgs. n. 66/2003 fissa in 40 ore l'orario settimanale «normale». Essa, poi, conferisce ai contratti collettivi la facoltà di prevedere una durata minore e, soprattutto, un regime di orario c.d. “multiperiodale”, nel senso che essi possono prevedere come orario normale quello riferito alla durata media delle prestazioni lavorative per periodi ultrasettimanali non superiori all'anno. La dottrina prevalente si esprime nel senso che, affinché la contrattazione collettiva possa prevedere una ripartizione dell'orario plurisettimanale, non è necessario che essa debba contemporaneamente stabilire una riduzione dell'orario settimanale (Del Punta, X; Putaturo Donati, 25). L'art. 4 dello stesso d.lgs. demanda ai contratti collettivi anche la determinazione dell'orario settimanale «massimo», stabilendo però che esso non può superare, per un periodo di sette giorni le 48 ore, comprese quelle di lavoro straordinario; con la precisazione che la durata media deve essere calcolata in riferimento ad un periodo non superiore a quattro mesi, arco temporale elevabile dalla contrattazione collettiva a sei o a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi. L'orario giornalieroIl d.lgs. n. 66/2003 non fa alcun riferimento alla durata giornaliera della prestazione lavorativa. Prescrive tuttavia che il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore (art. 7) e da tale prescrizione si desume indirettamente che la durata della giornata lavorativa non possa superare le 13 ore (dottrina unanime: Del Punta, XIV; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 184). Lo stesso legislatore ha comunque previsto eccezioni a tale limite per determinate categorie di lavoratori ed ha attribuito alla contrattazione collettiva la possibilità di introdurre ulteriori eccezioni (art. 17). Lo jus variandi datoriale sulla collocazione temporale dell'orarioLa giurisprudenza ha affermato che i limiti allo ius variandi dell'imprenditore nei contratti di lavoro part-time non sono estensibili al contratto di lavoro a tempo pieno, nel quale un'eguale tutela del tempo libero del lavoratore si tradurrebbe nella negazione del diritto dell'imprenditore di organizzare l'attività lavorativa, diritto che può subire limiti solo in dipendenza di accordi che lo vincolino o lo condizionino a particolare procedure (Cass. n. 4507/1993). In senso contrario, in dottrina, Ichino-Valente, 51, secondo i quali la determinazione dei confini temporali esterni della prestazione lavorativa deve considerarsi oggetto di codeterminazione pattizia tra le parti e dunque non suscettibile di variazioni disposte unilateralmente dal datore di lavoro, a meno che una simile facoltà sia allo stesso attribuita dal contratto individuale o collettivo. 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