Codice Civile art. 2569 - Diritto di esclusività.Diritto di esclusività. [I]. Chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio idoneo a distinguere prodotti o servizi ha diritto di valersene in modo esclusivo per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato (1). [II]. In mancanza di registrazione il marchio è tutelato a norma dell'articolo 2571. (1) Comma così sostituito dall'art. 81 d.lg. 4 dicembre 1992, n. 480. Ma v. l'art. 246 1z d.lg. 10 febbraio 2005, n. 30 che ha abrogato integralmente il d.lg. n. 480, cit. Il testo del comma anteriore alla modifica operata dal d.lg. n. 480, cit., era il seguente: «Chi ha registrato nelle forme stabilite dalla legge un nuovo marchio, costituito da un emblema o da una denominazione e destinato a distinguere merci od altri prodotti della propria impresa, ha diritto di valersene in modo esclusivo per le cose per le quali è stato registrato». InquadramentoL'ambito oggettivo di efficacia di un marchio d'impresa ed i limiti della sua tutela nei confronti di altri marchi sono strettamente connessi con la confondibilità dei prodotti, cioè con l'appartenenza dei prodotti concorrenti alla stessa specie merceologica, ovvero con la loro affinità od omogeneità, la quale sussiste in presenza o dell'idoneità dei prodotti a soddisfare gli stessi bisogni, o della destinazione alla medesima clientela, ovvero dell'intrinseca natura, anche sotto il profilo della ricollegabilità alla medesima fonte produttiva in rapporto con la normale capacità e tendenza espansiva dell'attività imprenditoriale. Il divieto di usurpare la denominazione sociale altrui allo scopo di contraddistinguere i propri prodotti, in quanto idonea ad ingenerare confusione tra i prodotti, determina la nullità del marchio in cui sia contenuta quella denominazione, almeno nella sua parte essenziale e caratterizzante, anche se essa non sia coperta da brevetto (Cass. n. 6244/1983). In tema di marchi di impresa, la qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell'adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l'aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all'identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente (Cass. n. 1861/2015). In materia di marchi, la distintività deve essere intesa come capacità di distinguere un prodotto dall'altro che, come tale, giustifica il monopolio di un segno, mentre è estranea al nucleo della funzione del marchio la capacità di indicare il produttore; pertanto, il rifiuto del contitolare del marchio di concertare l'uso comune non compromette di per sé la funzione distintiva del marchio e, seppur può rendere impossibili adeguate condotte a tutela della distintività, ciò non può ritenersi conseguente al solo fatto che il consumatore ignora l'esistenza di una contitolarità anziché di una titolarità unica (Cass. n. 3444/2001). Il carattere di originalità, ai fini della tutela del segno distintivo come marchio, non consiste necessariamente nella individuazione e nell'utilizzazione di un termine o di una espressione del tutto nuovi, potendo, al contrario, ammettersi anche l'uso di una espressione ricavata dalla storia, dalla letteratura o dalla tradizione popolare, anche se divenuta di comune conoscenza, purché l'accostamento della espressione al prodotto rappresenti applicazione di un'idea originale, e non rievochi nel medio consumatore un collegamento con prodotti dello stesso genere di quello che si intende contrassegnare (Cass. n. 1820/2000). In caso di marchio forte (dall'origine o per vicende successive), la confondibilità si determina anche in presenza di consistenti varianti nel marchio successivamente registrato, ove vi sia appropriazione del nucleo centrale dell'ideativo messaggio individualizzante del marchio anteriore, con riproduzione od imitazione di esso nella parte atta ad orientare le scelte dei potenziali acquirenti; detto nucleo centrale, peraltro, non è identificabile nel mero riferimento a situazioni e contesti ricollegabili ad un determinato settore merceologico, ma riguarda quel "quid pluris" che connoti, all'interno di quel settore, una specifica offerta (Cass. ord. n. 9769/2018). In tema di utilizzo delle ragioni sociali da parte di due concorrenti, quali marchi, ai sensi dell'art. 13, comma 2, del r.d. n. 929/1942, come modificato dalla l. n. 158/1967, applicabile "ratione temporis", l'uso del proprio nome patronimico come marchio, ancorché accompagnato da elementi differenziatori, è vietato quando esso, costituente il cuore del marchio, sia già utilizzato da altro imprenditore per prodotti dello stesso genere, conferendo tale anteriorità l'esclusività dell'uso del marchio al primo utilizzatore (Cass. n. 25641/2017). Il marchio geografico, o toponimo, si caratterizza perché opera riferimento ad una determinata località geografica che, di regola, non ha specifica capacità distintiva, indicando semplicemente la provenienza di un prodotto; non ha natura di marchio geografico l'espressione descrittiva della caratteristica morfologica di un elemento della natura, come la conformazione del terreno, che costituisce invece mero termine del linguaggio comune (Cass. n. 4254/2019 ). L'inclusione in un marchio complesso dell'unico elemento, nominativo o emblematico, che caratterizza un marchio semplice precedentemente registrato, si traduce in una contraffazione, anche se il nuovo marchio sia costituito da altri elementi che lo differenziano da quello precedente (Cass. n. 10205/2019). In tema di tutela del marchio debole registrato sono sufficienti a scongiurare la confusione tra i segni distintivi anche lievi modificazioni o aggiunte. Ne consegue che deve escludersi la confondibilità dei segni distintivi quando il marchio simile risulti specificamente caratterizzato, ed inoltre l'attività dell'impresa titolare del marchio sia rivolta esclusivamente ad operatori del settore, ad altre imprese altamente specializzate ed a soggetti istituzionali (Cass. n. 10205/2019). Requisiti del marchioAi sensi della legislazione speciale del marchio deve essere anzitutto dotato di capacità distintiva e cioè, ai sensi dell'art. 13 d.lgs. n. 30/2005 (codice della proprietà industriale), non deve essere costituito esclusivamente dalla denominazione generica del prodotto contrassegnato e da indicazioni descrittive. Per denominazione generiche si intendono i nomi comuni dei prodotti, in quanto adottati come marchi per contraddistinguere proprio prodotti di quel tipo (App. Milano 24 giugno 1969). Ai sensi della direttiva n. 89/104/Cee per determinare il carattere distintivo dei marchi ed il suo grado occorre procedere ad una valutazione globale, ai fini della quale bisogna prendere in considerazione le peculiari qualità intrinseche del marchio, ivi compresa la circostanza che esso sia o meno privo di qualsiasi elemento descrittivo dei prodotti ovvero di servizi per i quali è stato registrato, la quota di mercato detenuta dal marchio, l'intensità, l'estensione geografica e la durata dell'uso di tale marchio, l'entità degli investimenti effettuati dall'imprenditore per promuoverlo, la percentuale degli ambienti interessati che identifica il prodotto come proveniente da un'impresa determinata nonché le dichiarazioni delle camere di commercio o di altra associazione professionale. Resta comunque fermo che non si può indicare in generale, per esempio facendo riferimento a determinate percentuali di notorietà quando il marchio abbia carattere distintivo (Cgce 22 giugno 1999, Lloyd). La giurisprudenza assolutamente prevalente esclude la tutelabilità come marchio delle parole comuni straniere soltanto quando esse abbiano carattere descrittivo e generalizzato del prodotto o nell'opinione del consumatore italiano medio del ramo (Cass. n. 1038/1979). Sono da qualificarsi forti i marchi che si caratterizzano per la loro impronta originale e individuante, come quelli di pura fantasia, mentre devono ritenersi 'deboli i marchi che solo in parte siano di fantasia, come nel caso di nomi comuni, espressivi o individuativi, accompagnati da opportune trasformazioni morfologiche (nella specie, e stato ritenuto debole il marchio costituito dalle lettere minuscole a, b, c, racchiuse, insieme con le parole 'marca di fabbrica — Milano' in una semplice linea a Forma esagonale, e, come tale, non contraffatto da una insegna in cui compaiano le stesse lettere, ma in carattere maiuscolo e seguite ciascuna da un punto, accompagnate dalle parole esplicative "abbigliamento biancheria confezioni" e non racchiuse in uno spazio delimitato da alcune linee) (Cass. n. 1626/1971). I marchi d'impresa dotati di un tipico potere individuante sono considerati forti quando sono costituiti da parole, figure o altri segni che, essendo frutto di fantasia, di trasposizione metaforica o di altro originale accorgimento, non presentano, almeno immediatamente, alcuna aderenza concettuale con il prodotto da essi contraddistinto, potendo anche una parola comune essere collegata al prodotto con un accostamento di pura fantasia che le attribuisca efficacia individualizzante originale (Cass. n. 4384/1976). La brevettabilità di una lettera dell'alfabeto come marchio d'impresa, messa in dubbio anteriormente alla riforma di cui al d.lgs. n. 480/1992, di attuazione della direttiva Cee n. 89/104 del 21 dicembre 1989, non è più contestabile a seguito della nuova formulazione dell'art. 16 r.d. n. 929/1942, che include espressamente le lettere tra i segni suscettibili di registrazione, purché idonei a svolgere una funzione distintiva dei prodotti e dei servizi di un'impresa, e salvi i limiti di cui agli artt. 18 e 21 r.d. n. 929/1942: le lettere dell'alfabeto, infatti, pur costituendo, in sé e per sé considerate, segni normalmente destinati (da soli o in combinazione con altre lettere, in singole parole o in frasi o periodi più complessi) ad una funzione comunicativa quali strumenti di linguaggio, possono essere utilizzate (a prescindere dall'eventuale caratterizzazione grafica che sia stata loro conferita) come segni identificativi di prodotti o attività, e cioè per una funzione che non è quella loro propria, e che proprio per questo può assumere efficacia distintiva, che non preclude però a chiunque lo voglia di utilizzare quella stessa lettera secondo la sua naturale destinazione di strumento di linguaggio. A maggior ragione devono quindi ritenersi tutelabili come marchi d'impresa lettere appartenenti ad una lingua straniera (Cass. n. 14684/2007). In tema di marchio, la tutela del cosiddetto secondary meaning (fenomeno che si verifica tutte le volte in cui un segno, originariamente sprovvisto di capacità distintive per genericità mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti in seguito, tali capacità in conseguenza del relativo uso di mercato, così che l'ordinamento si trova a recepire il «fatto» della acquisizione successiva di una «distintività» attraverso un meccanismo di «convalidazione» del segno), espressamente prevista dalla legge marchi nella sua attuale formulazione, deve essere applicata anche ai segni distintivi anteriori alla sua entrata in vigore, giusta previsione dell'art. 89 n. 2 l. n. 480/1992 (Cass. n. 697/1999). Il marchio deve essere nuovo e cioè, ai sensi dell'art. 12 d.lgs. n. 30/2005, non identico o simile ad un segno già registrato da altri o noto come marchio o altro segno distintivo di prodotti o servizi altrui quando a causa dell'identità o somiglianza dei segni possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico. La novità viene meno solo se i prodotti per cui sono registrati o sui quali vengono apposti i marchi sono identici ovvero affini sotto l'aspetto merceologico. Detto altrimenti, il marchio deve essere diverso da segni distintivi nello stesso settore. Un'eccezione tale principio è previsto per quei marchi che godono di particolare notorietà presso il pubblico, così da privare di novità ogni marchio successivo indipendentemente dalla categoria merceologica per cui viene usato: ciò ha luogo solo allorquando il titolare del marchio posteriore tragga indebito vantaggio dal carattere distintivo ovvero dalla rinomanza del segno anteriore ovvero gli rechi pregiudizio. Il giudizio di «affinità» di un prodotto rispetto ad un altro coperto da un marchio notorio o rinomato deve essere formulato — anche nel sistema normativo previgente alle modifiche introdotte con il d.lgs. n. 480/1992, e così come da interpretarsi conformemente alla direttiva Cee n. 89/104 del 21 dicembre 1989 — secondo un criterio più largo di quello adoperato per i marchi comuni. In relazione ai marchi cosiddetti « celebri», infatti, deve accogliersi una nozione più ampia di «affinità» la quale tenga conto del pericolo di confusione in cui il consumatore medio può cadere attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti non rilevantemente distanti sotto il piano merceologico e non caratterizzati — di per sé — da alta specializzazione (Cass. n. 14315/1999). Tipologia di marchiIl marchio può essere emblematico o denominativo. Il marchio semplice va distinto dal marchio complesso, quello, cioè, risultante da più elementi, in cui l'effetto distintivo deve essere valutato con visione d'insieme e può sussistere anche se i vari elementi, considerati singolarmente, sono di uso comune (Cass. n. 3034/1974). L'esclusione, quindi, dalla registrabilità come marchi, dei «segni costituiti esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che da un valore sostanziale al prodotto» si traduce nella tutela del pubblico interesse ad impedire il perpetuarsi di una esclusiva e si risolve nell'affermazione — i cui indubbi limiti ai fini del discorso in esame non interessano — che tutte le forme brevettabili non sono tutelabili come marchio. È poi indifferente, sempre ai fini in esame, che i limiti alla registrabilità come marchio della combinazione cromatica si rinvengano nel coordinamento delle varie normative, o nel divieto posto dall'art. 18, comma 1, lett. c, r.d. n. 929/1942 (ora art. 12 d.lgs. n. 30/2005) dal momento che i risultati vengono a coincidere. Infatti, sono brevettabili le forme utili che esprimono un nuovo concetto innovativo (art. 2 r.d. n. 1411/1940) e le forme ornamentali che diano «uno speciale ornamento, sia per la forma, sia per una particolare combinazione di linee o di colori» (ivi, art. 5) e la tutela come modello verrebbe quindi ugualmente ad escludere la tutela come marchio (Cass. n. 2004/13159). Anche un colore può costituire un marchio brevettabile, purché non abbia una funzione intrinsecamente descrittiva del prodotto, ma sia collegato ad esso da un accostamento di pure fantasia con carattere originale ed efficacia individualizzante, occorrendo che il collegamento tra il colore e il prodotto rappresenti il dispiego di un attività creativa; né si pongono in tal caso rischi di monopolio del nome di un colore che di necessità deve essere adoperato da chiunque produca il medesimo bene, rischi che invece si presenterebbero allorché si consentisse di ripetere il colore del prodotto nel marchio (Nella specie, la S.C., dopo aver affermato tale principio, ha confermato la decisione impugnata, la quale aveva riconosciuto legittima la pretesa di protezione del marchio denominativo «Capsula Viola» riguardante un vino della casa Antinori) (Cass. n. 3666/2001). L'art. 16 r.d. n. 929/1942 (cosiddetta legge marchi), così come modificato dall'art. 16 d.lgs. n. 480/1992, nel prevedere che possano costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa anche i suoni, limita tale protezione a quelle espressioni fonetiche che, in quanto convenzionalmente traducibili in forma grafica, abbiano migliore possibilità di essere percepite come marchi, e non solo come suoni: esso, infatti, subordinando la registrazione del marchio alla possibilità di rappresentarlo graficamente in una forma convenzionalmente accettata, tale da renderlo intellegibile attraverso una pluralità di comunicazioni, nega tutela a quei suoni che, non potendo essere descritti sotto forma di note musicali, quale che sia la cultura musicale di riferimento, troverebbero maggiore difficoltà a conquistare la necessaria distintività (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la decisione della Commissione dei ricorsi contro i provvedimenti dell'Ufficio Italiano dei Brevetti, la quale aveva ritenuto non sufficientemente documentata la domanda di registrazione di un marchio sonoro, non essendo stata allegata una rappresentazione grafica dei suoni, ma solo una registrazione degli stessi su nastro) (Cass. n. 1061/2006). In tema di marchio, l'art. 18, comma 1, lett. c), r.d. n. 929/1942 (nel testo risultante dalla sostituzione operata con l'art. 18 d.lgs. n. 480/1992), là dove preclude che possano costituire oggetto di registrazione come marchio i segni costituiti dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla forma che dà un valore sostanziale al prodotto, intende riferirsi, rispettivamente: a) alla forma standardizzata del prodotto, noto appunto in tale configurazione (in tal caso avendosi mancanza di capacità individualizzante del segno, ciò che si oppone, in via di principio, ad una monopolizzazione che penalizzerebbe la concorrenza); b) alla cosiddetta forma funzionale (imposta dalla utilità industriale perseguita, che non è monopolizzabile se non nei limiti del brevetto); c) a quella il cui pregio modifica l’identità di un prodotto in quanto tale (perché ne aumenta il valore merceologico, senza perciò mutarne la funzione ontologica). E, posto che il marchio, ancorché di forma, non deve identificarsi con la forma del prodotto, ma deve rispetto a questo presentarsi in qualche misura estrinseco, e quindi distinguibile, ne deriva, da un lato, che solo la forma che possiede un certo gradiente di ornamentalità può aspirare alla protezione del modello ornamentale, e, dall'altro, che la protezione di un disegno come marchio, quale che sia il suo valore estetico e la ulteriore protezione che tale valore può far pretendere, presuppone sotto la capacità del medesimo di identificare, distinguendosi da esso, un prodotto (Cass. n. 14863/2001). Con riguardo alla riproduzione di un emblema comunale nell'ambito di un'attività commerciale, manca nel sistema una proibizione analoga a quella che in modo assoluto tutela le istituzioni internazionali da qualunque forma di riproduzione (art. 18, comma 1, lettera d, r.d. n. 929/1942), né un divieto del genere può essere introdotto dallo statuto comunale, atteso che tale fonte del diritto, chiamata a stabilire i principi di organizzazione e funzionamento dell'ente (art. 4 l. n. 131/2003, recante «Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3»), non è abilitata a innovare nella disciplina dell'uso e del conflitto tra i segni identificativi dei soggetti o tra i segni del mercato. Ne consegue che la controversia che sorge da tale riproduzione deve essere decisa sulla base dei principi che disciplinano l'uso, non vietato in assoluto, del segno altrui. (Sulla base del principio di cui in massima, in un caso nel quale un Comune aveva richiesto l'inibitoria e la condanna al risarcimento del danno a seguito della pubblicazione, da parte di un editore, di un volume, contenente una guida alle prove di esame ad un concorso comunale, recante sulla copertina lo stemma di quel Comune, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, di rigetto della pretesa del Comune attore, avendo questa accertato: (a) che le modalità della riproduzione dell'emblema erano tali da chiarire immediatamente al pubblico che non si trattava di una pubblicazione comunale, ma piuttosto di una pubblicazione che doveva servire a quanti fossero interessati al concorso comunale; (b) che erano da escludere: il carattere ingannevole del messaggio, la lesione del diritto alla identità, in nessun nodo confusa, nonché l'arbitrarietà dell'uso del segno altrui, non venendo in rilievo questioni di concorrenza e di pregiudizio connesso) (Cass. n. 16984/2004). Contenuto del diritto al marchioIl diritto di esclusiva all'uso del marchio di cui agli artt. 2569 e 1, r.d. n. 929/1942 ha carattere reale e la sua violazione va riconosciuta in ogni riproduzione abusiva del marchio stesso, indipendentemente dall'elemento soggettivo (colpa o dolo) della parte che ha usato la cosa sulla quale esso è riprodotto e dalla entità del fatto (Cass. n. 5087/1984). Il diritto esclusivo di marchio comprende anche l'uso esclusivo del segno come componente degli strumenti pubblicitari del prodotto. Tale diritto, pertanto, risulta violato qualora una società utilizzi la sua denominazione sociale — che è confondibile con il marchio di un prodotto di altra società — non solamente per contraddistinguere l'impresa sociale e la persona giuridica-società, ma anche per la presentazione e la pubblicità dei propri prodotti (Cass. n. 1437/1990). L'ambito oggettivo di efficacia di un marchio d'impresa ed i limiti della sua tutela nei confronti di altri marchi sono strettamente connessi con la confondibilità dei prodotti, cioè con l'appartenenza dei prodotti concorrenti alla stessa specie merceologica, ovvero con la loro affinità od omogeneità, la quale sussiste in presenza o dell'idoneità dei prodotti a soddisfare gli stessi bisogni, o della destinazione alla medesima clientela, ovvero dell'intrinseca natura, anche sotto il profilo della ricollegabilità alla medesima fonte produttiva in rapporto con la normale capacità e tendenza espansiva dell'attività imprenditoriale (nella specie, la Corte d'appello aveva ritenuto che il marchio «lazzaroni» relativo a biscotti, pasticcini e amaretti rendesse illecito l'uso, da parte di altri, dello stesso marchio per contraddistinguere un liquore amaretto, sul rilievo che l'amaretto è un liquore dolce, non molto alcoolico, consumato tipicamente dalla clientela familiare che è anche consumatrice dei biscotti e degli amaretti, così che tra i prodotti stessi era configurabile un rapporto di complementarietà tale da comportare la confondibilità circa la loro provenienza dalla stessa impresa. La suprema Corte ha confermato tale statuizione alla stregua del principio di cui in massima) (Cass. n. 6244/1983). I marchi che godono di rinomanza fruiscono di una tutela allargata specie per quanto attiene il novero di prodotti su cui ne è vietato l'uso da parte di altre imprese. Il marchio si ritiene rinomato non quando sia divenuto celebre, ma solo conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti (Cgce 14 luglio 1999, General Motors). Giudizio di confondibilitàIn tema di tutela del marchio, l'apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità dei segni nel caso di affinità dei prodotti — apprezzamento che costituisce un giudizio di fatto, incensurabile in cassazione, se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici — deve essere compiuto non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, bensì in via globale e sintetica, vale a dire con riguardo all'insieme degli elementi salienti grafici e visivi, mediante una valutazione di impressione, che prescinde dalla possibilità di un attento esame comparativo e che va condotta in riferimento alla normale diligenza e avvedutezza del pubblico dei consumatori di quel genere di prodotti, dovendo il raffronto essere eseguito tra il marchio che il consumatore guarda ed il mero ricordo mnemonico dell'altro. Inoltre, se il segno è privo di aderenza concettuale con i prodotti contraddistinti, le variazioni che lasciano intatta l'identità del nucleo ideologico che riassume la attitudine individualizzante del segno debbono ritenersi inidonee ad escludere la confondibilità (Cass. n. 4405/2006). In tema di tutela dei segni distintivi dell'impresa, l'accertamento circa la confondibilità tra marchi in conflitto, costituente un presupposto comune delle azioni di nullità e contraffazione del marchio stesso, deve compiersi in via globale e sintetica, avendo riguardo all'insieme dei loro elementi salienti grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali o semantici, laddove il marchio contenga tali riferimenti rispetto al prodotto contrassegnato (Cass. n. 15840/2015). L'uso parziale di un marchio complesso, incidente su elementi secondari e marginali insufficienti a caratterizzarlo come segno distintivo, non impedisce la decadenza del marchio stesso per non uso ai sensi del primo comma dell'art 42 r.d. n. 929/1942 (Cass. n. 2417/1979). Con riguardo ai marchi d'impresa che siano soltanto in parte di fantasia (cosiddetti marchi deboli), e, in particolare, a quelli che utilizzino parole del linguaggio comune, o divenute comuni nel linguaggio commerciale, il giudizio sull'usurpazione dei marchi stessi, e sulla confondibilità dei prodotti da essi contrassegnati, deve essere condotto con criteri meno rigorosi rispetto a quelli relativi alla confondibilità dei marchi di pura fantasia (cosiddetti marchi forti), nel senso che anche lievi modificazioni od aggiunte possono essere sufficienti ad escludere dette usurpazioni e confondibilità (Cass. n. 4839/1978). Infine, in tema di segni distintivi, il cd. "secondary meaning" sussiste quando il marchio, in origine sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, acquisti tale capacità in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato. In tale ipotesi, il titolare del marchio può agire in contraffazione, fermo restando che, ai sensi dell'art. 121 d.lgs. n. 30 del 2005, l'onere di provare la nullità del segno distintivo grava su chi lo contesta e, una volta fornita tale prova, spetta al titolare del marchio dimostrarne la secondarizzazione e, cioè, l'acquisizione della rinomanza prima della registrazione ( Cass. n. 53/2022). In tema di segni distintivi, la valutazione della capacità distintiva di un marchio complesso, composto da elementi denominativi ed elementi figurativi, impone al giudice di esaminare le qualità intrinseche di entrambi, nonché le loro rispettive posizioni, al fine di identificare la componente dominante, in quanto, sebbene i primi siano in linea di principio maggiormente distintivi rispetto ai secondi – dato che il consumatore medio farà più facilmente riferimento ai prodotti in oggetto citando il nome del marchio piuttosto che descrivendone l'elemento figurativo – non ne consegue che gli elementi denominativi di un marchio debbano essere sempre considerati più distintivi rispetto agli elementi figurativi, potendo questi ultimi, per la forma, dimensioni, colore o la loro collocazione nel segno, occupare una posizione equivalente a quella dell'elemento denominativo (Cass. n. 22034/2023, affermando detto principio la S.C. ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso la sentenza emessa a seguito dell'opposizione alla registrazione di un marchio in cui l'elemento figurativo era composto da due "C" contrapposte e quello denominativo era rappresentato dal patronimico "Gianni Altieri", ritenendo che pur a fronte di innegabili somiglianze, l'aggiunta dell'elemento patronimico fosse sufficiente ad escludere il rischio di confusione fra i segni in conflitto). Acquisto e perdita del dirittoL'istituto della c.d. convalidazione, previsto dall'art. 48 r.d. n. 929/1942, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 45 d.lgs. 4 dicembre 1992 n. 480, non rappresenta né una perdita del diritto all'uso del proprio marchio, né una forma di acquisto del diritto all'uso del marchio da parte di chi lo abbia adottato di fatto senza contestazione, ma integra una ipotesi di decadenza dall'esercizio dell'azione di nullità o contraffazione. Ne consegue che tale decadenza può essere impedita dal solo esercizio delle suddette azioni, mentre resta irrilevante a tal fine l'eventuale invio di diffide stragiudiziali (Cass. S.U., n. 17927/2008). Il diritto sul marchio sul marchio si acquista con la registrazione e con l'uso. La registrazione ha una durata di dieci anni e può essere rinnovata indefinitivamente per ulteriori periodi di dieci anni. In passato il brevetto per marchio poteva essere rilasciato solo a chi fosse imprenditore ed avesse almeno iniziato la fase organizzativa dell'impresa, essendo in caso contrario il marchio nullo ex art. 22 r.d. n. 929/1942 (legge marchi) ed il relativo contratto nullo per mancanza originaria dell'oggetto (Trib. Milano 10 marzo 1980). Tale interpretazione non è stata più consentita dal nuovo tenore dell'art. 22 r.d. n. 929/1942, così come novellato dal d.lgs. n. 480/1992. Il marchio si estingue per il decorso dei dieci anni della registrazione se non seguita da tempestivo rinnovo. Sono previste alcune cause di decadenza anche prima del decorso di tale termine. Perché si abbia volgarizzazione del marchio occorre che la parola in cui esso consiste sia divenuta il termine usuale con il quale i consumatori, od anche soltanto i rivenditori, definiscono non solo un determinato prodotto, proveniente da una certa fonte produttiva, ma ogni prodotto dello stesso genere da chiunque ne venga effettuata la produzione (nella specie, il nome cristal, che costituiva il marchio internazionale di uno champagne, era stato usato nel marchio di uno spumante italiano; la suprema Corte, applicando il suddetto principio, ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso che si fosse verificata la volgarizzazione del marchio cristal) (Cass. n. 6119/1990). In tema di concorrenza sleale per imitazione, ad integrare la volgarizzazione — altrimenti detta generalizzazione o standardizzazione — nell'ambiente sociale della forma (o di un ornamento o di un particolare pregio estetico) di un prodotto, idonea ad escludere la concorrenza sleale, non è sufficiente la semplice diffusione o notorietà della stessa sul mercato, in quanto (così come si afferma in tema di marchio) è necessario che, invece, quel determinato prodotto abbia assunto sul mercato, in termini generali e quasi necessitati, la medesima forma oggetto del prodotto, per il quale si invochi la tutela, così che la forma standardizzata escluda per quel prodotto la possibilità di essere riconosciuto come proveniente da una determinata impresa; l'onere di provare la volgarizzazione grava sulla parte che la invochi (Cass. n. 28218/2008). In tema di concorrenza sleale per imitazione servile, la tutela offerta dall'art. 2598, n. 1, concerne le forme aventi efficacia individualizzante e diversificatrice del prodotto rispetto ad altri simili, non essendo, tuttavia, compresi nella tutela medesima gli elementi formali dei prodotti imitati che, nella percezione del pubblico, non assolvano ad una specifica funzione distintiva del prodotto stesso, intesa nel duplice effetto di differenziarlo rispetto ai prodotti simili e di identificarlo come riconducibile ad una determinata impresa (Cass. n. 29522/2008). Nuova ipotesi di decadenza introdotta dal d.lgs. n. 480/1992 è quella per decettività sopravvenuta. Essa si avrebbe quando le reali caratteristiche del prodotto non corrispondano al messaggio dato al marchio. Profili processualiIn tema di marchi d'impresa, l'apprezzamento del giudice del merito sulla confondibilità fra segni distintivi similari deve essere compiuto non in via analitica, attraverso il solo esame particolareggiato e la separata considerazione di ogni singolo elemento, ma in via globale e sintetica, tenendo conto, in particolare, che, ove si tratti di marchio «forte» (cioè frutto di fantasia, senza aderenze concettuali con i prodotti contraddistinti), detta tutela si caratterizza per una maggiore incisività rispetto a quella dei marchi «deboli», perché rende illegittime le variazioni, anche se rilevanti ed originali, che lascino sussistere l'identità sostanziale del nucleo individualizzante (Cass. n. 1906/2010). Affinché si radichi la competenza territoriale del giudice adito con la duplice domanda di contraffazione di marchio e di concorrenza sleale — cumulabili tra di loro quando si assuma che la contraffazione ha dato luogo a commercializzazione di prodotto confondibile in ragione della contraffazione stessa — è sufficiente che venga allegata (purché non in modo evidentemente strumentale) la commercializzazione del prodotto nel territorio rientrante nella competenza di detto giudice, a prescindere da qualunque valutazione del fondamento di tale allegazione, risolvendosi la stessa nella invocazione del forum commissi delicti (in relazione al luogo in cui si perfeziona l'evento dannoso, che può anche non coincidere con quello di produzione dell'oggetto contraffatto) così ai sensi dell'art. 20 cod. proc. civ. come anche in base all'art. 57 r.d. n. 929/1942, (cosiddetta legge marchi) il quale ponendo in alternativa il foro del luogo nel quale è stato commesso il fatto di violazione del brevetto abilita per ciò stesso l'attore ad adire il giudice del luogo nel quale viene messo in vendita oppure viene pubblicizzato il prodotto (che si afferma) illecitamente marcato (Cass. n. 10582/1997). Non può essere accolto il reclamo proposto da una società per utilizzo di un marchio simile da parte di altra società qualora gli elementi differenziali presenti nel marchio denominazione della società che li ha assunti successivamente siano idonei a distinguerli in modo significativo dai segni della reclamante (Trib. Napoli 18 aprile 2006). In tema di contraffazione del marchio, sotto il profilo risarcitorio è possibile configurare, autonomamente dalla misura di retroversione degli utili realizzati attraverso la contraffazione, il risarcimento del danno non patrimoniale per il cd. «annacquamento del marchio», nel caso di specie da liquidarsi in via equitativa con un importo corrispondente alla percentuale dell'1% degli importi sostenuti per spese pubblicitarie dal titolare del diritto leso (Trib. Milano, Sez. spec. Impresa, 3 febbraio 2015). BibliografiaAscarelli, Teoria della concorrenza e dei beni materiali, Milano, 1960, 399; Auteri, voce Ditta, Enc. Giur., Roma, 1989, 3; Campobasso, Diritto commerciale, I, Torino, 2001, 164; Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, 244; Greco, I diritti sui beni immateriali, Torino, 1948, 76; Mangini, voce Ditta, in D. disc. priv., sez. comm., 4 ed., V., 1990, 79; Martorano, Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore, Torino, 2015, 503; Salandra, Manuale di diritto commerciale, I, Bologna, 1947, 87; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, 38. |