Dichiarazione di fallimento: giurisdizione e competenza

Beatrice Armeli
14 Luglio 2016

La competenza a dichiarare il fallimento e a conoscere delle azioni che dallo stesso derivano trova disciplina, rispettivamente, negli artt. 9 e 24 l. fall. Completano tale disciplina le disposizioni dettate dall'art. 9-bis l. fall. in tema di incompetenza e dall'art. 9-ter l. fall. relativamente al conflitto positivo di competenza. La giurisdizione fallimentare deve invece essere ricostruita secondo una lettura combinata delle previsioni contenute nel medesimo art. 9 l. fall. con quelle generali della L. n. 218/1995, fatta salva la normativa europea di cui al Reg. (CE) 1346/2000, oggi sostituito dal Reg. (UE) 848/2015.

Inquadramento

La competenza a dichiarare il fallimento e a conoscere delle azioni che dallo stesso derivano trova disciplina, rispettivamente, negli artt. 9 e 24 l. fall. Completano tale disciplina le disposizioni dettate dall'art. 9-bis l. fall. in tema di incompetenza e dall'art. 9-ter l. fall. relativamente al conflitto positivo di competenza.

La giurisdizione fallimentare deve invece essere ricostruita secondo una lettura combinata delle previsioni contenute nel medesimo art. 9 l. fall. con quelle generali della L. n. 218/1995, fatta salva la normativa europea di cui al Reg. (CE) 1346/2000, oggi sostituito dal Reg. (UE) 848/2015, per la determinazione della competenza giurisdizionale ad aprire procedure d'insolvenza transfrontaliere intra-comunitarie e a conoscere delle azioni connesse anche nei confronti di convenuti extra-UE.

Le lacune lasciate dal diritto positivo in tema di competenza e giurisdizione con riguardo ai gruppi di impresa risultano invece essere parzialmente colmate dalla giurisprudenza e da alcune novità introdotte a livello europeo.

La competenza territoriale

Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. fall., territorialmente competente per la dichiarazione di fallimento è il tribunale del luogo della sede principale dell'impresa. Trattasi di una competenza funzionale e inderogabile, il cui difetto è rilevabile anche d'ufficio nel rispetto però delle preclusioni stabilite dall'art. 38 c.p.c., applicabile anche al procedimento fallimentare essendo questo di carattere sostanzialmente contenzioso e a cognizione piena: l'incompetenza del giudice adito deve dunque essere rilevata non oltre l'udienza di comparizione ex art. 15 l. fall., risultando esclusa la possibilità di farla valere in sede di reclamo (Cass. 2 aprile 2012, n. 5257).

Lo stesso tribunale competente per la dichiarazione di fallimento ha altresì la competenza (sempre funzionale e inderogabile) a conoscere delle azioni che dal fallimento traggono la loro origine ai sensi dell'art. 24 l. fall., data l'esigenza di convogliare davanti al medesimo ufficio giudiziario la trattazione di tutte quelle cause insorte in ragione dell'apertura della procedura concorsuale.

Il criterio di collegamento territoriale posto dall'art. 9 l. fall. è dato dalla sede principale dell'impresa (parimenti cfr. anche: art. 195 l. fall.; art. 2 D.Lgs. 270/1999; art. 2 D.L. 347/2003), da intendersi non quale luogo in cui si trovano gli stabilimenti e viene esercitata l'attività produttiva, bensì quale centro direttivo e amministrativo degli affari ove vengono assunte le decisioni relative alle scelte imprenditoriali e strategiche, con valenza prevalente, ai fini del radicamento della competenza, in caso di divergenza rispetto alla sede legale (Guglielmucci, Diritto fallimentare, 2014, 42). Se è dunque a quest'ultima, risultante dal registro delle imprese, che occorre anzitutto far riferimento, in virtù di una sottesa presunzione di coincidenza con la sede principale, non è escluso che detta presunzione, di carattere meramente relativo, possa essere vinta con la prova di elementi di fatto che valorizzino una sede diversa (Trib. Roma, 16 ottobre 2013, in questo portale, nota Palladino), anche in ragione della sua riconoscibilità da parte dei terzi. Così pure, ove la società sia stata posta in liquidazione, competente è il tribunale del luogo in cui si svolge l'attività liquidatoria, anche se non coincidente con quello della sede legale (Cass. 15 gennaio 2015, n. 578). Mentre, per il caso di impresa cessata o di imprenditore defunto, competente è il tribunale del luogo in cui si è svolta l'ultima attività d'impresa (Vanzetti, sub art. 9, in Commentario alla legge fallimentare, diretto da Cavallini, I, 2010, 158).

In generale deve dunque guardarsi alla sede effettiva principale, non rilevando eventuali sedi secondarie. E ciò non solo al tempo della dichiarazione di fallimento, bensì anche con riguardo all'anno anteriore, posto che, ai sensi dell'art. 9, comma 2, l. fall., il trasferimento della sede avvenuto nell'anno precedente l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento non sposta la competenza. Viene così sanzionato il trasferimento strumentale a sottrarsi alla cognizione del tribunale competente in prossimità della dichiarazione di fallimento, non ammettendosi in tal caso alcuna prova contraria e restando pertanto indifferente la natura reale del trasferimento medesimo (Cass. 13 dicembre 2012, n. 22957), posto che un trasferimento fittizio sarebbe già irrilevante ex se. Dunque il trasferimento della sede influisce sulla competenza solo se effettivo e avvenuto più di un anno prima della richiesta di fallimento. Peraltro, poiché il giudice può in ogni caso desumere argomenti di prova ai sensi dell'art. 116 c.p.c. anche dai comportamenti delle parti, nel caso in cui elementi indiziari depongano nel senso della fittizietà del trasferimento della sede, la mancata deduzione da parte del debitore (che di per sé non è gravato di alcun onere in tal senso, ma che pure avrebbe potuto fornire la prova), da cui ricavare il collegamento dell'attività e dell'amministrazione con il luogo della nuova sede, può essere valutata a conferma della suddetta fittizietà (Cass. S.U. 11 marzo 2013, n. 5945, in Dir. fall., 2014, 95, nota Giordano).

In evidenza: La competenza territoriale in sede penale

Mentre in sede civile la competenza territoriale per la dichiarazione di fallimento spetta al tribunale del luogo in cui vi è la sede principale dell'impresa, in sede penale la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato, con la conseguenza che la questione della sede effettiva o fittizia della società fallita non rileva in sede penale. Pertanto, poiché il reato di bancarotta fraudolenta contestato si consuma con la prima dichiarazione di fallimento, essendo questa un elemento costitutivo del reato e non una condizione oggettiva di punibilità dello stesso, ancorché pronunciata da un giudice incompetente, la competenza in sede penale si radica presso il tribunale che per primo ha dichiarato il fallimento della società (Cass. pen. 28 novembre 2014, n. 876, in questo portale, con nota di Bossi, Sussistenza di ipotesi penalmente rilevanti: è competente il giudice che ha dichiarato il fallimento).

Può peraltro configurarsi una competenza concorrente di tribunali diversi qualora un medesimo soggetto faccia capo a più imprese, in quanto: i) imprenditore individuale titolare di imprese diverse; ii) socio illimitatamente responsabile di due diverse società fallite; iii) imprenditore individuale e al contempo socio illimitatamente responsabile di altra società di persone fallita (Ferro, La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, 2014, 178).

In evidenza: Il conflitto positivo di competenza

Ai sensi dell'art. 9-ter l. fall., quando il fallimento è stato dichiarato da più tribunali, il procedimento prosegue avanti al tribunale competente che si è pronunciato per primo. Pertanto, poiché nei confronti del medesimo soggetto, titolare di più imprese, non possono pendere contemporaneamente diverse procedure fallimentari (in virtù del fondamentale principio della unitarietà della procedura concorsuale), il conflitto positivo di competenza, creatosi tra tribunali tutti ugualmente competenti ex art. 9, comma 1, l. fall., viene risolto secondo un criterio di prevenzione ed è denunciabile anche d'ufficio, non trovando ostacolo nel giudicato, implicito o esplicito, formatosi su una delle due decisioni (Cass. 25 settembre 2014, n. 20283). Il tribunale pronunciatosi successivamente, ove non richieda il regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c., dispone quindi la trasmissione degli atti al primo tribunale, affinché la procedura prosegua dinanzi a quest'ultimo, secondo il disposto di cui all'art. 9-bis l. fall.

Il conflitto di competenza di cui si tratta può comunque essere non solo reale, ma anche meramente virtuale (Cass. 30 ottobre 2014, n. 23116; Cass. 30 settembre 2005, n. 19198). In tal caso, optare per il regolamento di competenza dovrebbe implicare la sospensione del procedimento volto alla dichiarazione di fallimento ex art. 48 c.p.c. (App. Milano, 17 febbraio 2005). Permangono invece dubbi sull'eventuale reclamabilità del provvedimento che dispone la trasmissione degli atti.

Il conflitto positivo di competenza può inoltre essere denunciato anche qualora pendano, davanti a giudici differenti, procedure concorsuali di tipo diverso (Cass. 30 ottobre 2014, n. 23116, cit., che ha ammesso il regolamento di competenza, richiesto d'ufficio dal tribunale investito di istanza di fallimento nei confronti di società già dichiarata insolvente con sentenza di altro tribunale in vista dell'ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria). La questione, ovviamente, non si pone se una delle procedure non può più dirsi pendente (Cass. 10 febbraio 2016, n. 2695, con riguardo al caso in cui uno stesso imprenditore aveva presentato ricorso per la dichiarazione di fallimento in proprio presso un tribunale diverso rispetto a quello che aveva omologato una sua pregressa domanda di concordato preventivo).

La disciplina in tema di incompetenza

La norma di riferimento è l'art. 9-bis l. fall.

Possono delinearsi due casi.

  • Se il tribunale adito si ritiene incompetente, emette un'ordinanza di incompetenza e dispone con decreto l'immediata trasmissione degli atti all'ufficio giudiziario ritenuto competente. Resta ferma la possibilità di impugnare l'ordinanza di incompetenza ai sensi dell'art. 42 c.p.c., con regolamento necessario di competenza dinanzi alla Corte di Cassazione secondo il procedimento di cui all'art. 47 c.p.c. (Guglielmucci, 52). In tal caso la trasmissione degli atti sarà disposta dallo stesso tribunale inizialmente adito dopo aver ricevuto il provvedimento della Suprema Corte dichiarativo della sua incompetenza (comma 1). In assenza di impugnazione, il tribunale dichiarato competente dal primo giudice, se tale non si ritiene, può comunque richiedere d'ufficio il regolamento di competenza ex art. 45 c.p.c. entro venti giorni dal ricevimento degli atti (comma 2). Termine da intendersi qui fissato non a pena d'inammissibilità, posto che il conflitto negativo di competenza si pone con riguardo ad una procedura fallimentare non ancora iniziata (Cass. 4 aprile 2016, n. 6423). Altrimenti, il tribunale davanti al quale è avvenuta la translatio iudicii, confermando la propria competenza (e in ogni caso quando la stessa risulti dall'intervento della Cassazione), disporrà la prosecuzione della procedura fallimentare, con nuova convocazione delle parti ex art. 15 l. fall. (Ferro, 170), fatti salvi gli effetti degli atti precedentemente compiuti (comma 3), tra cui, oltre agli atti istruttori, anche le misure cautelari eventualmente emesse.
  • Se invece il tribunale adito si ritiene competente ed emette una sentenza di fallimento, la questione di competenza può essere fatta valere con regolamento facoltativo di competenza ex art. 43 c.p.c. oppure può essere oggetto di reclamo ex art. 18 l. fall. in sede di impugnazione della pronuncia sul merito. Il giudice conseguentemente dichiarato competente, dovrà o, rispettivamente, potrà – ove non richieda d'ufficio il regolamento di competenza (purché qui nel rispetto del termine di venti giorni fissato dalla legge per essere la procedura fallimentare già iniziata) – disporre la prosecuzione della procedura fallimentare, provvedendo alla nomina del giudice delegato e (eventualmente) del (nuovo) curatore, sempre però con salvezza degli effetti degli atti in precedenza compiuti, tra cui certamente lo stato passivo già reso esecutivo. Ne risulta quindi, in ogni caso, che la dichiarazione di incompetenza intervenuta dopo la sentenza di fallimento non ne comporta la nullità: il fallimento mantiene infatti i suoi effetti con la traslazione automatica della procedura davanti al tribunale riconosciuto competente (Cass. 3 gennaio 2013, n. 57), senza che debba essere pronunciata nuova sentenza di fallimento (Cass. 31 maggio 2010, n. 13316), rapportandosi sempre alla prima, ancorché pronunciata da un giudice incompetente, la produzione di ogni effetto, compreso il computo a ritroso del periodo sospetto (Cass. 4 maggio 2012, n. 6789) e il decorso del termine per l'esercizio della revocatoria (Cass. 5 novembre 2010, n. 22544). Qualora, dunque, l'incompetenza del giudice inizialmente adito sia dichiarata dalla Corte d'appello all'esito del reclamo, anche il giudizio di impugnazione prosegue, sulle altre questioni, dinanzi all'ufficio di secondo grado competente (che sarà lo stesso se il tribunale designato come territorialmente competente non sia fuori dal suo distretto: Cass. 19 luglio 2012, n. 12557). In tal caso si richiede però che detto giudizio sia riassunto ai sensi dell'art. 50 c.p.c. (comma 4), pena l'estinzione del processo con passaggio in giudicato della sentenza reclamata.

La medesima riassunzione della causa dinanzi al giudice competente è altresì prevista nei procedimenti promossi ai sensi dell'art. 24 l. fall. davanti al tribunale incompetente: quest'ultimo, a tal fine, sarà tenuto ad assegnare alle parti il termine per la riassunzione, ordinando la cancellazione della causa dal ruolo.

In evidenza: Questioni di competenza nel concordato preventivo

Ai sensi dell'art. 161 l. fall., anche la domanda di ammissione al concordato preventivo (o di omologazione dell'accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall.) è da proporsi dinanzi al tribunale del luogo in cui l'impresa ha la propria sede principale. Tuttavia la disciplina dettata in tema di competenza con riguardo alla procedura fallimentare non viene sempre applicata de plano. Secondo ad esempio Trib. Pavia 28 novembre 2012, l'art. 9-bis l. fall., nella parte in cui prevede la trasmissione immediata degli atti da parte del tribunale dichiarato incompetente non può essere applicato in via analogica per le procedure concordatarie, con la conseguente necessità per l'interessato di procedere alla riassunzione del procedimento davanti al tribunale competente secondo la disciplina generale. Per Cass. 21 dicembre 2010, n. 25810, invece, il meccanismo di trasmissione degli atti risulta applicabile anche nell'ipotesi in cui il conflitto sorga all'interno di due procedure di concordato preventivo.

Inoltre, secondo Cass. S.U. 15 maggio 2015, n. 9935 (in questo portale, con nota di Lamanna, Retromarcia sul principio di prevenzione/prevalenza del concordato: come non detto, il principio ancora esiste), tra la domanda di concordato preventivo e l'istanza o la richiesta di fallimento ricorre, in quanto iniziative tra loro incompatibili e dirette a regolare la stessa situazione di crisi, un rapporto di continenza: ne consegue dunque la riunione dei relativi procedimenti ai sensi dell'art. 273 c.p.c., se pendenti innanzi allo stesso giudice, ovvero l'applicazione delle disposizioni dettate dall'art. 39, comma 2, c.p.c. in tema di continenza e competenza, se pendenti innanzi a giudici diversi. Aggiunge poi Cass. S.U. 15 maggio 2015, n. 9936 che nel caso in cui, a seguito di conflitto positivo di competenza conseguente alla pronuncia dichiarativa di fallimento e all'apertura della procedura di concordato preventivo da parte di due distinti tribunali, penda regolamento di competenza d'ufficio, la Corte d'appello, davanti alla quale sia stata reclamata, anche per ragioni di competenza, la sentenza dichiarativa di fallimento, deve applicare analogicamente l'art. 48 c.p.c. e dichiarare sospeso l'intero procedimento e non solo la questione di competenza, sicché, qualora in sede di regolamento venga dichiarata l'incompetenza del tribunale che ha pronunciato il fallimento, è nulla la sentenza della Corte d'appello che abbia statuito in via non definitiva sul merito prima di dichiarare sospeso il processo sulla questione di competenza.

La giurisdizione italiana in materia fallimentare

In generale, ai sensi della L. n. 218/1995, pacificamente ritenuta applicabile anche nel contesto fallimentare, la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante autorizzato a stare in giudizio (art. 3, comma 1). Inoltre, con riguardo alle materie sottratte dal campo operativo della Convenzione di Bruxelles del 1968 (oggi Reg. (UE) 1215/2012, cfr. art. 1), quale è quella fallimentare, la giurisdizione italiana sussiste anche in base ai criteri stabiliti per la competenza territoriale (art. 3, comma 2, ultima parte). Poiché, dunque, a norma dell'art. 9, comma 1, l. fall. competente per la dichiarazione di fallimento è il tribunale del luogo dove è ubicata la sede principale dell'impresa, il criterio attributivo della competenza per territorio così delineato si tramuta, in virtù di quanto prescritto dalla norma di conflitto predetta, in titolo di giurisdizione, con la conseguenza che il giudice italiano godrà di competenza giurisdizionale per la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore che abbia sede principale in Italia, nonostante il carattere transnazionale dell'insolvenza e l'eventuale previa pendenza di un processo fallimentare straniero (v. Insolvenza transfrontaliera). Ma non solo. Poiché infatti, a norma dell'art. 24 l. fall., lo stesso tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere anche di tutte le azioni che ne derivano, la giurisdizione italiana sussiste altresì per la cognizione di quelle azioni che, pur presentando elementi di estraneità rispetto all'ordinamento italiano, sono connesse ad un fallimento aperto nel foro, come la revocatoria (Cass. S.U. 7 febbraio 2007, n. 2692, in Fall., 2007, 629, nota Catallozzi).

Con riguardo alla dichiarazione di fallimento, l'art. 9, comma 3, l. fall. introduce tuttavia un ulteriore titolo di giurisdizione che si aggiunge, senza importare deroghe, alla previsione generale. La competenza giurisdizionale del giudice italiano per l'apertura del concorso si riconosce infatti anche quando la sede principale dell'impresa sia collocata all'estero, purché, ovviamente, risulti un certo collegamento con il foro, da identificarsi in particolare nell'esercizio sul territorio nazionale di attività imprenditoriale attraverso una sede secondaria o quantomeno una stabile rappresentanza (Cass. S.U. 4 luglio 1985, n. 4049). In ciò trova anche soluzione l'apparente inconciliabilità tra la norma in commento e gli artt. 7 e 64 L. 218/1995. Un riconoscimento automatico della pronuncia di fallimento straniera non risulta infatti compatibile con l'espressa possibilità di dichiarare comunque l'insolvenza anche in Italia, salvo appunto ridurre la portata della procedura aperta ex art. 9, comma 3, l. fall. ai confini nazionali, trovandosi all'estero la sede principale dell'impresa e sul territorio domestico solo una sede secondaria o una stabile rappresentanza (v. Insolvenza transfrontaliera). In caso contrario prevarrà invece, come già detto, la completa irrilevanza della litispendenza internazionale (Daniele, Fallimento. Diritto internaz. priv. e process., in Enc. giur., 1998, 4), non foss'altro per la difficile ricorrenza dell'identità della lite, ove intesa in senso stretto, con riguardo alle azioni di apertura di una procedura d'insolvenza (Queirolo, Le procedure d'insolvenza nella disciplina comunitaria, 2007, 280). Mentre, qualora l'impresa con sede principale all'estero difetti di sede secondaria o stabile rappresentanza in Italia, non potrà qui essere dichiarata fallita, potendo solo i suoi creditori agire esecutivamente sui beni ubicati sul territorio nazionale, ferma la possibile delibazione del provvedimento di apertura della procedura straniera (Guglielmucci, 44).

Coerentemente, alla luce del comma 3 dell'art. 9 l. fall., la sussistenza della giurisdizione italiana non sarà esclusa dal trasferimento della sede dell'impresa all'estero. Il che è previsto espressamente dall'art. 9, comma 5, l. fall., ad abundantiam rispetto all'art. 5 c.p.c., con riguardo al trasferimento (sia esso reale o fittizio) avvenuto dopo il deposito del ricorso o la presentazione dell'istanza per la dichiarazione di fallimento. Il trasferimento avvenuto invece prima di tale indicazione temporale non farà venir meno la giurisdizione italiana solo se fittizio, a prescindere dal fatto che sia intervenuto o meno nell'anno antecedente all'esercizio dell'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, posto che l'art. 9, comma 2, l. fall., dettato in tema di competenza interna, non assume qui rilievo.

Pertanto, qualora la sede dell'impresa venga effettivamente trasferita all'estero prima dell'esercizio dell'azione fallimentare in Italia, quand'anche nell'anno che la precede, la giurisdizione italiana deve essere negata (App. Venezia 15 settembre 2009, inedita); per contro, l'accertamento della fittizietà del trasferimento della sede oltre i confini nazionali radica in Italia la giurisdizione ai fini concorsuali, in ragione della sua inderogabilità, secondo il disposto, ripetutamente richiamato dalla giurisprudenza, degli artt. 9 l. fall. e 25 L. 218/1995, che in particolare individua la legge italiana quale legge applicabile alle società e agli enti con sede amministrativa in Italia (Cass. S.U. 3 ottobre 2011, n. 20144, in Dir. fall., 2012, 142, nota Cerrato; cfr. anche: Cass. S.U., 9 gennaio 2014, n. 265 e 3 ottobre 2011, n. 20144, in Dir. fall., 2012, 142, nota Cerrato, sempre con riguardo ad un trasferimento fittizio in Stato extra-UE). Pertanto, per affermare la giurisdizione italiana, il trasferimento all'estero della sede legale deve rappresentare solo un atto formale, non seguito da un effettivo spostamento dell'esercizio dell'attività imprenditoriale e del centro dell'attività direttiva ed amministrativa, spettando al giudice del luogo in cui si è perfezionato il procedimento di costituzione della società stabilire quale sia in concreto la sede della stessa (Cass. S.U. 17 febbraio 2016, n. 3059).

La competenza giurisdizionale nella disciplina europea sulle procedure d'insolvenza

Ai sensi dell'art. 9, comma 4, l. fall., sono fatte salve le convenzioni internazionali e la normativa dell'Unione europea. Riguardo a quest'ultima, rileva il Reg. (CE) 1346/2000, oggi sostituito dal Reg. (UE) 848/2015 (con decorrenza dal 26 giugno 2017), sulle procedure d'insolvenza a carattere transfrontaliero intra-comunitario, con cui si sono dettate norme uniformi (anche) in tema di giurisdizione. In particolare, l'art. 3 ripartisce, in modo inderogabile, tra i vari Stati membri la competenza giurisdizionale ad aprire la procedura d'insolvenza, adottando: i) per la procedura principale (par. 1), il criterio del centro degli interessi principali del debitore (centre of main interests, in acronimo: COMI), oggi normativamente qualificato come il luogo in cui il debitore esercita, al tempo della proposizione della domanda di apertura (Corte giust., 17 gennaio 2006, C-1/04, Staubitz-Schreiber), la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi; ii) e, per le procedure secondarie (par. 2), quello della dipendenza, da intendersi come qualsiasi luogo di operazioni in cui il debitore esercita, in maniera non transitoria, un'attività economica con mezzi umani e con beni.

  • Sono dunque competenti ad aprire la procedura principale d'insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il COMI del debitore, da presumersi, sino a prova contraria, coincidente con la sede legale della società (ovvero, secondo le previsioni del nuovo Regolamento, con la sede principale di attività delle persone fisiche esercenti attività imprenditoriale o professionale e con la residenza abituale dei consumatori). La presunzione si applica, tuttavia, in virtù della precisazione introdotta con il Reg. (UE) 848/2015, solo se la sede legale (o la sede principale di attività) non è stata spostata in altri Stati membri nei tre mesi precedenti la domanda di apertura della procedura d'insolvenza (periodo esteso a sei mesi con riguardo alla residenza abituale dei consumatori).
  • I giudici di uno Stato membro diverso da quello del COMI sono invece competenti ad aprire una procedura d'insolvenza territoriale (qualificata come secondaria, quando segue quella principale) nei confronti del medesimo soggetto solo se questi ivi possiede una dipendenza, restando peraltro sufficiente a fondare la giurisdizione, sempre in virtù di una precisazione introdotta con il Reg. (UE) 848/2015, la circostanza che il debitore abbia esercitato in quello stesso Stato un'attività economica (con le caratteristiche suddette) nei tre mesi precedenti la richiesta di apertura della procedura principale d'insolvenza.

Poiché, peraltro, tali disposizioni fissano soltanto la giurisdizione internazionale, ossia designano lo Stato membro i cui giudici possono aprire una procedura d'insolvenza, la competenza territoriale interna sarà determinata dal rispettivo diritto nazionale. Così, ad esempio, qualora più dipendenze siano ubicate in Italia, in virtù dell'art. 9, comma 1, l. fall., sarà competente il tribunale del luogo in cui è sita la dipendenza “principale” (cfr. Cass. 12 dicembre 2011, n. 26518, in Giur. it., 2012, 5, nota Weigmann).

Anche l'applicazione della normativa europea richiede che ogni qual volta in punto di fatto risulti accertata una discrepanza tra sede legale (o sede principale di attività o residenza abituale) e sede effettiva, è l'ubicazione di quest'ultima a dover prevalere e a costituire perciò il criterio determinante della giurisdizione, dato il carattere meramente relativo della sancita presunzione di coincidenza (Cass. S.U. 6 febbraio 2015, n. 2243, in questo portale nota Armeli). Pertanto, nel caso di società, la presunzione risulta superabile se l'amministrazione centrale è situata in uno Stato membro diverso da quello della sede legale e una valutazione globale degli elementi rilevanti consente di stabilire, in maniera riconoscibile dai terzi, che il centro effettivo di direzione e di controllo della società stessa, nonché della gestione dei suoi interessi, sono situati in tale altro Stato membro (cfr. Corte giust. 20 ottobre 2011, C-396/09, Interedil; 15 dicembre 2011, C-191/10, Rastelli; più restrittiva invece: 2 maggio 2006, C-241/04, Eurofood).

Sulla scia della giurisprudenza comunitaria, le S.U. della Cassazione hanno spesso riconosciuto la giurisdizione italiana in ordine al fallimento di società che avevano precedentemente trasferito all'estero la propria sede, senza però effettivo spostamento del COMI, ritenendo ad esempio quale elemento decisivo: l'ubicazione in Italia del domicilio o della sede dell'amministratore unico e dei soci, nonché di tutti i beni immobili sociali (20 marzo 2015, n. 5688, in Giur. it., 2015, 2114, nota Griffini); il rilascio dopo il formale trasferimento della sede, a un cittadino italiano da sempre residente in Italia, di una procura generale ad operare in nome e per conto della società, con un raggio d'azione e con poteri così ampi da consentire a detto soggetto di comportarsi di fatto come il vero gestore dell'impresa (16 maggio 2014, n. 10823); il mancato esercizio presso la nuova sede di attività economica, rimanendo al contempo in Italia il centro dell'attività direttiva, amministrativa e organizzativa (11 marzo 2013, n. 5945, in Dir. fall., 2014, 95, nota Giordano); il luogo in cui effettivamente si forma la volontà dell'ente e in cui abitualmente si trovano e operano i soggetti dai quali la stessa in concreto promana, specie se i soci, chi impersona l'organo amministrativo ovvero chi ha maggiormente operato per la società, sono cittadini italiani senza collegamenti significativi con lo Stato straniero (20 luglio 2011, n. 158806); l'assenza di riscontro del trasferimento nel registro delle imprese dello Stato estero (18 maggio 2009, n. 11398, in Corr. giur., 2009, 899, nota Carbone). Per contro, la giurisdizione italiana è stata negata in presenza di indizi univoci che deponevano concordemente per la natura effettiva del trasferimento della società, stante ad esempio la disdetta del contratto di locazione, la denunzia di cessazione di attività all'Inps, all'Inail, alla Agenzia delle Entrate, la voltura delle utenze telefoniche, del gas e dell'energia elettrica, la chiusura dei conti bancari e la formale delibera dell'assemblea straordinaria che disponeva il trasferimento con conseguente regolare iscrizione nel registro delle imprese dello Stato estero (Cass. S.U. 16 dicembre 2009, n. 26287, in Fall., 2010, 663, nota De Cesari).

In evidenza: Il conflitto positivo di giurisdizione

Nel sistema europeo manca una norma specifica per il caso in cui due (o più) giudici di Stati membri diversi si ritengano competenti ad aprire una procedura principale d'insolvenza nei confronti dello stesso debitore. L'eventuale conflitto positivo di giurisdizione viene quindi risolto secondo un astratto criterio di priorità, in base al quale la decisione che per prima abbia aperto la procedura viene automaticamente riconosciuta in tutti gli altri Stati membri (nel momento in cui la stessa, definitiva o meno, inizia a produrre effetti nell'ordinamento in cui è stata emanata), in virtù della sottesa fiducia tra le autorità dei diversi Paesi UE con riguardo alla corretta applicazione delle regole sulla competenza giurisdizionale. Tanto che è inibita la facoltà di sottoporre a valutazione la decisione del primo giudice negli altri Stati membri, potendo infatti la carenza di giurisdizione del giudice che ha aperto la procedura principale essere fatta valere soltanto nell'ordinamento al quale egli appartiene, secondo i mezzi di impugnazione previsti dal diritto interno (cfr. anche Cass. S.U. 14 aprile 2008, n. 9743, in Fall., 2008, 1149, nota Montella).

A differenza del precedente, il nuovo Reg. (UE) 848/2015 detta norme ad hoc in tema di verifica della competenza e impugnazione della decisione di apertura. Qualunque giudice investito di una domanda di apertura di una procedura d'insolvenza sarà tenuto infatti a verificare d'ufficio la propria competenza, esponendo nella decisione di apertura i motivi della competenza giurisdizionale, in particolare se questa legittimi l'apertura di una procedura principale o secondaria (art. 4, par. 1). Prima di aprire la procedura di insolvenza, il giudice adito deve quindi verificare, anche senza impulso di parte, se il COMI del debitore o la dipendenza di quest'ultimo siano effettivamente situati entro la sua giurisdizione. Inoltre, la decisione di apertura della procedura principale d'insolvenza per motivi di competenza giurisdizionale internazionale potrà comunque essere impugnata dal debitore o da qualsiasi creditore, o anche da parti diverse e per motivi differenti, qualora il diritto nazionale lo preveda, ma sempre in sede giurisdizionale (art. 5, par. 1 e par. 2). Le conseguenze dell'impugnazione della decisione di apertura restano invece disciplinate dal diritto interno.

Con riguardo alle azioni collegate alla procedura d'insolvenza (escluse dall'ambito di applicazione del Reg. (UE) 1215/2012 e già dalla Convenzione di Bruxelles del 1968: Corte giust., 22 febbraio 1979, C-133/78, Gourdain; 10 settembre 2009, C-292/08, German Graphics; 4 settembre 2014, C-157/13, Nickel; 4 dicembre 2014, C-295/13, H; 10 dicembre 2015, C-594/14, Kornhaas), la normativa europea, oltre ad occuparsi di riconoscimento ed esecuzione, fissa oggi espressamente, grazie alla previsione introdotta nel Reg. (UE) 848/2015, anche la competenza giurisdizionale, prevedendosi che i giudici dello Stato membro nel cui territorio è aperta una procedura d'insolvenza (principale o territoriale) sono competenti a conoscere delle azioni che derivano direttamente dalla procedura e che vi si inseriscono strettamente (art. 6, par. 1), come le azioni revocatorie (ha chiarito quando un'azione revocatoria non può considerarsi quale azione collegata: Corte giust. 19 aprile 2012, C-213/10, F-Tex SIA), quand'anche da esperirsi nei confronti di convenuti non domiciliati sul territorio di uno Stato membro (Corte giust. 16 gennaio 2014, C-328/12, Ralph Schmid), non ostando a tal fine l'inopponibilità agli Stati terzi delle disposizioni relative al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni pronunciate dal giudice che ha aperto la procedura d'insolvenza. Ne risulta pertanto una vis attractiva, generalizzata a livello europeo, ma soltanto parziale (cfr. Corte giust. 12 febbraio 2009, C-339/07, Deko Marty), posto che è rivolta sì a favore dei giudici dello Stato membro ove è aperta la procedura d'insolvenza (anche in caso di convenuti extra-UE), ma saranno poi le norme interne di detto Stato a determinare quale, in concreto, sia l'organo competente per materia e territorio (vi potrà essere coincidenza tra il giudice presso cui pende la procedura e quello competente a conoscere le azioni da questa derivanti, ad esempio, nel caso di procedura aperta in Italia, per il principio di cui all'art. 24 l. fall., o in Francia o in Belgio, ove parimenti si attua la concentrazione davanti ad un unico giudice; non altrettanto, invece, sarà a dirsi con riguardo alla normativa tedesca o inglese).

Competenza e giurisdizione in caso di gruppo di imprese

In generale, stante l'assenza di una disciplina positiva, secondo la nostra giurisprudenza in caso di fallimento di una società appartenente a un gruppo, il collegamento societario non è di per sé sufficiente a spostare gli ordinari criteri di competenza e giurisdizione, nell'ipotesi in cui l'attività direttiva, amministrativa e organizzativa di ogni singola società resti radicata presso la sua sede principale (cfr. anche art. 82 D.Lgs. 270/1999), a meno che non sia data prova di una direzione unitaria delle società figlie nella sede della società madre (Cass. 19 luglio 2012, n. 12557; Cass., 6 novembre 2012, n. 19147).

La soluzione è il linea con la tendenza che si registra anche a livello europeo (cfr. Armeli, Le procedure di insolvenza nella disciplina europea, 2016, in corso di pubblicazione), volta a considerare l'insolvenza del gruppo come un fenomeno unitario, così da garantire un coordinamento più facile tra le procedure a carico delle società collegate, qualora il COMI di queste ultime venga localizzato in quello della capogruppo per essere l'attività di direzione e il centro propulsore situati presso la sede della controllante, benché la sede statutaria delle medesime si collochi formalmente in uno Stato membro diverso (Trib. Parma 20 febbraio 2004, in Giur. it., 2005, 6, nota Boggio; contra: Trib. Rimini, 6 aprile 2004, che ha negato la propria giurisdizione, considerando che la mera mancanza di autonomia gestionale dell'impresa controllata, in quanto soggetta alle direttive e alle scelte strategiche della capogruppo, anche in assenza di altri specifici elementi, non consentirebbe di concludere per la mancanza di un distinto centro amministrativo proprio della controllata e quindi di identificare la sede di quest'ultima con quella della capogruppo).

Tra le novità introdotte dal Reg. (UE) 848/2015 si ritrova proprio la disciplina dell'insolvenza dei gruppi multinazionali, la cui assenza nel precedente Reg. (CE) 1346/2000 ha legittimato l'interpretazione secondo la quale il COMI deve essere localizzato, senza alcun riferimento alla capogruppo, per ogni singola società che svolge effettivamente la propria attività nello Stato membro in cui ha sede (Corte giust. 2 maggio 2006, C-241/04, Eurofood). In particolare, nel nuovo Regolamento si introducono norme ad hoc relative ad una procedura di coordinamento di gruppo gestita da un apposito coordinatore, senza però limitare la possibilità, sperimentata nella prassi, di avviare in un'unica giurisdizione la procedura d'insolvenza per le varie società del gruppo, qualora si ritenga che il COMI delle stesse si trovi in un medesimo Stato membro (cfr. Corte giust. 15 dicembre 2011, C-191/10, Rastelli), acconsentendosi in tal caso, ove opportuno, alla nomina dello stesso amministratore per tutte le procedure in questione. Così, nel caso di controllante italiana e controllate straniere, nonostante ciascuna disponga di uno stabilimento ubicato nello Stato membro della propria sede statutaria presso cui svolge effettivo esercizio del proprio oggetto sociale, sarà possibile da parte delle medesime, sostenendo di avere il proprio COMI radicato nel luogo in cui è localizzato quello della capogruppo, avanzare, per ipotesi, anche una proposta coordinata e congiunta di concordato preventivo o amministrazione straordinaria, come in taluni casi già concretamente verificatisi (cfr. Mazzoni, Concordati di gruppi transfrontalieri e disciplina comunitaria delle procedure di insolvenza, in Riv. dir. societario, 2010, 552).

L'evoluzione normativa a livello europeo ha peraltro spinto anche il legislatore italiano ad accogliere, in prospettiva di riforma, una disciplina specifica in materia di crisi e insolvenza dei gruppi di imprese.

Riferimenti

Normativi

  • Artt. 9, 9- bis , 9-ter e 24 l. fall.
  • Art. 3 Reg. (CE) 1346/2000
  • Artt. 3, 4, 5 e 6 Reg. (UE) 848/2015
  • Art. 3 L. 218/1995

Giurisprudenza

  • Cass. S.U., 17 febbraio 2016, n. 3059
  • Cass. S.U., 15 maggio 2015, n. 9935 e 9936
  • Cass. S.U., 6 febbraio 2015, n. 2243
  • Cass. S.U., 9 gennaio 2014, n. 265
  • Cass. S.U., 11 marzo 2013, n. 5945
  • Cass., 19 luglio 2012, n. 12557
  • Cass. S.U., 14 aprile 2008, n. 9743
  • Cass. S.U., 7 febbraio 2007, n. 2692

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