Codice Civile art. 2113 - Rinunzie e transazioni (1).

Paolo Sordi

Rinunzie e transazioni (1).

[I]. Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide.

[II]. L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza [36 3 Cost.], entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima.

[III]. Le rinunzie e le transazioni di cui ai commi precedenti possono essere impugnate con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà.

[IV]. Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile (2).

(1) Articolo così sostituito dall'art. 6 l. 11 agosto 1973, n. 533. Il testo recitava: «[I]. Le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge o da norme corporative, non sono valide. [II]. L'impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro tre mesi dalla cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. [III]. Resta salva, in caso di controversia l'applicazione degli articoli 185, 430 e 431 del codice di procedura civile».

(2) Comma modificato dall'art. 31, l. 4 novembre 2010, n. 183, che ha sostituito alle parole «ai sensi degli articoli 185, 410 e 411», le parole «ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater». L'art. 7, d.l. 12 settembre 2014 n. 132, conv., con modif. in l. 10 novembre 2014, n. 162, aveva aggiunto, in fine, la frase «o conclusa a seguito di una procedura di negoziazione assistita da un avvocato». Tale modifica è decaduta in sede di conversione.

Inquadramento

La norma in esame stabilisce la generale invalidità delle rinunzie e delle transazioni del lavoratore aventi ad oggetto diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto.

La dottrina (Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 461; Ferraro, 12; Ghera, 232; Pera, 1990, 30) e la giurisprudenza (Cass. n. 11181/1998; Cass. n. 10575/1990) qualificano tale invalidità in termini di annullabilità, poiché il secondo comma dell'art. 2113 dispone che essa può essere fatta valere entro un determinato termine di decadenza (sei mesi dalla cessazione del rapporto ovvero dalla data del negozio, se successivo).

Lo scopo della norma è quello di offrire al lavoratore uno strumento di impugnativa degli atti di disposizione che potrebbero esser stati determinati dalla sua situazione di soggezione e di debolezza nei confronti del datore di lavoro (Ghera, 230).

Per tale motivo, nei casi in cui il negozio dismissivo sia stato compiuto in sedi in cui deve considerarsi adeguatamente tutelata la formazione di una genuina volontà del prestatore (davanti al giudice, alle commissioni di conciliazione costituite presso l'Ufficio provinciale del lavoro, al collegio di conciliazione e arbitrato e alle commissioni abilitate alla certificazione dei contratti di lavoro, nonché in sede sindacale, cui deve aggiungersi la procedura di negoziazione assistita ex art. 2-bis d.l. n. 132/2014), lo stesso art. 2113 esclude l'operatività della generale sanzione di invalidità da esso prevista, dovendosi in tali casi superare la presunzione di non libertà del consenso del lavoratore (Cass. n. 16283/2004).

Peraltro in dottrina, alla teoria soggettivistica, secondo cui l'invalidità deriverebbe da una presunzione di vizio del consenso del lavoratore, determinata dalla incapacità giuridica relativa di costui, esistente solo nei confronti del datore di lavoro, a causa della posizione di soggezione in cui si trova il prestatore (F. Santoro-Passarelli, 54; Cester, 989), si contrappone una teoria oggettivistica, per la quale l'invalidità nascerebbe da una precisa volontà del legislatore di sottrarre persino al titolare dei diritti inderogabili la possibilità di disporne, e ciò non solo per la tutela del singolo, ma anche per la protezione dell'interesse collettivo dei lavoratori che verrebbe vulnerato, in via mediata, da tali atti (Prosperetti, 63).

Ambito soggettivo di applicabilità dell'art. 2113

Decisamente prevalente in dottrina è la tesi secondo la quale il richiamo alla figura del prestatore di lavoro contenuto nella norma in esame, in virtù della sua genericità, non può non coincidere con quella di lavoratore in senso ampio e atecnico, idoneo a comprendere, pertanto, tutte le fattispecie di cui all'art. 409 c.p.c. (Cester, 1000).

In particolare, debbono ritenersi compresi nell'ambito di applicabilità della norma i c.d. rapporti di lavoro parasubordinato di cui al n. 3 della richiamata norma del codice di rito (in dottrina, Ferraro, 2; Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 463; Ghera, 231; in giurisprudenza, Cass. n. 9636/2003; Cass. n. 7111/1995; Cass. n. 1359/1993).

Pacifica è anche l'applicazione dell'art. 2113 ai rapporti di lavoro alle dipendenze di enti pubblici, tanto quelli contemplati dall'art. 409, quanto quelli di cui all'art. 63 d. lgs. n. 165/2001.

Con riferimento alle rinunce e alle transazioni concluse direttamente dai congiunti del lavoratore ed aventi ad oggetto i diritti ad essi assicurati iure proprio dall'art. 2122, la dottrina è divisa tra quanti li ritengono soggetti al regime di generale invalidità previsto dall'art. 2113 (Pera, 1988, 62) e quanti sostengono invece la tesi opposta (Ferraro, 11).

I diritti oggetto della tutela

La giurisprudenza distingue tra diritti già maturati (eventualmente anche già oggetto di accertamento in sede giudiziale: Cass. n. 27940/2017), rispetto ai quali il negozio dispositivo integra una mera rinuncia o transazione che, in caso di dipendenza del diritto da norme inderogabili, è soggetto all'art. 2113 e dunque annullabile, ma non nullo, e diritti ancora non sorti o maturati (eventualmente anche perché ancora controversi: Cass. n. 1887/2022), rispetto ai quali la preventiva disposizione è nulla per mancanza dell'oggetto ai sensi degli artt. 1418, secondo comma, e 1325 c.c.(Cass. n. 14510/2019, rispetto al diritto alla liquidazione del t.f.r., che non può ritenersi entrato nel patrimonio del lavoratore prima della cessazione del rapporto nonostante l'avvenuto accantonamento delle somme), ovvero perché, diretta a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro in maniera diversa da quella fissata dalle norme di legge o di contratto collettivo (Cass. n. 12561/2006; Cass. n. 12548/1998; nonché Cass. n. 13834/2001 in un caso di rinuncia all'incidenza dell'anzianità maturata ad una certa data del rapporto di lavoro sui diritti, derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, ancora non acquisiti nel patrimonio del rinunciante).

Diritti indisponibili da parte del lavoratore non devono ritenersi soltanto quelli di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che la ratio dell'art. 2113 consiste nella tutela del lavoratore, quale parte più debole del rapporto di lavoro, la cui posizione in via ordinaria viene disciplinata attraverso norme inderogabili, salvo che vi sia espressa previsione contraria (Cass. n. 2734/2004, che ha affermato l'annullabilità della transazione riguardante diritti di natura retributiva come il compenso per il plus orario e relativi accessori; invece, nel senso che l'art. 2113 non avrebbe l'effetto di rendere annullabili tutte le rinunce e le transazioni del lavoratore indipendentemente dalla natura dei diritti che ne costituiscono oggetto, ma si riferirebbe specificamente ai diritti di natura retributiva e risarcitoria derivanti al lavoratore dalla lesione di fondamentali diritti alla persona, Cass. n. 3233/1999).

L'indisponibilità dei diritti del lavoratore subordinato derivanti dalle norme imperative (come ad esempio il diritto al riposo settimanale fruito in modo frazionato) non comporta l'indisponibilità del diritto al risarcimento dei danni conseguenti alla violazione di tali diritti e, conseguentemente, non esclude che quest'ultimo diritto, anche se derivante, in via mediata e indiretta, da norma inderogabile di legge, possa formare oggetto di transazione (Cass. n. 153/1999; Cass. n. 12556/1998).

Secondo consolidata giurisprudenza, non rientrano nell'ambito della tutela apprestata dalla norma in commento le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la cessazione del rapporto di lavoro, stante la piena disponibilità dello stesso, poiché, anche quando è garantita la stabilità del posto di lavoro, l'ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso, in base all'art. 2118 (Cass. n. 6265/2014; Cass. n. 22105/2009; Cass. n. 5940/2004).

Tuttavia, nell'ipotesi in cui la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro o le dimissioni siano poste in essere nell'ambito di un contesto negoziale complesso, il cui contenuto investa anche altri diritti del prestatore derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall'autonomia collettiva, il precetto posto dall'art. 2113 trova applicazione in relazione all'intero contenuto dell'atto (che è quindi soggetto a impugnazione), sempre che la clausola relativa alle dimissioni non sia autonoma, ma strettamente interdipendente con le altre e che i diritti inderogabili transatti siano noti e specificati (Cass. n.18285/2009; Cass. n. 12301/2003).

Ad avviso della giurisprudenza, sono validi, in linea di principio, i patti conclusi tra i lavoratori ed il datore di lavoro per la sospensione del rapporto di lavoro, perché non hanno ad oggetto diritti di futura acquisizione e non concretano rinunzia alla retribuzione, invalida ex art. 2113, atteso che la perdita del corrispettivo discende dalla mancata esecuzione della prestazione (Cass. n. 7843/2003).

Quanto all'omesso versamento della contribuzione previdenziale, la giurisprudenza ha chiarito che gli atti di disposizione, ai quali si applica la disciplina dell'art. 2113, debbono attenere alle conseguenze patrimoniali del mancato o irregolare versamento dei contributi e non già all'obbligo del datore di lavoro di corrispondere i contributi all'Inps, perché quest'obbligo non può mai venir meno per effetto di pattuizioni intercorse tra il datore di lavoro ed il lavoratore all'inizio o durante lo svolgimento del rapporto, essendo queste espressamente travolte dalla nullità ex art. 2115 ed inoperanti nei confronti dell'ente previdenziale (Cass. n. 3184/2019; Cass. n. 6221/2009).

I negozi abdicativi oggetto della norma

Quale criterio generale, possono assumere efficacia transattiva o abdicativa solamente i negozi dai quali possa desumersi la consapevolezza del lavoratore dei diritti oggetto della transazione o della rinuncia.

Conseguentemente, la giurisprudenza esclude che le generiche quietanze a saldo abbiano sostanza transattiva, ovvero possano integrare una rinuncia a tutti gli eventuali diritti connessi al rapporto ed alle azioni esercitabili in dipendenza di essi in difetto del necessario presupposto che il lavoratore abbia avuto l'esatta rappresentazione dei diritti che intendeva dismettere in favore dell'altro contraente, onde si tratta di mere dichiarazioni di scienza inutilizzabili dal datore di lavoro indipendentemente da una tempestiva impugnazione ex art. 2113 da parte del lavoratore (Cass. n. 578/2011; Cass. n. 11536/2006; Cass. n. 9407/2001).

Analogamente, l'accordo transattivo sottoscritto dal lavoratore, che contenga una dichiarazione di rinuncia «all'eventuale risarcimento danni per qualsiasi titolo», può assumere il valore di rinuncia o di transazione, che il lavoratore ha l'onere di impugnare nel termine di cui all'art. 2113, alla condizione che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (Cass. n.  9160/2022)

Restano impugnabili ai sensi del l'art. 2113 nel termine di sei mesi le rinunce e transazioni anche se intervenute dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio (Cass. n. 13616/2002).

L'impugnazione del negozio

Ad avviso della giurisprudenza, l'atto stragiudiziale di impugnazione di rinunce e transazioni non richiede alcuna formula specifica, ben potendo risultare anche implicitamente dall'atto stesso la volontà di invalidare l'atto abdicativo (Cass. n. 5582/1999; Cass. n. 77/1995).

La giurisprudenza ha espresso l'avviso secondo il quale l'impugnazione di una rinuncia o transazione ex art. 2113 da parte del lavoratore ne determina l'automatica caducazione anche se proposta oltre il termine di sei mesi prescritto dalla citata disposizione, essendo onere del datore di lavoro che intenda far valere la rinuncia o la transazione eccepire la decadenza del lavoratore dalla impugnazione nel termine di cui all'art. 416 c.p.c. (Cass. n. 13466/2004). Sulla non rilevabilità d'ufficio di tale decadenza, v. anche Cass. n. 908/1995.

L'impugnativa avverso rinunce e transazioni non può essere proposta autonomamente dall'organizzazione sindacale di appartenenza del lavoratore, ove sia mancato il conferimento da parte di questi di poteri di rappresentanza (Cass. n. 77/1995). Può invece essere validamente effettuata con atto sottoscritto da un legale per conto del lavoratore senza necessità che l’atto sia preceduto da procura scritta (Cass. n. 29626/2021).

Le rinunce e le transazioni valide

Secondo la giurisprudenza, l'intervento dell'ufficio territoriale del lavoro è in sé idoneo a sottrarre il lavoratore a quella condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che rende sospette di prevaricazione da parte di quest'ultimo le transazioni e le rinunce intervenute nel corso del rapporto in ordine a diritti previsti da norme inderogabili, sia allorché detto organismo partecipi attivamente alla composizione delle contrastanti posizioni delle parti, sia quando in un proprio atto si limiti a riconoscere, in una transazione già delineata dagli interessati in trattative dirette, l'espressione di una volontà non coartata del lavoratore (Cass. n. 17785/2002; Cass. n. 3149/1987).

Per quanto concerne invece le conciliazioni concluse in sede sindacale, la giurisprudenza è ormai ferma nel ritenere che esse non sono impugnabili solamente a condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali - della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale - sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall'atto stesso si evinca la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo (Cass. n. 24024/2013; Cass. n. 13127/2008; Cass. n. 12858/2003; nello stesso senso la dottrina: Carinci-De Luca Tamajo-Tosi-Treu, 465).

Esse, poi, debbono risultare da un documento sottoscritto contestualmente dalle parti nonché dal rappresentante sindacale di fiducia del lavoratore (Cass. n. 13910/1999).

Peraltro la giurisprudenza esclude che la conciliazione in sede sindacale abbia natura di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, onde il lavoratore può limitarsi a disconoscere la propria sottoscrizione, facendo ricadere sulla controparte l'onere di chiederne la verificazione (Cass. n. 9255/2011).

Alle ipotesi contemplate dall'ultimo comma dell'art. 2113 debbono aggiungersi quelle disciplinate dall'art. 11, comma 3, d.lgs. n. 124/2004, dall’art. 82 d.lgs. n. 276/2003 e dall’art. 2-bis d.l. n. 132/2014 (introdotto dal d.lgs. n. 149/2022).

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