Codice Civile art. 2570 - Marchi collettivi (1).

Roberto Amatore
aggiornato da Francesco Agnino

Marchi collettivi (1).

[I]. I soggetti che svolgono la funzione di garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi possono ottenere la registrazione di marchi collettivi per concederne l'uso, secondo le norme dei rispettivi regolamenti, a produttori o commercianti.

(1) Articolo così sostituito dall'art. 82 d.lg. 4 dicembre 1992, n. 480. Ma v. l'art. 246 1z d.lg. 10 febbraio 2005, n. 30 che ha abrogato integralmente il d.lg. n. 480, cit. Il testo dell'articolo anteriore alla modifica operata dal d.lg. n. 480, cit., era il seguente: «Gli enti e le associazioni legalmente riconosciuti possono ottenere la registrazione di marchi collettivi per le imprese dipendenti o associate, secondo le norme dei rispettivi statuti e delle leggi speciali».

Inquadramento

Nel caso in cui una associazione non riconosciuta, quale ente esponenziale di un determinato gruppo di imprenditori, abbia ottenuto, a norma degli artt. 2570 e 2 r.d. n. 929/1942 (oggi art. 11, d.lgs. n. 30/2005), la registrazione di un marchio collettivo utilizzato dagli imprenditori associati, detta associazione, che non riveste la qualità di imprenditore e non ha lo scopo di tutelare interessi generali di categoria, ove vengano compiuti da terzi atti di abuso del marchio, mentre può ottenere ogni tutela di tipo reale nascente dalla violazione di tale diritto oltre che il risarcimento dei danni eventualmente derivanti da tale violazione, non è legittimata ad agire con l'azione di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2601 (Cass. n. 9073/1995).

Il marchio di servizio, destinato a contraddistinguere una specifica attività (e dotato di un campo di produzione limitato a tale attività in se considerata) più che il titolare di essa, si distingue dalla ditta, che designa genericamente ed unitariamente il nome sotto cui l'imprenditore esercita l'impresa e non ha — salvo che venga usata anche come marchio — una diretta attinenza con i prodotti da lui fabbricati o venduti, o con i servizi prestati. Esso si distingue altresì dal vero e proprio marchio collettivo, di cui all'art 2 r.d. n. 929/1942, (cui e simile il marchio nazionale d'esportazione), che si risolve in un marchio di certificazione o di qualità, e oggetto di utilizzazione plurima da parte di una serie di imprenditori con modalità proprie di un marchio di prodotto, e presuppone la Costituzione e il legale riconoscimento di particolari enti o associazioni che ne hanno la titolarità (Cass. n. 5334/1977).

La denominazione d'origine

Diversa natura rispetto ai marchi collettivi hanno le denominazione d'origine, disciplinate dalle leggi speciali. Esse hanno la funzione non di costituire un collegamento tra un prodotto e una determinata impresa, ma di caratterizzare il prodotto come proveniente da una regione tipica (Trib. Milano 16 ottobre 1978). Le denominazioni d'origine non sono soggette a registrazione e non costituiscono beni immateriali: l'abuso di tali denominazioni può costituire atto di concorrenza sleale ex art. 2598. Secondo l'orientamento dominante a tali denominazioni va riconosciuta tutela indipendentemente dalla sussistenza della concorrenza sleale (App. Milano 5 ottobre 1982).

Bibliografia

Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni materiali, Milano, 1960, 399; Auteri, voce Ditta, Enc. Giur., Roma, 1989, 3; Campobasso, Diritto commerciale, I, Torino, 2001, 164; Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, 244; Greco, I diritti sui beni immateriali, Torino, 1948, 76; Mangini, voce Ditta, in D. disc. priv., sez. comm., 4 ed., V., 1990, 79; Martorano, Manuale di diritto commerciale, a cura di Buonocore, Torino, 2015, 503; Salandra, Manuale di diritto commerciale, I, Bologna, 1947, 87; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano, 1993, 38.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario