Codice Civile art. 2394 bis - Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali (1).

Guido Romano

Azioni di responsabilità nelle procedure concorsuali (1).

[I]. In caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al commissario liquidatore e al commissario straordinario.

(1) V. nota al Capo V.

Inquadramento

L'articolo in commento è stato introdotto dalla riforma del diritto societario allo scopo di coordinare le normative quanto alla legittimazione attiva all'esercizio delle azioni di responsabilità prevedendosi che l'esperimento dell'azione sociale di responsabilità (anche se spettante alla minoranza azionaria) e di quella dei creditori sociali è riservata ai soggetti che curano la procedura (Nazzicone, 215).

La disposizione ha un contenuto meramente ricostruttivo in quanto ripete quanto già risulta da altre disposizioni. Infatti, l'art. 146 r.d. n. 267/1942 e l'art. 206 r.d. n. 267/1942 (l. fall.) prevedono, in maniera espressa, che, dopo l'apertura della procedura, le azioni richiamate sono esercitate dal curatore e dal commissario liquidatore. Inoltre, l'art. 36 d.lgs. n. 270/1999 rende applicabile alla procedura di amministrazione straordinaria, previo vaglio di compatibilità, le disposizioni sulla liquidazione coatta amministrativa, sostituito al commissario liquidatore il commissario straordinario e, dunque, anche il già richiamato art. 206 r.d. n. 267/1942.

Le domande proposte dal fallimento di una società nei confronti degli ex organi sociali per esercitare sia l'azione risarcitoria spettante alla società, sia quella competente ai creditori sociali per il ristoro dei danni conseguenti alla determinata insufficienza del patrimonio sociale devono essere conosciute dal tribunale, non operando la clausola contenuta nello statuto sociale che attribuisce ad arbitri la cognizione delle controversie fra la società e i suoi amministratori (Cass., n. 15830/2020, nel medesimo senso Trib. Roma, 9 dicembre 2019 secondo il quale non può accogliersi l'istanza di nomina di arbitri, proposta dal fallimento di una s.r.l. che intende agire in responsabilità nei confronti degli amministratori della società fallita: l'art. 810 c.p.c. prevede, infatti, che il presidente del Tribunale competente provvede alla nomina richiestagli se la convezione d'arbitrato non è manifestamente inesistente. Ebbene, dal momento che per effetto del fallimento di una società le diverse fattispecie di responsabilità degli amministratori, ex artt. 2392 e 2394 c.c. confluiscono in un'unica azione, dal carattere unitario ed inscindibile, deve concludersi per l'inoperatività della clausola compromissoria inserita nello statuto della società fallita, attesa la circostanza che il perimetro operativo di detta clausola non può ricomprendere l'azione che spetta, ex art. 2394 c.c. ai creditori sociali e, di riflesso, al curatore).

Le azioni esperibili dall'organo della procedura concorsuale

Secondo quanto disposto dall'articolo in commento, in caso di fallimento, liquidazione coatta amministrativa e amministrazione straordinaria le azioni di responsabilità previste dai precedenti articoli spettano al curatore del fallimento, al commissario liquidatore e al commissario straordinario.

Il curatore può esercitare solo le azioni di “massa” che sono finalizzate alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica e aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo (Cass. n. 16031/2008).

Rientra tra le azioni che “passano” al curatore l'azione dei soci di minoranza e ciò in quanto tale azione costituisce una normale azione sociale — la cui unica particolarità è costituita dalla legittimazione straordinaria accordata appunto agli azionisti titolari di una determinata aliquota del capitale sociale — il cui risultato utile va a vantaggio della società e, dunque, dell'intera compagine sociale (Spiotta, 960).

Non rimane assorbita dalla legittimazione del curatore l'azione individuale del socio o del terzo ai sensi dell'art. 2395 (Spiotta, 959).

In tema di azioni nei confronti dell'amministratore di società, a norma dell'art. 2395, il terzo (o il socio) è legittimato, anche dopo il fallimento della società, all'esperimento dell'azione (di natura aquiliana) per ottenere il risarcimento dei danni subiti nella propria sfera individuale, in conseguenza di atti dolosi o colposi compiuti dall'amministratore, solo se questi siano conseguenza immediata e diretta del comportamento denunciato e non il mero riflesso del pregiudizio che abbia colpito l'ente, ovvero il ceto creditorio per effetto della cattiva gestione, essendo altrimenti proponibile la diversa azione (di natura contrattuale) prevista dall'art. 2394, esperibile, in caso di fallimento della società, dal curatore, ai sensi dell'art. 146 l. fall. (Cass. n. 6870/2010).

Il curatore fallimentare è legittimato a esercitare l'azione di responsabilità contro gli amministratori della società fallita anche per i pagamenti preferenziali di crediti eseguiti in violazione del pari concorso dei creditori (Cass. S.U., n. 1641/2017).

Il carattere derivato dell'azione

È costante nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione secondo cui per effetto del fallimento di una società di capitali, le (diverse) fattispecie di responsabilità degli amministratori di cui agli artt. 2392 e 2394 confluiscono in un'unica azione, dal carattere unitario ed inscindibile (Cass. n. 25977/2008), all'esercizio della quale è legittimato, in via esclusiva, il curatore del fallimento, ai sensi dell'art. 146 l. fall., che può, conseguentemente, formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori, i liquidatori ed i sindaci tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità (contrattuale) di questi verso la società (artt. 2392, 2407), quanto a quelli della responsabilità (extracontrattuale) verso i creditori sociali (Cass. n. 10488/1988; Cass. n. 2251/1998). Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell'una che dell'altra azione (Cass. n. 10488/1988; Cass. n. 15955/2012; Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 17121/2010).

Rimane controverso, però, se ciascuna delle azioni mantenga invariati i propri presupposti e la propria disciplina. Secondo un primo orientamento, infatti, dall'unitarietà e dalla inscindibilità delle due azioni una volta confluite nelle mani del curatore deriva la sostanziale unicità dell'azione medesima alla quale va conferita natura esclusivamente contrattuale (Cass. n. 17121/2010; Cass. n. 6870/2010; Cass., n. 25977/2008).

Secondo altro orientamento giurisprudenziale, invece, se è vero che l'azione di responsabilità, esercitata dal curatore, cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394, onde il curatore può formulare istanze risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti della loro responsabilità contrattuale verso la società, quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale nei confronti dei creditori, è anche vero che, una volta effettuata la scelta nell'ambito di ogni singola questione, egli soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell'azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l'onere della prova e l'ammontare dei danni risarcibili (Cass. n. 15955/2012; Cass. n. 10378/2012; Cass. n. 24715/2015). In altre parole, la frequente affermazione secondo cui le due azioni di responsabilità costituiscono un'azione unica ed inscindibile, sta solo a significare che il medesimo curatore non potrebbe pretendere di esercitare separatamente tali azioni al fine di conseguire due volte il ripristino del patrimonio della società fallita, cui dette azioni concorrono; e significa che l'eventuale mancata specificazione del titolo per il quale il curatore agisce fa presumere che egli abbia inteso esercitare congiuntamente entrambi tali azioni. Quella espressione non può invece essere intesa nel senso della indifferenziazione delle domande proposte dall'organo della procedura ai sensi dell'art. 2393 o dell'art. 2394. Domande che, pur se ormai accomunate dalla comune legittimazione, continuano ad avere presupposti diversi e ad essere soggette ad un diverso regime giuridico (così, Cass. n. 13765/2007 in motivazione; Trib. Lecce, 9 dicembre 2011).

L'onere della prova e la decorrenza della prescrizione

Qualora si accolta l'orientamento sopra descritto secondo il quale dall'unitarietà e dalla inscindibilità delle due azioni una volta confluite nelle mani del curatore deriva la sostanziale unicità dell'azione medesima, la natura contrattuale di tale (unica) azione rende unitario il regime sia dell'onere della prova che della prescrizione. In particolare, in questa prospettiva, alla natura contrattuale dell'azione consegue che, mentre su chi la promuove grava esclusivamente l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su amministratori e sindaci l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti.

Qualora, invece, si acceda alla diversa ricostruzione che postula l'unitarietà solo formale delle due azioni che, invece, mantengono ciascuna i propri presupposti, deve necessariamente concludersi che tale diversità ha riflessi anche in tema di riparto dell'onere della prova e di decorrenza della prescrizione. In questa prospettiva, non sarebbe accoglibile la conclusione secondo la quale il curatore fallimentare, cumulando i vantaggi di ciascuna azione, non sarebbe mai tenuto a fornire la prova della colpa neanche in relazione alla (pur esercitata) azione dei creditori sociali. Per questa impostazione, dunque, gli oneri probatori cui sono assoggettate le parti, rimangono distinti per ciascuna delle azioni (azione sociale e azione dei creditori) concretamente esercitata.

La stessa conclusione riguarda il regime della prescrizione.

La clausola compromissoria eventualmente contenuta nello statuto sociale sarà opponibile al curatore solo in relazione all'azione sociale; non anche riguardo all'azione promossa dai creditori (Trib. Milano, 28 maggio 2015).

Il danno nelle azioni esercitate nelle procedure concorsuali. Il problema del criterio della differenza tra attivo e passivo

Recentemente, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno, dirimendo un contrasto giurisprudenziale durato decenni, nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, comma 2, r.d. n. 267/1942 (l. fall.), la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso ad esso sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo (Cass., n. 13220/2021Cass. S.U., n. 9100/2015). Su tale importante decisione si vedano i commenti di Bassi, Cabras, Cian, Fortunato, Galletti, Jorio, Montalenti, Racugno e Sacchi, in Giur. comm. 2015, II, 643).

L'identificazione del danno risarcibile con la differenza tra il passivo e l'attivo accertati in sede fallimentare (affermata in epoca risalente Cass. n. 1281/1977; Cass. n. 2671/1977 e da Cass. n. 6493/1985; nonché seguito dalla giurisprudenza di merito, cfr., per tutti, App. Bologna 5 febbraio 1997; Trib. Genova, 19 settembre 1988; Trib. Roma, 5 dicembre 1986; Trib. Catania 30 agosto 1986) era stata criticata in quanto lo sbilancio patrimoniale di una società insolvente può avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima dell'organo di gestione, ma talvolta ricollegabili al generale andamento del mercato ovvero ad altre congiunture verificatesi nel tempo (in questi termini, cfr., Cass. n. 2538/2005; Trib. Roma, 19 gennaio 1982; Cass. n. 10488/1998, ma si veda anche Cass. n. 9252/1997).

Nondimeno, la giurisprudenza continuava ad applicare il criterio in argomento in due ipotesi particolari costituite, la prima, dalla protrazione della attività imprenditoriale in presenza di una casa di scioglimento e, la seconda, dall'ipotesi in cui la contabilità era completamente omessa ovvero era tenuta in modo talmente frammentario e lacunoso da rendere difficile se non impossibile la ricostruzione della vita societaria. In tali ipotesi, si verificava una inversione dell'onere della prova, dovendosi presumere che il danno (costituito, appunto, dalle passività accumulate) era stato cagionato dalla condotta inadempiente dell'amministratore il quale, tuttavia, poteva andare esente dalla relativa condanna provando l'inesistenza del nesso causale ovvero che la propria condotta aveva cagionato un danno di minore entità (Cass. n. 5876/2011; Cass. n. 7606/2011). 

Ove, peraltro, il danno derivante dalle condotte inadempienti dell'amministratore sia quantificato nello sbilancio fallimentare non è possibile valorizzare, quale ulteriore voce del pregiudizio sofferto dall'ente, l'illegittima sottrazione delle somme corrispondenti agli utili non distribuiti ai soci (Cass., n. 9458/2021).

In ipotesi di illecito costituito dalla prosecuzione dell'attività pur in presenza del verificarsi di una causa di scioglimento della società proprio al fine di contemperare le difficoltà oggettive di individuazione del danno con la necessità di rispettare i principi generali in materia di nesso di causalità è stato individuato il criterio di liquidazione del danno costituito dalla differenza dei patrimoni netti: il danno viene calcolato nella differenza tra i patrimoni netti individuati nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento ed in quello del fallimento o del passaggio alla fase di liquidazione (cfr.,Cass. n. 4347/2022; Trib. Milano, 18 gennaio 2011; Trib. Roma, 22 settembre 2015; Trib. Roma, 4 agosto 2014).

Più precisamente, si procede, anche attraverso le opportune rettifiche delle voci di bilancio, dapprima all'individuazione del momento in cui si è verificata la perdita del capitale sociale — momento in cui gli amministratori della società, applicando la diligenza professionale, avrebbero dovuto assumere consapevolezza di detta perdita dando corso alle iniziative imposte dagli artt. 2484 e 2485 — e, quindi, alla determinazione del valore del patrimonio netto a quella data. Conseguentemente, si pongono a raffronto i patrimoni netti (rettificati) alla data così individuata ed a quella della dichiarazione di fallimento. La differenza tra i due valori costituirà il danno risarcibile derivante dalla illegittima prosecuzione dell'attività imprenditoriale (sul punto, Aratari-Iannaccone, 190 ss.)

In questo modo, all'amministratore viene, invece, addebitato esclusivamente l'aggravamento patrimoniale verificatosi per effetto della protrazione dell'attività imprenditoriale (c.d. perdita incrementale).

Sebbene appaia rispettoso, in via di principio, del principio di causalità, tale criterio non sfugge completamente ad un certo meccanicismo, in quanto l'attività che ha originato quelle perdite (incrementali) potrebbe essere funzionale alle esigenze di garanzia di conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale.

Pertanto, come osservato dalla dottrina, all'importo ottenuto mediante applicazione del criterio in argomento, dovrebbe comunque essere sottratto il valore di tutte le componenti che non derivano da operazioni speculative, ma che siano riconnesse ad attività di natura liquidatoria (detrimenti patrimoniali da aggiustamenti contabili che conseguono alla redazione del bilancio in una ottica liquidatoria; svalutazione di voci di immobilizzazioni; aggravamenti patrimoniali che derivano da scelte gestionali precedenti ma manifestatesi successivamente o da costi fissi della società etc.). (Aratari-Iannaccone, 196).

Oggi, però, il riformato art. 2486, comma 3, prevede che, quando è accertata la responsabilità degli amministratori per avere proseguito l'attività imprenditoriale in presenza di una causa di scioglimento, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.  La mancanza di scritture contabili, ovvero la loro sommarietà o inintelligibilità, non è di per sé sufficiente a giustificare la condanna dell'amministratore in conseguenza dell'impedimento frapposto alla prova occorrente ai fini del nesso eziologico rispetto ai fatti causativi del dissesto. La condanna, infatti, presuppone che sia comunque previamente assolto l'onere della prova circa l'esistenza di condotte per lo meno astrattamente causative di un danno patrimoniale, restando perciò applicabile il criterio del deficit fallimentare soltanto come criterio equitativo, per l'ipotesi di impossibilità di quantificare esattamente il danno in conseguenza dell'affermazione di esistenza della prova - almeno presuntiva - di condotte di tal genere (Cass. n. 15245/2022).

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