Codice Civile art. 2390 - Divieto di concorrenza (1).

Guido Romano

Divieto di concorrenza (1).

[I]. Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un'attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell'assemblea.

[II]. Per l'inosservanza di tale divieto l'amministratore può essere revocato dall'ufficio e risponde dei danni.

(1) V. nota al Capo V.

Inquadramento

L'art. 2390 dà rilievo ad un conflitto potenziale di interessi, mirando ad evitare che l'amministratore, durante il suo ufficio, si trovi in situazioni di dannoso antagonismo con la società. Il divieto è, quindi, preordinato a tutelare la società ed è inteso a favorire il perseguimento dell'interesse della società da parte dell'amministratore, costituendo una sorta di tutela avanzata della società stessa, al fine di evitare che l'amministratore sia indotto a danneggiarla, facendole concorrenza. La violazione di tale divieto comporta dunque una lesione diretta del patrimonio della società e legittima la stessa alla proposizione dell'azione di risarcimento dei danni, la quale è diretta a far valere la responsabilità dell'amministratore, per la violazione di un dovere (il non fare concorrenza) inerente la sua carica (in giurisprudenza Trib. Torino, 18 ottobre 2013; Cass. n. 6558/2011).

Il contenuto del divieto

Al fine di enucleare il rapporto di concorrenzialità, la dottrina tende ad utilizzare i parametri di cui all'art. 2257 verificando caso per caso se sussista un rischio di sviamento di clientela, facendo riferimento alle categorie di consumatori e di clienti per accertare se esse siano o meno le stesse cui si rivolge l'altra società (Cottino, 399; Benassi, 519). Approfondendo detti concetti, la dottrina evidenzia come non sarebbe comunque sufficiente un mero raffronto degli oggetti statutari (Spiotta, 536; Giampaolino, 328); il rapporto concorrenziale deve essere concreto, includendo tutti gli aspetti qualificanti delle attività delle imprese prese in considerazione, ed attuale. Se, potenziale, deve fondarsi sulla ragionevole prevedibile circostanza che in futuro l'attività svolta dall'altra società abbia una proiezione evolutiva da porla in concorrenza con la società (Calandra Buonaura, 222).

Alla luce del disposto dell'articolo in commento secondo il quale l'amministratore non può esercitare una «attività» concorrente, si richiede l'assunzione di una posizione che comporti il sistematico esercizio concorrenziale di atti coordinati e unificati sul piano funzionale (Spiotta, 536) non essendo sufficiente ad integrare la fattispecie il compimento di un solo atto in concorrenza che, al limite, può integrare ipotesi di conflitti di interessi o di violazione del generale dovere di fedeltà (De Crescienzo, 807; Montagnani, 403).

L'articolo in commento vieta anche l'assunzione della carica di socio illimitatamente responsabile in società concorrenti. La violazione del divieto viene ricollegata alla semplice assunzione di tale posizione a nulla rilevando lo svolgimento in concreto o meno da parte dell'amministratore di specifiche attività (Calandra Buonaura, 229; Giampaolino, 328).

Sul punto è concorde la giurisprudenza di merito secondo la quale l'amministratore unico di una società a responsabilità limitata viola il divieto di non concorrenza se assume la qualità di socio illimitatamente responsabile di una società concorrente, indipendentemente dal concreto esercizio da parte di quest'ultima di attività imprenditoriale (Trib. Napoli, 19 gennaio 1999).

È, invece, consentita l'assunzione della qualità di socio limitatamente responsabile in una società concorrente (Giampaolino, 328).

L'autorizzazione dell'assemblea e la derogabilità del divieto

Il divieto di concorrenza non è, però, assoluto, in quanto la norma consente una deroga attraverso l'autorizzazione concessa con deliberazione dell'assemblea (ordinaria). L'assemblea ha, dunque, il potere di escludere il divieto o di delimitarne i confini sotto il profilo oggettivo. L'autorizzazione può essere concessa in riferimento ad una determinata operazione economica o genericamente a favore di tutte le operazioni concorrenziali che si pongono in essere con l'attività svolta per altra società (Giampaolino, 330). L'autorizzazione dell'assemblea costituisce atto irrevocabile ed è valida per tutta la durata del mandato (Spolidoro, 1369; Giampaolino, 330); in caso di rielezione dovrà essere rinnovata.

Ovviamente, l'autorizzazione non esonera l'amministratore dal dovere di perseguire l'interesse della società: l'autorizzazione, dunque, non determina l'automatica insindacabilità dell'attività concorrenziale, la quale deve comunque conformarsi agli altri doveri gravanti sugli amministratori e, in particolare, a quelli di cui all'art. 2391 che è deputato a regolare qualsiasi conflitto di interessi e che si applica anche all'amministratore autorizzato a svolgere una attività in concorrenza (Aiello, in Tr. Res., 2011, 77).

L'art. 2390 non pone alcuna condizione, neppure implicita, alla prevista autorizzazione, rimessa all'apprezzamento insindacabile della maggioranza assembleare seppure con i limiti, invalicabili, posti dall'art. 2391 (Cass. n. 560/2001, in motivazione). L'amministratore che sia anche azionista della società deve astenersi dal voto nella deliberazione assembleare che preveda l'autorizzazione a suo favore ad esercitare attività concorrenti (Trib. Trento, 6 luglio 1999).

L'inosservanza del divieto

L'amministratore inadempiente ai divieti posti dall'articolo in commento può essere revocato dal suo ufficio e convenuto in un giudizio di responsabilità ai fini risarcitori.

Si precisa che, in conformità con la dizione della norma (che usa il verbo «potere»), la revoca non è conseguenza automatica dell'accertata attività di concorrenza sleale, ma deve essere espressamente disposta dall'assemblea (Trib. Catania, 2 febbraio 1991).

In questo senso si esprime anche la dottrina che evidenzia come la revoca sia una «facoltà» rimessa all'assemblea che deve essere oggetto di specifica deliberazione (Montagnani, 417; Giampaolino, 331).

In giurisprudenza, l'azione risarcitoria è, invece, soggetta alla prova che la condotta dell'amministratore abbia cagionato alla società un danno effettivo (Trib. Milano, 2 febbraio 2006). Il danno è cagionato, comunque, alla società — che conseguentemente è l'unico soggetto legittimato ad agire — e non al socio (Cass. n. 6558/2011).

In dottrina, si evidenzia come il pregiudizio che il soggetto leso deve dimostrare di avere subito consiste nel decremento delle attività e nella perdita di occasioni di guadagno direttamente causati dall'attività antigiuridica della concorrente (Spolidoro, 1369).

Giudice competente

La giurisprudenza di merito ha talvolta qualificato l'azione di responsabilità esercitata nei confronti di un componente dell'organo amministrativo, rientrante tra le controversie di cui alla lett. a) del comma 2 dell'art. 3 d.lgs n. 168/2003, e non scaturente dalla violazione di obblighi connessi allo svolgimento di un rapporto inquadrabile tra quelli di cui all'art. 409 n. 3, c.p.c. (Trib. Torino, 18 ottobre 2013). In effetti, a seguito dell'istituzioni delle Sezione specializzate in materia di impresa, dovrebbe ritenersi attratta alla competenza di tali sezioni anche le controversie aventi ad oggetto la violazione del divieto posto dall'art. 2390 in quanto essi rientrano nella nozione di «rapporto societario» di cui al già richiamato art. 3, comma 2 lett. a).

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