Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 69 bis - Decadenza dall'azione e computo dei termini12

Federico Rolfi

Decadenza dall'azione e computo dei termini12

 

Le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione non possono essere promosse decorsi tre anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque decorsi cinque anni dal compimento dell'atto.

Nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo segua la dichiarazione di fallimento, i termini di cui agli articoli 64, 65, 67, primo e secondo comma, e 69 decorrono dalla data di pubblicazione della domanda di concordato nel registro delle imprese 3.

[1] Articolo inserito dall'articolo 55 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

[2] Rubrica sostituita dall'articolo 33, comma 1, lettera a-bis), numero 1), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con la decorrenza indicata dal comma 3 del medesimo articolo 33 del suddetto D.L. n. 83 del 2012.

[3] Comma aggiunto dall'articolo 33, comma 1, lettera a-bis), numero 2), del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con la decorrenza indicata dal comma 3 del medesimo articolo 33 del suddetto D.L. n. 83 del 2012.

Inquadramento

La previsione è stata introdotta all'evidente scopo di assicurare certezza e stabilità ai rapporti giuridici, ed in tal senso è eloquente il fatto che il legislatore abbia optato (dopo progetti miranti a modificare il regime della prescrizione) per un più rigido termine di decadenza, sottratto come tale ad atti interruttivi (Cavallini – Gaboardi, 312; Sanseverino, 371). Le possibili perplessità in ordine al secondo termine quinquennale — dal momento che lo stesso viene fatto decorrere da un momento (il compimento dell'atto) in cui l'esercizio del diritto (e cioè la proposizione della revocatoria) ai fini dell'art. 2966 c.c. ancora non è possibile, con conseguente conflitto con una regola (quella dell'art. 2935 c.c.) che avrebbe valenza generale e non limitata alla prescrizione (Benedetti, 739; Cavallini – Gaboardi, 314; Sanseverino, 374) — sono state ritenute infondate proprio per la contemporanea presenza di un termine (quello triennale) stavolta connesso alla possibilità di esercizio dell'azione (Montanari, 1088), e dalla necessità che l'applicazione della meccanismo della consecutio non venga a dilatare eccessivamente i termini (Montanari, 1090).

La disciplina

La previsione del doppio termine – che in uno scenario ordinario potrebbe sembrare «tautologica» (Patti — Nardecchia – Bosticco, 762) o «inutile» (Bonfatti, 613), considerato che la sommatoria del termine triennale al massimo «periodo sospetto» biennale già condurrebbe ad un meccanismo di preclusione quinquennale (Patti — Nardecchia – Bosticco, 762) – deve ritenersi giustificata dalla considerazione che il legislatore della Riforma 2006 doveva avere per quel meccanismo di consecutio che, già affermato in via interpretativa, è stato poi definitivamente formalizzato a livello normativo con l'aggiunta del secondo comma ad opera del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (Montanari, 1090). L'introduzione del termine quinquennale, quindi, vale ad evitare che la «anticipazione» del periodo sospetto «a ritroso» connessa alla presentazione della domanda di concordato, sommata alla necessaria decorrenza del termine decadenziale triennale dalla data di dichiarazione del fallimento, conduca ad una dilatazione eccessiva del lasso temporale di «revocabilità» dell'atto (Patti — Nardecchia – Bosticco, 762); ed invece determina uno sbarramento finale che stabilizza in via definitiva l'atto revocabile decorso il quinquennio dal suo compimento.

La scelta della decadenza, come detto, introduce un meccanismo assai più rigoroso della prescrizione, atteso che il decorso del termine, infatti, non può essere interrotto, né è soggetto a sospensione (art. 2964 c.c.), con la conseguenza che la decadenza può essere impedita solo dall'esercizio del diritto ex art. 2965 c.c., e quindi dalla proposizione dell'azione giudiziale (Cavallini – Gaboardi, 313; Jorio, 457; Limitone, 955; Patti — Nardecchia – Bosticco, 763), e cioè dalla consegna dell'atto introduttivo della revocatoria all'ufficiale giudiziario per la notifica (Sanseverino, 371). Per contro, non vertendosi in materia di diritti indisponibili, deve ritenersi che la decadenza in esame costituisca eccezione in senso proprio, e debba essere quindi eccepita dalla parte (Patti — Nardecchia — Bosticco, 763 contra Gommellini, 974, favorevole alla rilevabilità di ufficio, sul postulato che il termine triennale sia sottratto alla disponibilità delle parti), mentre risulta discutibile l'applicazione della sospensione feriale (Gommellini, 975). L'impossibilità di sospendere o interrompere il termine comporta che, qualora il giudizio di revocatoria si estingua o sia definito in rito, la decadenza verrà comunque a maturare (Benedetti, 741).

Alternativa alla ricostruzione teorica che qualifica entrambi i termini come ipotesi di decadenza, è la tesi che ritiene che tale qualificazione sia corretta con esclusivo riferimento al termine triennale, laddove il termine quinquennale andrebbe ritenuto come termine di prescrizione, anche in considerazione dell'affinità che esso presenta con il termine quinquennale di cui all'art. 2903 c.c. (anch'esso decorrente prima ancora della possibilità che il creditore eserciti il proprio diritto, nel caso di atti anteriori al sorgere del credito), e tenuto conto degli orientamenti precedenti la Riforma 2006 (Bonfatti, 614). Proprio l'affinità con l'art. 2903 c.c., tuttavia, ha indotto altra parte della dottrina a rovesciare i termini della questione, ed a riproporre la questione della possibilità di qualificare anche tale termine come ipotesi di decadenza e non prescrizione (Montanari, 1090).

La tesi che riconduce il termine quinquennale alla prescrizione, invero, può invocare a proprio favore la facoltà che l'art. 95 conferisce al curatore, in sede di esame dello stato passivo, di eccepire «l'inefficacia del titolo su cui sono fondati il credito o la prelazione, anche se è prescritta la relativa azione» (c.d. «revocatoria breve») – che sarebbe, appunto, da riferirsi al termine quinquennale, essendo improbabile il maturarsi della decadenza triennale prima del completamento dello stato passivo (Bonfatti, 614) – laddove l'affermazione della natura decadenziale del termine rende inevitabile ritenere che il rigore del regime ad esso collegato venga a subire un'attenuazione con estensione del principio temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum (Cavallini – Gaboardi, 318; Di Iulio, 112; Limitone, 956; Sanseverino, 373), che non è ben chiaro quanto sia stata lucidamente voluta dal legislatore, stante il tenore letterale della previsione (Jorio, 458; dubbi sull'applicabilità Benedetti, 742).

Già in relazione a fattispecie anteriori alla Riforma era stato affermato che la prescrizione dell'azione revocatoria poteva essere interrotta solo dalla notifica di un atto giudiziario e non anche con diffide stragiudiziali (Cass. I, n. 13302/2012). Conseguentemente, alla luce dei principi per cui la decadenza costituisce una eccezione in senso stretto e non è rilevabile d'ufficio, ex art. 2969 c.c., a meno che si controverta su materia sottratta alla libera disponibilità delle parti (Cass. I, n. 8572/1993); e l'esercizio dell'azione revocatoria fallimentare assume carattere di diritto potestativo (Cass. I, n. 13767/2015; Cass. S.U., n. 437/2000), appare logico concludere che a maggior ragione nel regime vigente l'unico mezzo per impedire la decadenza, sarà l'introduzione del giudizio di revocatoria.

Semmai, appare rilevante rammentare che il momento in cui il giudizio è introdotto (e quindi la decadenza impedita) dovrà ritenersi coincidente con il momento di presentazione dell'atto per la notifica, alla luce della decisione che – rivedendo un precedente orientamento (Cass. I, n. 26804/2013) – ha chiarito che la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario si estende anche agli effetti sostanziali degli atti processuali, qualora il diritto non possa farsi valere se non, appunto, con un atto processuale (Cass. S.U., n. 24822/2015).

La Suprema Corte ha invece escluso in passato l'applicazione della sospensione feriale al termine quinquennale di prescrizione (ante Riforma) dell'azione revocatoria ex art. 67 l.fall. (Cass. I, n. 22366/2007). La decisione, peraltro, postulava che la prescrizione non avesse rilevanza processuale, non incidendo sul diritto di agire in giudizio, ragionando a contrario sui termini di decadenza, ed ammettendo che la nozione di termini processuali potesse ricomprendere anche il termine iniziale entro il quale il processo deve essere introdotto, quando la proposizione della domanda costituisca l'unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso (in tale ultimo senso Cass. I, n. 23638/2011). Appare, quindi, possibile immaginare che diverso possa essere un ipotetico approdo della Suprema Corte in relazione al termine di decadenza introdotto nel 2006.

L'ambito applicativo

Nonostante il tenore apparentemente generale della previsione («le azioni revocatorie disciplinate nella presente sezione»), vi è più di un ragionevole dubbio sull'applicabilità della previsione alle ipotesi di azione di mera inefficacia ex artt. 64 e 65 l.fall., dal momento che, trattandosi di azioni di mero accertamento (e non costitutive come le revocatorie disciplinate dagli articoli successivi), le stesse dovrebbero non solo essere imprescrittibili, ma anche sottratte ad un meccanismo (la decadenza) che dovrebbe trovare applicazione alle sole situazioni potestative, e quindi alle azioni costitutive (Benedetti, 742; Cavallini – Gaboardi, 317; Montanari, 1094; Di Iulio, 121; Limitone, 956; Patti — Nardecchia – Bosticco, 765; contra Bertacchini, 1398 e 1468; Sandulli, 897). Né tale conclusione sembra scossa dall'aggiunta del secondo comma della norma, che contempla nel proprio elenco, anche le domande ex art. 64 e 65, dal momento che la previsione è riferita esclusivamente ai «termini di cui» alle singole previsioni in materia di revocatoria, e non ha necessariamente, come proprio precipitato, l'estensione del regime normativo del primo comma anche alle azioni di mera inefficacia, che dovrebbero quindi restare assoggettate solo al termine del «periodo sospetto».

Più complessa è la tematica dell'applicazione del termine all'azione revocatoria ordinaria esercitata dal curatore ex art. 66 (favorevoli Montanari, 1094; Bertacchini, 1468; Ronco, 1227; Benedetti, 742 e — anche in virtù del richiamo che l'art. 2904 c.c. opera alle previsioni sulla revocatoria in materia fallimentare — Cavallini – Gaboardi, 318; contrari Limitone, 956; Porzio, 334) ed alla revocatoria degli atti tra coniugi ex art. 69 (Patti — Nardecchia — Bosticco, 760; Porzio, 345).

Ulteriormente, ferma restando la non applicabilità della previsione alle azioni revocatorie «non disciplinate» nella legge fallimentare e che quest'ultima non richiamino (Limitone, 958) — il termine di decadenza sembra destinato a misurarsi con le peculiarità delle singole procedure concorsuali, come la necessità della nomina dell'organo cui compete l'esercizio dell'azione nella liquidazione coatta amministrativa (art. 198 l.fall.); oppure la necessità della previa autorizzazione all'esecuzione di un programma di cessione dei complessi aziendali nell'amministrazione straordinaria (art. 49, d. lgs. 8 luglio 1999, n. 270); o la complessità della c.d. revocatoria aggravata prevista, per gli atti interni al gruppo di imprese, dall'art. 91 del d.lgs. 8 luglio 1999, n. 270 (Di Iulio, 124; Patti — Nardecchia – Bosticco, 765; Porzio, 381) atteso che la significativa incidenza che la regola in commento verrebbe ad avere su tali fattispecie verrebbe a sollevare concreti dubbio di legittimità costituzionale.

In fattispecie anteriore all'introduzione della previsione in esame la Cassazione ha affermato che in tema di liquidazione coatta amministrativa il termine di prescrizione va desunto dall'art. 2903 c.c. e per la identificazione del dies a quo occorre far riferimento ai due eventi congiunti dell'accertamento giudiziale predetto e del provvedimento che ordina la liquidazione (Cass. I, n. 605/2013).

La consecutio

La previsione viene a recepire quello che era un orientamento espresso dalla giurisprudenza anche in epoca anteriore alla sia introduzione, e che, semmai, era stato rimesso in discussione dopo la Riforma 2006, come conseguenza della differenziazione dei presupposti di fallimento e concordato, e della possibilità di proporre quest'ultimo anche in presenza di un mero stato di insolvenza (Bonfatti, 631).

L'introduzione del nuovo secondo comma, quindi, vale a risolvere un dibattito in senso favorevole all'orientamento pregresso, sancendo il criterio della consecutio ed indirettamente giustificando l'esistenza del doppio termine di cui al primo comma.

Correttamente si rileva che tuttavia la norma non vale a suggerire la irrevocabilità degli atti compiuti successivamente al deposito del concordato, in quanto tali atti, o sono compiuti nel rispetto delle previsioni per l'amministrazione del patrimonio dell'impresa in concordato (risultando non solo validi ed efficaci, nonché fonte di crediti prededucibili ex art. 161 settimo comma), oppure sono compiuti al di fuori di tali previsioni (risultando allora automaticamente inefficaci ed inopponibili ai creditori, senza bisogno di proporre azione revocatoria), risultando conseguentemente superflua l'applicazione del criterio della consecutio (Bonfatti, 633; Limitone, 958).

Il problema dell'applicazione dei termini ex art. 69-bis e della consecutio, quindi, dovrebbe trovare soluzioni diverse a seconda che si verta nell'ipotesi in cui il concordato non venga omologato, e si assista alla diretta dichiarazione di fallimento («conversione»: Bonfatti, 633), o nell'ipotesi in cui il concordato venga omologato, ma successivamente l'impresa venga dichiarata fallita («consecuzione»: Bonfatti, 633). Nel primo caso, fermo quanto osservato per gli atti in pendenza di procedura, per gli atti anteriori assumerebbe piena valenza la regola della consecutio, con retrodatazione dei termini alla data di deposito del concordato. Nel secondo caso, invece, poiché l'impresa dopo l'omologa continua ad operare deve ritenersi che, con l'eccezione degli atti che costituiscono esecuzione del concordato (non revocabili ex art. 67, comma terzo, lett. e), che si riferisce appunto agli atti successivi all'omologazione), gli altri atti saranno assoggettabili a revocatoria nel successivo fallimento, senza ragione alcuna di applicare l'art. 69-bis (Bonfatti, 634).

Poiché, ottenuta la concessione di termini ex art. 161, comma sesto, l.fall., l'impresa può anche optare successivamente per un accordo di ristrutturazione (con «conservazione degli effetti del ricorso»), si pone il problema dell'applicabilità della previsione anche a tale fattispecie. Quesito che, almeno secondo una voce (Benedetti, 745) potrebbe essere risolto in senso positivo all'applicabilità dell'art. 69-bis qualora, depositata domanda di concordato «prenotativo», e poi depositato nel termine ricorso ex art. 182-bis, l'accordo di ristrutturazione non venga omologato e si assista alla dichiarazione di fallimento.

La giurisprudenza di merito ha già affermato che il termine di decadenza in esame trova applicazione solo alle azioni revocatorie promosse nell'ambito di procedure di fallimento regolate dalla disciplina introdotta dalla Riforma 2006 (Trib. Treviso, 3 maggio 2007; Trib. Novara, 17 dicembre 2012).

Per il periodo pregresso, peraltro, vale la regola giurisprudenziale della consecutio, sempre ribadita dalla Cassazione (Cass. I, n. 13445/2011; Cass. I, n. 28445/2008).

Bibliografia

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