Codice Civile art. 2931 - Esecuzione forzata degli obblighi di fare.

Donatella Salari

Esecuzione forzata degli obblighi di fare.

[I]. Se non è adempiuto un obbligo di fare, l'avente diritto può ottenere che esso sia eseguito a spese dell'obbligato nelle forme stabilite dal codice di procedura civile [612 ss. c.p.c.].

Inquadramento

L'articolo in commento contiene il fondamento di diritto sostanziale dell'esecuzione forzata degli obblighi di fare, permettendo così l'attuazione materiale (nelle forme e con le garanzie giurisdizionali) delle situazioni soggettive dalle quali sorgono tali obblighi.

La natura dell'esecuzione degli obblighi di fare e di non fare

L'esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare è configurata dagli artt. 2931 e 2933, come una procedura (artt. 612-614 c.p.c.) interamente affidata all'autorità giudiziaria nell'esercizio del potere giurisdizionale (Mandrioli, 549;).

La dottrina rileva che il fondamento funzionale dell'esecuzione in forma specifica risiede nell'equivalenza giuridica tra obbligazione rimasta inadempiuta e il suo risultato economico obiettivo: il procedimento di esecuzione per gli obblighi di fare e non fare, infatti, mira a realizzare il diritto del creditore non attraverso l'adempimento del debitore (posta l'incoercibilità della volontà umana), ma attraverso l'attività dell'organo esecutivo che sostituisce quella del soggetto passivo (Mandrioli, Esecuzione forzata, 549; Mazzamuto, 275).

Pertanto con gli artt. 2931 e 2932 (rappresentanti una novità rispetto al codice del 1865) il legislatore ha voluto introdurre nel nostro ordinamento un autonomo tipo di esecuzione forzata in forma specifica, a cui senz'altro si riconosce natura giurisdizionale, che si affianca a quella per consegna e rilascio prevista dall'art. 2930.

Le situazioni sostanziali tutelabili

L'esecuzione forzata degli obblighi di fare, analogamente all'esecuzione per consegna o rilascio, secondo la visione unanime di dottrina e giurisprudenza tutela sia obblighi correlati a un diritto reale, sia a un'obbligazione in senso proprio, sia ancora ad un diritto della personalità. Se oggi tale indirizzo raccoglie un consenso quasi totale, bisogna ricordare che in passato una parte della dottrina sosteneva che l'esecuzione specifica sarebbe preordinata alla sola tutela dei diritti assoluti, e precisamente dei diritti reali.

In generale sulla portata della disposizione in esame, la giurisprudenza ha enunciato il principio che l'esecuzione forzata degli obblighi di fare è consentita sia per gli obblighi di fare derivanti da rapporti di natura reale, sia per quelli nascenti da rapporti negoziali personali con prestazioni corrispettive (Cass., n. 2989/1955).

Secondo Cass II, n. 24305/2017 tra i rimedi posti a difesa del committente ex art. 1668,  comma 1, vi è anche la condanna per obblighi di cui all'art. 2931 in caso di difformità  da eliminare  a spese dell'appaltare.

Presupposti e limiti della tutela

La giurisprudenza di legittimità (Cass. I, n. 19454 /2011) ha chiarito che l’inadempimento di un’obbligazione infungibile non impedisce la pronuncia di una sentenza di condanna, in caso di persistente inadempimento del debitore, invero con l'introduzione dell'art. 614-bis c.p.c. (attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare), si è consolidato un principio di diritto già affermato in giurisprudenza.

Casistica: reintegra nel posto di lavoro

Nessuna norma indica la procedura cui fare ricorso per dare esecuzione forzata alla sentenza con cui è ordinato al datore di lavoro privato di reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore illegittimamente licenziato. Tale lacuna normativa ha aperto nella dottrina un dibattito: 1) secondo una prima opinione (che sembra essere condivisa dalla giurisprudenza di legittimità) l'attività richiesta al datore di lavoro integra un facere infungibile, con la conseguente inapplicabilità delle norme in tema di esecuzione forzata degli obblighi di fare (Di Majo, 265, in part. 293; Mandrioli, 9); 2) la tesi contrapposta, che va raccogliendo sempre maggiori consensi in dottrina, è basata sulla considerazione che l'obbligo cui è tenuto il datore di lavoro in forza dell'ordine di reintegrazione è composto di una pluralità di prestazioni diverse, alcune delle quali (ad es. l'immissione del lavoratore nel luogo di lavoro) sicuramente coercibili nelle tradizionali forme di esecuzione forzata (Proto Pisani, 400; Taruffo, 6).

L'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità è nel senso che l'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato (al pari della condanna del datore di lavoro ad adibire nuovamente il dipendente alle precedenti mansioni, per l'illegittimità del provvedimento di assegnazione del lavoratore a mansioni non equivalenti a quelle precedentemente svolte) — salva la indiretta coazione conseguente all'obbligo di continuare a corrispondere la retribuzione (in eccezione al principio di corrispettività delle prestazioni) — non è suscettibile di esecuzione specifica, atteso che mentre l'esecuzione specifica è possibile per le obbligazioni di fare di natura fungibile, la reintegrazione suddetta comporta non soltanto la riammissione del lavoratore nell'azienda (e cioè un comportamento riconducibile ad un semplice pati) ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, fra l'altro, nell'impartire al dipendente le opportune direttive, nell'ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione: l'ordine emesso dal giudice del lavoro ai sensi dell'art. 18, comma 1, l. 20 maggio 1970, n.300. e non adempiuto spontaneamente dal datore di lavoro, è suscettibile di essere attuato in via esecutiva — oltre il mantenimento dell'obbligo della retribuzione — soltanto per quanto riguarda gli effetti realizzabili senza la collaborazione dell'obbligato (come, ad es., quello della ricostruzione della posizione contributiva presso gli enti previdenziali ed assistenziali) (Cass. n. 11479/1999; Cass. n. 9734/1998; Cass. n. 6381/1997; Cass. n. 9125/1990; Cass. n. 46/1990; Cass. n. 2458/1985; Cass. n. 1833/1984). In altra occasione la Suprema Corte ha rilevato che dalla stessa previsione legislativa, in forza della quale il datore di lavoro è obbligato a corrispondere le retribuzioni dalla data della sentenza di reintegrazione fino all'attuazione di questa, si deve concludere per l'impossibilità, o, quanto meno, la inopportunità, di una forzosa reimmissione del lavoratore nella organizzazione aziendale (Cass. n. 112/1988).

Il medesimo orientamento ricordato è fatto proprio dalla giurisprudenza anche in tema di ordine di riassegnare il lavoratore alle precedenti mansioni o ad altre di equivalente contenuto professionale (Cass. n. 5607/1982).

L'esperibilità dell'esecuzione in forma specifica ai sensi degli artt. 612 ss. c.p.c. è stata esclusa dalla giurisprudenza di legittimità anche nell'ipotesi in cui il datore di lavoro — dopo aver spontaneamente reintegrato nel posto di lavoro il lavoratore il cui licenziamento era stato dichiarato illegittimo con sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva — abbia impedito, sulla base della sentenza di riforma della prima (ma anteriormente al suo passaggio in giudicato), al lavoratore la prestazione lavorativa e si sia reso inadempiente dell'obbligazione retributiva, venendo, invece, riconosciuta l'ammissibilità di un'autonoma azione di cognizione per la tutela, in forza della prima decisione provvisoriamente esecutiva, del diritto del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro ed alla retribuzione da parte del datore di lavoro fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma (Cass. n. 4563/1980).

Segue. Consegna di minori

Quanto all'esecuzione dell'obbligo di consegna dei minori, si è ribadito che quella collegabile ad una sentenza e non ad un provvedimento interinale, la cui attuazione è affidata al medesimo giudice che ha emanato il provvedimento) va attuata nelle forme dell'art. 612 c.p.c. (Cass. I, n. 5374/1980). Minoritaria la tesi della giurisprudenza di meriti, attributiva della competenza al giudice tutelare.

Il titolo esecutivo

L'art. 612 c.p.c. fa esclusivo riferimento alla «sentenza di condanna», quale titolo esecutivo idoneo a fondare l'esecuzione forzata. Occorre subito precisare che l'espressione “sentenza” non va intesa in senso letterale, ma comprensiva di ogni provvedimento giurisdizionale che, pur avendo forma diversa contenga una pronuncia di condanna.

A tal riguardo il giudice delle leggi ha recentemente affermato che tale disposizione deve essere interpretata nel senso che anche il verbale di conciliazione giudiziale è da considerare titolo esecutivo idoneo a iniziare l'esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare (Corte cost. 12 luglio 2002, n. 336).

La ricordata pronuncia della Consulta si scontra con l'opinione espressa dalla maggior parte della dottrina, secondo cui la necessità (imposta dall'art. 612 c.p.c.) che il titolo esecutivo sia costituito da un accertamento giudiziale (contenuto in una sentenza o in un provvedimento giurisdizionale) ha come ratio il fatto che stabilire la fungibilità e la possibilità dell'obbligo, nonché — nel caso di cui all'art. 2058 — la non eccessiva onerosità dell'esecuzione e che la distruzione ordinata non sia di pregiudizio dell'economia nazionale (art. 2933) sono valutazioni riservate esclusivamente al giudice, con la conseguenza che non sarebbe titolo esecutivo idoneo a intraprendere un'esecuzione forzata di cui agli artt. 2931 e 2933 il verbale di conciliazione (Busnelli, 366; Mandrioli, Esecuzione forzata, 557; Mazzamuto, 293).

Bibliografia

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