Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 56 - Compensazione in sede di fallimento.

Angelo Napolitano

Compensazione in sede di fallimento.

 

I creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento. (A)

Per i crediti non scaduti la compensazione tuttavia non ha luogo se il creditore ha acquistato il credito per atto tra i vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore.

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(A) In riferimento alle Procedure concorsuali - fatturazione delle prestazioni professionali - compensazione del credito erariale verso la massa con il debito tributario verso il fallito, di cui al presente comma vedi: Risposta dell'Agenzia delle Entrate 19 ottobre 2022, n. 521.

Inquadramento

La disposizione in commento costituisce una vistosa eccezione al principio, scolpito nell'art. 52 l.fall., in base al quale il fallimento apre il concorso dei creditori sui beni del fallito: essendo la compensazione un modo satisfattivo di estinzione dell'obbligazione, consentire al creditore del fallito di compensare i suoi crediti verso quest'ultimo con i suoi debiti verso lo stesso significa di fatto soddisfarlo del suo credito fino a concorrenza del debito verso il soggetto insolvente, senza che quel creditore debba assoggettarsi al concorso con gli altri creditori per partecipare ai riparti e soddisfarsi del credito secondo la regola della par condicio ed in base alle cause legittime di prelazione.

Il trattamento fallimentare della compensazione stabilito nella legge del 1942 ha radicalmente innovato la materia rispetto al codice di commercio, dove non vi era una disposizione simile (Inzitari, 124).

Si afferma comunemente che l'eccezione prevista nell'articolo 56 l.fall. in tema di compensazione risponderebbe ad una ragione equitativa, che starebbe nell'evitare che un soggetto debba pagare i suoi debiti per poi subire la falcidia fallimentare in relazione ai suoi crediti verso il fallito (cfr. Lamanna, 806).

Alcuni autori, più precisamente, preferiscono parlare di funzione di garanzia attribuibile alla compensazione: il potere di estinguere un debito verso il fallito compensandolo con un correlativo credito, senza dover passare per la verifica del passivo e per i riparti proporzionali al credito in concorso con gli altri creditori, sarebbe un modo per rafforzare la posizione di un creditore che sia anche debitore del fallito, allo scopo di non ostacolare i traffici e di non ledere l'affidamento delle parti nell'elisione delle contrapposte partite di debito-credito, specialmente nel caso in cui chi concede credito lo fa perché spinto proprio dal poter poi, al momento della scadenza compensare i crediti con i debiti.

Giova in questa sede ricordare che gli artt. 4 e 6 del Regolamento del Consiglio delle Comunità europee n. 1346/2000 prevedono che è la legge dello Stato comunitario nel cui territorio è stata aperta la procedura a stabilire le condizioni di opponibilità della compensazione, e che l'apertura della procedura di insolvenza non pregiudica il diritto del creditore di invocare la compensazione del proprio credito con il credito del debitore, quando la legge cui è sottoposta la disciplina di quest'ultimo consente la compensazione.

La dottrina si è chiesta se il citato secondo presupposto previsto nel regolamento comunitario, cioè quello della previsione della possibilità di compensare prevista nella legge che disciplina il credito del debitore insolvente, sia rigorosamente alternativo al primo (quello della legge dello Stato in cui si è aperta la procedura di insolvenza), nel senso che esso non operi se la legge dello Stato di apertura della procedura consenta la compensazione, oppure se i due presupposti possano anche operare in maniera combinata, di modo che la legge che disciplina il credito del debitore insolvente possa comunque operare lì dove la legge dello Stato di apertura della procedura sia più limitativa per il creditore del soggetto insolvente (cfr. Daniele, 45).

I presupposti della compensazione

Come risulta evidente dal tenore dell'art. 56 l.fall., la compensazione dei reciproci crediti e debiti nei confronti del fallito è ammissibile anche se i crediti verso il fallito non siano ancora scaduti alla data della dichiarazione di fallimento.

La compensazione nel fallimento opera qualunque sia il titolo dell'uno e dell'altro credito, secondo l'articolo 1246 c.c.

Vi è però una differenza tra l'art. 1243 c.c. e l'art. 56 l.fall.: il primo prevede tra i presupposti della compensazione l'esigibilità dei crediti contrapposti, insieme alla liquidità e alla loro omogeneità, mentre l'art. 56 l.fall. tace rispetto ai crediti del fallito, disponendo peraltro che la compensazione non è impedita se i crediti verso il fallito non sono scaduti prima della dichiarazione di fallimento.

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha chiarito che la disposizione contenuta nell'art. 56 legge fallimentare rappresenta una deroga al concorso, a favore dei soggetti che si trovino ad essere al contempo creditori e debitori del fallito, non rilevando il momento in cui l'effetto compensativo si produce e ferma restando l'esigenza dell'anteriorità del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte. Le stesse esigenze poste a base della citata norma giustificano l'ammissibilità anche della compensazione giudiziale nel fallimento, perché operi la quale è necessario che i requisiti dell'art. 1243 cod.civ. ricorrano da ambedue i lati e sussistano al momento della pronuncia, quando la compensazione viene eccepita (Cass. S.U., n. 775/1999 in Foro it., 2000, I, p. 2892, con nota di Fabiani).

Le Sezioni Unite sono giunte a comporre un contrasto manifestatosi anche in sede di sezioni semplici, nell'ambito delle quali si era più volte sostenuto che una interpretazione letterale dell'art. 56 l.fall. portava a ritenere che l'unica eccezione rispetto alla compensazione civilistica era costituita dalla non necessaria esigibilità del credito verso il fallito alla data della dichiarazione di fallimento, ferma restando, dunque, la sussistenza degli altri requisiti della compensazione a quella data: «L'art. 56 della legge fallimentare, nell'ammettere la compensazione anche nel caso in cui il credito verso il fallito non sia scaduto prima dell'apertura della procedura concorsuale, non deroga agli altri requisiti richiesti per la operatività della compensazione legale, e non è, pertanto, applicabile nella ipotesi in cui il corrispondente credito del fallito non sia esigibile, senza che possa, in contrario, legittimamente invocarsi l'applicabilità della norma di cui all'art. 1184 in tema di rinunciabilità, da parte del debitore (del fallito), del termine di adempimento stabilito, esplicitamente o implicitamente, in suo favore, onde rendere, per l'effetto, surrettiziamente esigibile nei suoi confronti il credito del fallito, e sottrarsi, così, indebitamente alle regole della «par condicio» della procedura concorsuale» (Cass. I, n. 11371/1998).

Sul momento in cui nasce l'obbligazione restitutoria del promittente venditore in seguito allo scioglimento del contratto preliminare determinato dall'esercizio del diritto potestativo del curatore ai sensi dell'art. 72 l.fall., si sono pronunciate le sezioni unite della Suprema Corte: «Nel caso di fallimento del promissario compratore, la dichiarazione del curatore — ai sensi del secondo comma dell'art. 72 della legge fallimentare — di scioglimento dal vincolo contrattuale agisce su di esso caducandolo fin dall'origine, con la conseguenza che il credito restitutorio per le attribuzioni patrimoniali, eventualmente effettuate dal promissario compratore fallito, in forza di quel contratto, non può reputarsi inerente ad un'obbligazione nascente dalla stessa dichiarazione del curatore e nemmeno dalla dichiarazione di fallimento, ma è relativo ad un'obbligazione che trova il suo fatto genetico nel venir meno della giustificazione contrattuale dell'attribuzione patrimoniale fin dal momento della sua esecuzione. Ne consegue che, collocandosi tale momento anteriormente alla dichiarazione di fallimento, il suddetto credito, in quanto deve considerarsi sorto prima del fallimento stesso, va ritenuto compensabile con il controcredito del promissario venditore sorto anch'esso anteriormente a detta dichiarazione (Cass. S.U., n. 755/1999).

Pertanto, per aversi l'anteriorità rispetto al fallimento del debito con il quale il creditore in bonis può compensare il suo credito nei confronti del debitore fallito, occorre aver riguardo alla data in cui si è verificato il fatto genetico della obbligazione, e non alla data in cui il debito è stato concretamente accertato, come affermato chiaramente anche nella giurisprudenza di legittimità: «Ai fini dell'applicazione dell'art. 56 legge fall. e del requisito dell'anteriorità del debito che il creditore può far valere in compensazione dei suoi crediti verso il fallito, occorre fare riferimento alla data in cui si è verificato il fatto che ha determinato il debito, e non a quella in cui il debito è stato concretamente accertato» (Cass. I, n. 559/1998).

Risulta pertanto superata quella interpretazione rigorista, patrocinata anche in sede di merito, in base alla quale la compensazione legale può essere dichiarata nel corso della procedura, soltanto se i relativi presupposti si sono verificati prima della pronuncia della sentenza di fallimento. Secondo questa lettura, entrambi i crediti dovrebbero risultare certi e liquidi alla data del fallimento. Potrebbe aversi deroga al principio della esigibilità soltanto nei confronti del credito verso il fallito, ma se si contrappongono due procedure concorsuali la deroga riguarderebbe entrambi i creditori. (Tribunale di Monza, 1 giugno 1998, in Dir. fall. 1998, II, 940, con nota di Lapenna).

I crediti non scaduti

Il secondo comma dell'articolo in commento dispone che la compensazione non opera se il creditore ha acquistato il credito per atto tra vivi dopo la dichiarazione di fallimento o nell'anno anteriore.

A tale proposito la Corte Costituzionale, nel dichiarare infondata una questione di legittimità costituzionale dell'art. 56 l.fall. nella parte in cui non prevede che la compensazione sia esclusa anche quando l'acquisto infrannuale di un credito verso il fallito riguardi crediti scaduti, ha affermato che «non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 56, comma secondo, l.fall. impugnato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non esclude che possano essere compensati con i debiti verso il fallito anche i crediti scaduti vantati nei suoi confronti che siano stati acquistati per atto fra vivi nell'anno anteriore al fallimento. Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore — col solo limite della manifesta illogicità o arbitrarietà — la scelta degli strumenti normativi idonei ad evitare una artificiosa compensazione operata in danno della massa fallimentare attraverso l'acquisto, nel cosiddetto periodo sospetto, di crediti verso il fallito. Il suddetto limite non appare, nella specie, travalicato in quanto la distinzione operata, con riguardo ai crediti acquistati per atto tra vivi nel medesimo periodo di tempo, tra crediti non scaduti (espressamente esclusi dalla compensazione) e crediti scaduti, ancorché censurabile sul piano dell'opportunità e dell'efficacia pratica (rispetto al raggiungimento dell'obiettivo di preservare in modo completo la par condicio creditorum dalle manovre fraudolente sempre possibili in tutti i casi di reciprocità di posizioni attive e passive derivanti dall'acquisto di crediti verso il fallito), non dà luogo ad una incongruenza dal punto di vista logico-giuridico, visto che la suddetta differenza di trattamento trova, da tale punto di vista, plausibile spiegazione nel fatto che solo con riguardo ai crediti scaduti prima del fallimento l'effetto estintivo proprio della compensazione deve intendersi realizzato anteriormente alla dichiarazione di fallimento» (Corte cost. n. 431/2000).

In dottrina la posizione espressa dalla Corte Costituzionale è stata criticata e tacciata di poco coraggio, in quanto il termine infrannuale rappresenterebbe il punto di mediazione tra l'espressione della libertà negoziale e la tutela della par condicio, sicché per le cessioni del credito, anche già scaduto alla data della dichiarazione di fallimento, avvenute nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, dovrebbe prevalere la considerazione dell'incidenza negativa sulla par condicio (cfr. Fabiani, 3387, in nota alla richiamata sentenza della Corte delle leggi).

De iure condendo, potrebbe ipotizzarsi una regola che, sulla falsariga di quanto previsto in materia di revocatoria, consenta l'operatività della compensazione con riferimento a crediti acquistati entro l'anno antecedente alla dichiarazione di fallimento, sia che siano scaduti alla data della dichiarazione di fallimento, sia che non lo siano, solo nel caso in cui il cessionario dimostri che al momento dell'atto non era a conoscenza dello stato di insolvenza del debitore ceduto.

Senonché, la norma attuale prevede una presunzione legale assoluta di inoperatività della compensazione nel caso in cui l'acquisto abbia ad oggetto crediti non scaduti alla data della dichiarazione di fallimento, ed è ragionevole che l'assenza della possibilità di addurre una prova contraria da parte del cessionario faccia sì che l'inserimento nella stessa fattispecie anche dei crediti già scaduti alla data della dichiarazione di fallimento possa passare solo per una più generale rivisitazione della norma che apra anche alla possibilità di prove contrarie da parte del cessionario che voglia opporre la compensazione al fallimento.

Il rapporto tra il secondo comma dell'art. 56 l.fall. e i crediti di regresso del fideiussore e del terzo adempiente

L'inoperatività della compensazione, secondo l'opinione maggioritaria, è riferibile non solo all'atto negoziale di cessione del credito, ma anche agli altri casi in cui, per atto tra vivi, sia avvenuto il trasferimento del credito, come nell'ipotesi del regresso del fideiussore contro il debitore fallito o della surrogazione per volontà del creditore di cui all'art. 1201 c.c.

Se sull'ipotesi della surrogazione si può concordare, equiparandola quoad effectum alla cessione del credito, nel caso dell'azione di regresso o di surrogazione legale del fideiussore che adempia in favore del creditore si deve distinguere.

Se al momento del pagamento del fideiussore il debito era già scaduto ed esigibile da parte del creditore, il fideiussore potrà eccepire la compensazione del suo debito verso il fallito con il credito di regresso nascente dal suo adempimento, in quanto l'esser divenuto creditore in via di regresso o di surrogazione legale è dipeso da fatti non rientranti nella sfera di disponibilità del fideiussore, come, nell'esempio fatto, l'avvenuta scadenza del termine dell'obbligazione principale.

Se, invece, al momento del pagamento del fideiussore, l'obbligazione principale non era ancora scaduta e sarebbe scaduta dopo la dichiarazione di fallimento, ricorre l'eadem ratio che consente l'estensione dell'inoperatività della compensazione con il pregresso debito del fideiussore nei confronti del fallito, se il pagamento in favore del creditore è avvenuto nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Con riferimento, poi, al pagamento operato dal fideiussore in data posteriore alla dichiarazione di fallimento del debitore principale, non sussistono le ragioni per non estendere la regola della compensabilità del credito di regresso con il debito pregresso del fideiussore nei confronti del debitore fallito: se il fallimento determina la scadenza, seppure agli effetti del concorso, dell'obbligazione alla data della dichiarazione di fallimento, il creditore può legittimamente richiedere il pagamento al fideiussore e il fideiussore può legittimamente pagare nelle mani del creditore; la scadenza e l'esigibilità dell'obbligazione principale e di quella di garanzia non saranno dipese dal fideiussore, sicché anche se quest'ultimo soddisfi il creditore in data posteriore rispetto alla dichiarazione di fallimento, il fideiussore potrà comunque compensare il suo credito di regresso con il debito pregresso nei confronti del fallito.

In giurisprudenza, le posizioni sulla equiparabilità della cessione del credito verso il fallito con il diritto di regresso o di surroga del fideiussore o del terzo adempiente sono più variegate.

Appare dunque non condivisibilmente limitativa la posizione di Tribunale di Torino, 11 aprile 1997 (in Fall., 1998, 78), secondo la quale «il debitore del fallito, che abbia pagato un creditore di quest'ultimo, non può opporre in compensazione al fallimento il credito acquisito in via di surroga dopo la dichiarazione di fallimento».

Anche la Suprema Corte ha statuito che «il fideiussore che abbia pagato il debito del fallito può compensare il credito di rivalsa con il debito che egli abbia nei confronti del fallito stesso, senza che trovi applicazione il secondo comma dell'art. 56 l.fall. in quanto il credito condizionale di rivalsa conseguente all'escussione del fideiussore sorge a titolo originario con il perfezionamento del negozio fideiussorio e non viene acquistato a titolo derivativo per atto tra vivi secondo la previsione della citata disposizione. Per la compensazione occorre tuttavia che il fideiussore abbia pagato il debito del fallito in data anteriore al fallimento» (Cass. I, n. 9635/1997, in Fall., 1998, 1047, con nota di Panzani).

Si distingue in senso più permissivo il Tribunale di Reggio Emilia 30 ottobre 1995 (cfr. Dir. Fall., 1996, II, 736), in quanto fautore di una interpretazione letterale e restrittiva del secondo comma dell'art. 56 l.fall.: «la preclusione alla compensazione di cui all'art. 56, comma 2, l.fall. non opera rispetto ai crediti acquisiti «mortis causa» o per effetto di vicende traslative non fondate su atti negoziali tra vivi. Pertanto, il fideiussore che paghi il debito del fallito rimane surrogato «ex lege» nel credito soddisfatto e può compensare tale credito col debito che egli abbia verso il fallito stesso. Il debito per il versamento delle residue somme ancora dovute dal socio di una società di capitali non è compensabile col debito della società fallita nei confronti del socio» (Trib. Reggio Emilia 30 ottobre 1995, in Dir. fall., 1996, II, 736).

Non vi è dubbio, invece, che l'acquisto del credito mortis causa non costituisce alcun ostacolo alla compensazione del credito acquistato con il debito nei confronti del fallito.

Sulla reciprocità e sull'omogeneità dei crediti oggetto di compensazione

In conformità della regola generale civilistica, tra i presupposti della compensazione in sede fallimentare vi è quello della reciprocità dei crediti: sono compensabili solo i crediti vantati dal terzo nei confronti del fallito e quelli vantati dal fallito nei confronti del terzo, mentre il credito del terzo nei confronti del fallito non è compensabile con il debito al quale il terzo sia tenuto nei confronti della massa. La Suprema Corte, a tale proposito, ha statuito che a seguito della presentazione della dichiarazione finale dei redditi da parte del curatore, il credito vantato dall'Amministrazione finanziaria nei confronti di un imprenditore fallito, che con la chiusura della procedura ritorna «in bonis», non può essere opposto in compensazione con un debito della stessa Amministrazione verso la «massa dei creditori», sia perché diversi sono i soggetti delle opposte ragioni di dare ed avere, in quanto il credito opposto dall'Erario ha come soggetto passivo l'imprenditore fallito mentre quello fatto valere dal fallimento con la dichiarazione finale è un credito della massa, sia perché — compensando tali opposte ragioni di dare e avere — verrebbero pregiudicati illegittimamente i creditori concorsuali, per la violazione del principio di parità di trattamento. (Cass. V, n. 10349/2003, in Fall., 2004, p. 280, con nota di Pollio).

Così, anche nella giurisprudenza di merito, in caso di fallimento, l'istituto di credito che ha riscosso, dopo la chiusura del conto corrente, somme dovute da terzi al fallito, non può invocare la compensazione ex art. 56 l.fall., mancando il presupposto, fondamentale, della reciprocità delle obbligazioni (App. Firenze, 29 maggio 2000, in Foro tosc., 2000, 129, con nota di Masotti).

Se, dunque, quanto all'elemento della reciprocità, l'operatività della compensazione nel fallimento non subisce deroghe rispetto alla disciplina di diritto comune, la giurisprudenza ha tuttavia ammesso la compensabilità tra crediti del terzo e del fallito privi del carattere dell'omogeneità, quando in particolare il credito del terzo abbia ad oggetto una prestazione diversa dal denaro. A ben vedere, una conferma di tale orientamento si rinviene proprio nell'art. 59 l.fall., che consentendo la partecipazione del terzo al concorso in base al valore che le res hanno alla data della dichiarazione di fallimento, nel caso di crediti non ancora scaduti a quell'epoca, ammette la loro convertibilità in crediti pecuniari, con la conseguente possibilità della compensazione. Chiaramente, per i crediti già scaduti al momento della dichiarazione di fallimento, la loro conversione in crediti pecuniari avrà riguardo al loro valore al tempo della scadenza dei crediti originari: «L'art. 56 l.fall., il quale consente ai creditori di compensare con i loro debiti verso il fallito i crediti che vantano verso quest'ultimo, ancorché non scaduti, purché acquistati almeno un anno prima della dichiarazione di fallimento, è applicabile anche nell'ipotesi in cui i crediti contrapposti non siano omogenei (come nel caso in cui il credito di chi non è fallito abbia ad oggetto una prestazione di cose ed il credito del fallito abbia carattere pecuniario), poiché con la liquidazione effettuata nel corso della procedura fallimentare con riferimento alla data di dichiarazione del fallimento anche il credito di prestazione di cose diverse dal denaro diventa credito pecuniario ed è suscettibile di compensazione. Nè a tale soluzione è di ostacolo il successivo art. 59, il quale, disponendo che i crediti originariamente non pecuniari concorrono nella ripartizione dell'attivo sulla base del loro valore alla data della dichiarazione di fallimento, si riferisce all'ipotesi normale in cui il creditore di prestazione non pecuniaria non sia al tempo stesso debitore del fallimento e non esclude pertanto l'applicazione della norma generale dell'art. 56 quando il creditore sia anche debitore del fallimento» (Cass. II, n. 8322/1990).

La compensazione giudiziale nel fallimento

La disposizione dell'art. 56 l.fall., nel prescrivere i presupposti e i limiti della compensazione in sede fallimentare, non distingue tra compensazione legale e compensazione giudiziale.

Apparentemente, la lettera della norma è nel senso di derogare ai presupposti oggettivi della compensazione solo con riferimento alla esigibilità del credito del terzo.

Senonché la giurisprudenza ha aperto alla possibilità di dichiarare la compensazione anche se uno dei crediti contrapposti non sia liquido, ma di pronta e facile liquidazione, alla stregua del secondo comma dell'art. 1243 c.c.

La Suprema Corte ha infatti ormai già da tempo chiarito che «la disposizione dell'art. 56, primo comma, legge fall. — secondo cui i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso — si applica anche alla compensazione giudiziale, ancorché la pronuncia giudiziale che attribuisce ad uno dei due crediti carattere di liquidità sia intervenuta dopo l'apertura della procedura concorsuale, quando il fatto genetico del credito sia anteriore alla dichiarazione di fallimento» (Cass. I, n. 8132/1996, in Foro it., 1997, I, 165, con nota di Fabiani).

Ha spiegato la Corte di legittimità che «la ratio della norma che ammette la compensazione in sede di fallimento, è ravvisata comunemente sia in dottrina che in giurisprudenza, in conformità alla relazione illustrativa della legge, in esigenze equitative. Sarebbe, infatti, contrario a criteri di giustizia sostanziale la rigorosa applicazione delle regole del concorso nei confronti di un soggetto che, essendo titolare, contestualmente, di situazioni giuridiche attive e passive verso il fallito, debba subire, in base alla disciplina del concorso, la falcidia fallimentare per le prima e soddisfare, invece, integralmente le seconde.

Questa stessa esigenza ricorre anche nella ipotesi in cui sussistano i requisiti per la compensazione giudiziale. Non vi osta il rilievo che, in questa ultima ipotesi, la pronuncia giudiziale che attribuisca ad uno dei due crediti carattere di liquidità interverrebbe dopo l'apertura della procedura concorsuale.

Infatti, anche in tal caso il diritto di avvalersi della compensazione trova la sua ragion d'essere nella dichiarazione di fallimento della controparte, e l'art. 56 non pone alcun limite alla compensabilità dei debiti verso il fallito creditore, diverso da quello della anteriorità al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica (cfr. Cass. n. 3006/1991). Come è stato sottolineato in dottrina, importa, invero, stabilire che le condizioni per la compensazione si siano determinate compiutamente prima dell'apertura della procedura concorsuale, mentre è possibile, come emerge chiaramente dallo stesso testuale tenore dell'art. 56, che l'effetto estintivo si verifichi in un momento successivo. Il riferimento all'art. 2917 c.c.. (che esclude nei confronti del creditore pignorante l'estinzione del credito per cause verificatesi in epoca successiva al pignoramento) non vale a sostenere la tesi contraria, in quanto l'estraneità della compensazione al concorso fallimentare è stata già affermata dalla giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. 20 marzo 1991, cit), che ha escluso un'interpretazione dell'art. 56 in coerenza con la disciplina dettata per il processo esecutivo concorsuale, ed ha, conseguentemente, ritenuto inapplicabile anche il criterio generale stabilito dall'art. 2917 c.c. per il procedimento esecutivo singolare.

In altri termini, la Suprema Corte ha ammesso la compensazione giudiziale tra il credito del terzo ed il debito non liquido del terzo verso il fallito per ragioni equitative, nel senso che la ratio dell'art. 56 l.fall., che risiede nell'evitare al creditore del fallito di dover sottostare alla falcidia fallimentare e di pagare interamente il suo debito, giustificherebbe anche l'ammissibilità della compensazione giudiziale.

In dottrina si è discusso della compatibilità dell'ammissibilità della compensazione giudiziale in sede fallimentare con il disposto dell'art. 2917 c.c.

Alcuni autori, partendo dall'opinione che la pronuncia del giudice che dichiara la compensazione ex art. 1243 secondo comma c.c. abbia natura costitutiva, ed equiparata la dichiarazione di fallimento al pignoramento, hanno sostenuto l'inammissibilità della compensazione giudiziale nel fallimento in quanto dopo la sentenza dichiarativa dello stesso non avrebbero efficacia in pregiudizio dei creditori concorrenti cause estintive di situazioni giuridiche attive del fallito (cfr. Bozza-Schiavon, 394; Vigo, 1994); altri autori hanno invece ritenuto l'inapplicabilità dell'art. 2917 c.c. nel caso in cui la radice causale dei crediti contrapposti sia anteriore alla dichiarazione di fallimento (Lo Cascio, 197; Foschini. 228; Bonsignori, 379).

Tuttavia, l'opinione più liberale, favorevole all'ammissibilità della compensazione giudiziale nel fallimento e fatta propria dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 8132/1996, non solo appare più equa, ma è anche conforme ad una interpretazione dell'art. 2917 c.c. incline ad ammettere l'opposizione in compensazione, da parte del debitor debitoris, di un controcredito verso il debitore esecutato non già liquido, ma i cui fatti costitutivi si siano tutti verificati prima del pignoramento.

Deve rilevarsi, inoltre, che gli effetti della compensazione legale non differiscono da quelli della compensazione giudiziale: su questo è chiaro il primo comma dell'art. 1242 c.c., secondo il quale la compensazione estingue i due debiti dal giorno della loro coesistenza.

Ne deriva che, qualsiasi natura voglia attribuirsi alla dichiarazione da parte del giudice della compensazione ex art. 1243, secondo comma, c.c., il suo effetto non può essere che quello di estinguere i due debiti dal giorno della loro coesistenza.

Dunque, per aversi compensazione legale o giudiziale in sede fallimentare è necessario e sufficiente che la coesistenza dei debiti, intesa come esistenza l'avvenuto perfezionamento di tutti i loro fatti costitutivi, sia iniziata in data anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Compensazione e consecuzione di procedure

Con riferimento alla consecuzione tra la vecchia amministrazione controllata, abrogata con le riforme del 2005/2007, ed il fallimento, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che «La disposizione dell'art. 56, comma primo, della legge fall., secondo la quale i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento, si applica anche nel caso in cui la dichiarazione di fallimento segua senza soluzione di continuità alla cessazione della procedura di amministrazione controllata, alla quale l'imprenditore sia stato precedentemente ammesso, sempre che le contrapposte posizioni di debito — credito, compensabili per effetto della predetta norma, siano sorte e coesistano anteriormente all'inizio dell'amministrazione controllata» (Cass. I, n. 123/1997).

Non può, tuttavia, non sottolinearsi che nessuna norma della vecchia amministrazione controllata (dagli artt. 187 al 193, abrogati, della l.fall.) estende a tale procedura il disposto dell'art. 56 l.fall., alla stregua dell'art. 169 l.fall. (cfr. Trib. Pisa 27 settembre 1993, in Foro pad., 1994, I, p. 227).

Per quanto, poi, riguarda la consecuzione tra il concordato preventivo e il fallimento, la Suprema Corte ha stabilito che «nel caso in cui alla domanda di concordato preventivo non segua l'ammissione alla detta procedura bensì la dichiarazione di fallimento ex art. 162, secondo comma, legge fall., i crediti verso il fallimento anteriori a tale domanda sono compensabili con i debiti verso lo stesso sorti posteriormente, ma prima della dichiarazione di fallimento, atteso che, in mancanza di una consecuzione di procedura, devesi fare riferimento, a norma dell'art. 56 legge fall., alla dichiarazione di fallimento e non invece alla data di deposito della domanda di concordato preventivo, senza che gli effetti dell'art. 169 legge fall. (in relazione al precedente art. 56), possono estendersi al fallimento non essendovi stata ammissione dell'imprenditore al concordato preventivo» (Cass. I, n. 7046/1991).

In realtà, pare che il riferimento, contenuto nella massima ora riportata, alla non ammissione al concordato preventivo come motivo dirimente per far sì che il credito esistente da data anteriore al deposito della domanda di concordato possa essere compensato con il debito verso il fallito, non sia pertinente.

Infatti, anche se l'imprenditore fosse ammesso al concordato e dopo fosse dichiarato fallito, non vi è ragione per cui non potrebbe compensare i crediti verso il fallito nei limiti dell'art. 56 l.fall. con i suoi debiti nati verso il medesimo: l'unico fatto rilevante all'uopo è che il debito verso il fallito sia sorto in data antecedente alla dichiarazione di fallimento.

Casi giurisprudenziali ricorrenti

La Suprema Corte si è pronunciata sui profili più problematici della compensazione in sede fallimentare, attinenti precisamente alla sussistenza dei presupposti per l'operare dell'art. 56 l.fall.

Quanto alla necessaria reciprocità delle contrapposte partite di credito, si è stabilito che in materia fallimentare, il credito verso il fallito non può essere compensato con il debito di restituzione a seguito di esperimento di azione revocatoria, atteso che quest'ultimo è un debito verso la massa e non verso il fallito e, pertanto, manca, perché possa operare la compensazione, il requisito della reciprocità delle obbligazioni, non correndo i rapporti di debito e credito fra i medesimi soggetti (Cass. n. 11030/2002).

Ancora, in tema di compensabilità dei crediti verso il fallito di un istituto di credito con il debito restitutorio di quest'ultimo aventi ad oggetto le somme incassate da terzi in esecuzione di un mandato all'incasso, i Giudici di legittimità hanno stabilito che l'art. 56 l.fall. prevede, quale unico limite imprescindibile per la compensabilità dei debiti verso il fallito — creditore, l'anteriorità al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte, e la compensazione fallimentare è, pertanto, applicabile non solo quando il credito del terzo non è ancora scaduto alla data della dichiarazione di fallimento, ma anche quando tale scadenza riguardi il credito del fallito. Ne consegue che, ai fini della decisione sulla compensazione riguardante il debito di un creditore del fallito verso quest'ultimo, derivante dall'esecuzione di mandato irrevocabile all'incasso di un credito del fallito verso terzi, è rilevante il momento dell'incasso in esecuzione del mandato, che costituisce il momento in cui sorge l'obbligazione del mandatario di restituire al mandante quanto riscosso (Cass. n. 8042/2003).

Ancora, con riferimento al debito verso il fallito di una società, avente ad oggetto la liquidazione delle quote sociali in seguito allo scioglimento del rapporto sociale determinato dal fallimento, e alla sua compensazione con il credito della società verso il fallito sorto in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, la Suprema Corte ha ribadito che in tema di società, la costituzione del rapporto societario e l'originario conferimento, pur rappresentando il presupposto giuridico del diritto del socio alla quota di liquidazione, non rilevano come fatto direttamente genetico di un contestuale credito restitutorio del conferente, configurandosi la posizione di quest'ultimo come mera aspettativa o diritto in attesa di espansione, destinato a divenire attuale soltanto nel momento in cui si addivenga alla liquidazione (del patrimonio della società o della singola quota del socio, al verificarsi dei presupposti dello scioglimento del rapporto societario soltanto nei suoi confronti), ed alla condizione che a tale momento dal bilancio (finale o di esercizio) risulti una consistenza attiva sufficiente a giustificare l'attribuzione «pro quota» al socio stesso di valori proporzionali alla sua partecipazione. Pertanto, il credito relativo alla quota di liquidazione vantato dal socio di una cooperativa escluso dalla società per effetto della dichiarazione di fallimento (ovvero, ai sensi dell'art. 2533 n. 5 c.c., nel testo introdotto dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, a seguito della delibera di esclusione che è in facoltà della società adottare in caso di fallimento del socio) nasce o comunque diviene certo esclusivamente nel momento in cui interviene quella dichiarazione (o quella delibera), con la conseguenza che, non potendosi considerare detto credito anteriore al fallimento, viene a mancare il presupposto necessario, ai sensi dell'art. 56 della legge fallimentare, per la compensabilità dello stesso con i contrapposti crediti vantati dalla società nei confronti del socio (Cass. S.U., n. 22659/2006).

Con riferimento, poi, alle ragioni della banca verso il fallito nascenti da un accredito di somme sul conto corrente di terzi, eseguito dopo un bonifico disposto dal fallito, la Suprema Corte ha stabilito che nei casi di versamento mediante bonifico o bancogiro, il quale consiste nell'accreditamento di una somma di denaro da parte di una banca a favore del correntista beneficiario e nel contemporaneo addebitamento della stessa somma sul conto del soggetto che ne ha fatto richiesta, al fine di verificare l'anteriorità o la posteriorità dell'operazione bancaria rispetto alla dichiarazione di fallimento del beneficiario stesso, è rilevante la cosiddetta «data contabile» e cioè quella in cui è avvenuta l'annotazione dell'accredito sul conto. L'accreditamento successivo alla dichiarazione di fallimento deve ritenersi inefficace nei confronti dei creditori in applicazione dell'art. 44 legge fall., con la conseguente impossibilità per la banca di operare alcun conguaglio con sue eventuali precedenti ragioni. Nè può invocarsi da parte della banca la compensazione, in quanto, ai fini dell'applicabilità dell'art. 56 l.fall., dovendo necessariamente risalire i fatti costitutivi dei reciproci crediti alla fase precedente all'apertura del fallimento, ogni evento successivo è improduttivo di effetti rispetto alla massa per la tutela della «par condicio». D'altra parte, a seguito del fallimento, risultando ormai sciolto il conto corrente in virtù dell'art. 78 l.fall., l'impossibilità di eseguire l'obbligo di accreditamento determina la mancata coesistenza dei due debiti e preclude, per ciò solo, il ricorso all'art. 56 l.fall. (Cass. I, n. 3519/2000).

Con riferimento al contratto di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, In relazione ad un'operazione di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto corrente, effettuata prima dell'ammissione del correntista alla procedura di amministrazione controllata, qualora il fallimento del correntista agisca per la restituzione dell'importo delle ricevute incassate dalla banca, occorre accertare se la convenzione relativa all'operazione di anticipazione su ricevute bancarie regolata in conto preveda o meno una clausola che attribuisca alla banca il diritto di «incamerare» le somme riscosse, ossia il cosiddetto patto di compensazione o, secondo altra definizione, il patto di annotazione ed elisione nel conto di partite di segno opposto, in quanto solo in tale ipotesi la banca ha diritto a «compensare» il suo debito per il versamento al cliente delle somme riscosse con il proprio credito verso la stesso cliente conseguenti ad operazioni regolate nel medesimo conto corrente, a nulla rilevando che il suo credito sia anteriore all'ammissione alla procedura di amministrazione controllata (Cass. I, n. 7194/1997).

In senso diverso, svalutando la rilevanza del c.d. patto di compensazione, e ponendo piuttosto l'attenzione sulla natura del contratto tra banca e correntista, e precisamente se i crediti verso terzi sono oggetto di cessione anteriore alla dichiarazione di fallimento del correntista cedente o se sono oggetto di un mandato all'incasso, i Giudici di legittimità hanno stabilito che la procedura di concordato preventivo inizia con l'emissione del decreto del Tribunale, che la dichiara aperta e nomina il giudice delegato ed il commissario giudiziale (art. 163 l.fall.), non già con il deposito del ricorso per l'ammissione all'indicata procedura, il quale è rilevante per i soli effetti previsti dagli artt. 168 e 169 l.fall., tra cui il divieto di compensazione, vigente, pertanto, per i creditori fin dalla presentazione della domanda di concordato (art. 56 l.fall.). Ne deriva che, in relazione ad operazione di «anticipazione su ricevute bancarie» regolata in conto corrente, qualora il fallimento del correntista agisca in giudizio per chiedere la restituzione dell'importo delle ricevute, incassate dalla banca presso i terzi debitori dopo il deposito dell'istanza di concordato preventivo del correntista medesimo, il giudice del merito deve accertare se la banca risulti incaricata della riscossione dei crediti indicati nelle ricevute in forza di un accordo comportante la cessione dei crediti stessi o, comunque, il diritto della banca d'incamerare le somme riscosse, ovvero sulla base di un mandato a riscuotere (con successivo obbligo di rimettere al cliente quanto riscosso, a norma dell'art. 1713 c.c.) in quanto solo in quest'ultima ipotesi la banca non avrebbe diritto a compensare il suo debito (di versamento al cliente delle somme riscosse) con i crediti da essa vantati verso lo stesso, ancorché sorti prima della presentazione della domanda di concordato operando il divieto di compensazione di cui al richiamato art. 56 l.fall. (Cass. I, n. 6870/1994).

Si è ammessa la compensazione in tema di rapporti tra il factor e il cedente, dal momento che l'art. 56 della legge fallimentare prevede, quale unica condizione alla compensabilità dei debiti verso il fallito — creditore, l'anteriorità rispetto al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte, con la conseguenza, in tema di factoring, che, se è vero che è la riscossione dei crediti a rendere esigibile il prezzo della cessione, per la frazione non anticipata, ciò non significa che il credito del cedente sorga con quell'evento, ma, semmai, che è proprio esso a renderne possibile l'esazione, ferma restando l'anteriorità del momento genetico e, conseguentemente, la suscettibilità di essere portato in compensazione con i controcrediti del factor (Cass. I, n. 10861/2003).

In tema di rimesse su conto corrente, la Suprema Corte ha avuto modo di stabilire che in tema di revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente bancario, ove il titolo giuridico della rimessa (il quale è determinante per la individuazione degli effetti e della disciplina applicabile, non avendo l'inclusione nel conto carattere novativo) sia rappresentato dal realizzo di un pegno irregolare, costituito a garanzia dell'obbligazione restitutoria derivante da un finanziamento concesso dalla banca, non si configura un'ipotesi di pagamento (come tale revocabile ai sensi dell'art. 67, secondo comma, l.fall.), bensì un'ipotesi di compensazione (consentita ai sensi dell'art. 56 l.fall.), perché nel pegno irregolare il creditore garantito acquista non la mera disponibilità, bensì la proprietà delle cose fungibili che ne sono oggetto ed assume l'obbligo di restituire, alla scadenza dell'obbligazione principale, una somma equivalente al valore delle cose costituite in pegno, se il debitore adempie l'obbligazione principale, ovvero una somma pari all'eventuale eccedenza del loro valore rispetto a quello della prestazione dovuta, se tale obbligazione rimane inadempiuta; sicché l'inadempimento del debitore determina la coesistenza di debiti reciproci tra il debitore stesso e il creditore garantito, che vengono ad estinguersi «per le quantità corrispondenti» (art. 1241 c.c.) secondo i principi, appunto, della compensazione, la cui applicazione non può trovare ostacolo nella circostanza che le due obbligazioni reciproche siano riconducibili ad un medesimo titolo o a titoli collegati, poiché esse non si pongono in una relazione di corrispettività (Cass. I, n. 21237/2004).

Con riferimento al debito del socio di conferimenti in denaro in seguito a sottoscrizione di azioni in seguito a delibera di aumento di capitale, la Corte di Cassazione ha stabilito che in tema di società di capitali, l'obbligo del socio di conferire in danaro il valore delle azioni sottoscritte in occasione di un aumento del capitale sociale è un debito pecuniario che può essere estinto per compensazione con un credito pecuniario vantato dal medesimo socio nei confronti della società, anche ai sensi dell'art. 56 l.fall., quando di essa sia sopraggiunto il fallimento, con la conseguenza che, in quest'ultimo caso, il giudice delegato non può ingiungere al socio il versamento del capitale sociale ai sensi dell'art. 150 legge fall., in quanto tale modalità di esazione presuppone l'esistenza del credito vantato dalla società, che risulta invece estinto per compensazione (Cass., I, n. 6711/2009; cfr. Inzitari, 530).

Nell'ottica della Corte, la compensazione tra il debito di versamento in liberazione di azioni sottoscritte dal socio e il credito di quest'ultimo genera in ogni caso un valore positivo nel patrimonio netto della società, nella specie di una diminuzione del passivo.

Compensazione in sede fallimentare e processo

La compensazione in sede fallimentare può essere fatta valere sia dal creditore del fallito in occasione della domanda di ammissione allo stato passivo, con la richiesta di ammissione del credito al netto di quanto dovuto dal fallito; sia dal creditore del fallito quando egli sia stato convenuto in un giudizio ordinario dal curatore per la condanna al pagamento di un controcredito del fallito.

Orbene, quando il curatore conviene in un giudizio di condanna un soggetto che spiega domanda riconvenzionale deducendo in giudizio un controcredito nei confronti del fallito di cui chiede il pagamento alla curatela, la Suprema Corte ha stabilito che «in tema di compensazione, nel caso in cui alla domanda della curatela di un fallimento per la riscossione di un credito sia contrapposta domanda riconvenzionale riguardante un controcredito, il giudice di merito, accertati gli stessi, è tenuto a dichiarare la compensazione, ove richiesta, dei reciproci debiti e sino alla loro concorrenza. Tale conclusione deriva dall'applicazione dell'art. 56 l.fall., la cui «ratio» è di evitare che il debitore del fallimento, che bene abbia corrisposto il credito di questo, sia poi esposto al rischio di realizzare a sua volta un proprio credito in moneta fallimentare, dal rispetto della regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), dal fatto che la compensazione si configura come conseguenza della pronuncia sulla domanda riconvenzionale. Per contro, non potrà pronunziarsi sentenza di condanna del fallimento al pagamento del debito nella misura corrispondente all'eventuale eccedenza del credito verso il fallito, perché questa deve essere oggetto di autonomo procedimento di insinuazione al passivo del fallimento (Cass. III, n. 481/2009).

La compensazione non è impedita dall'avere il terzo chiesto ed ottenuto l'ammissione al passivo di un suo credito, prima di essere a sua volta convenuto in giudizio dal curatore per il pagamento di un debito verso il fallito.

Il titolare di un credito ammesso in via definitiva al passivo fallimentare — o (come nella specie) nello stato passivo di società posta in liquidazione coatta amministrativa —, se convenuto in giudizio dal curatore — o dal commissario liquidatore — per il pagamento di un credito dovuto all'imprenditore insolvente, può opporre in compensazione, fino a concorrenza, il proprio credito, senza che gli si possa eccepire la rinuncia tacita alla compensazione, quale automatica conseguenza della domanda di ammissione al passivo, o l'efficacia preclusiva del provvedimento di ammissione al passivo in via definitiva (Cass. I, n. 535/1999).

L'eccezione di compensazione di un credito verso il fallito nel corso di un giudizio di condanna che veda come attore il curatore fallimentare, dunque, prescinde dall'accertamento in sede concorsuale del credito del terzo, in quanto questi non chiede l'ammissione al passivo, ma si limita a difendersi dalla pretesa avversa della curatela fallimentare.

Di converso, quando dai crediti reciproci che si estinguono per compensazione residui un saldo a credito del terzo, egli ha comunque l'onere di chiederne l'ammissione al passivo se vuole partecipare cl concorso fallimentare.

Nel giudizio proposto dalla curatela fallimentare per la condanna al pagamento di un debito di un terzo nei confronti del fallito, l'eccepibilità in compensazione di un credito dello stesso terzo verso il fallito non è condizionata alla preventiva verificazione di tale credito, finché si rimanga nell'ambito dell'eccezione riconvenzionale. Per contro, un'eventuale eccedenza del credito del terzo verso il fallito non può essere oggetto di sentenza di condanna nei confronti del fallimento, ma deve essere oggetto di autonomo procedimento di insinuazione al passivo (Cass. I, n. 8053/1996)

La cognizione del Giudice delegato, avente ad oggetto il credito insinuato al passivo ed estinto parzialmente per compensazione con il controcredito del fallito, investe anche la validità e l'efficacia del credito del terzo; ed una volta che quel credito sia stato ammesso al passivo per il saldo derivante dall'operata compensazione, il fallimento non potrà più metterlo in discussione con successive azioni: l'ammissione al passivo del saldo a credito avrà determinato una preclusione processuale che farà sì che la validità e l'efficacia del titolo non potranno più essere messe in dubbio nel corso della procedura fallimentare Quando il creditore deduce la compensazione ed insinua al passivo il suo residuo credito, l'indagine del giudice delegato investe, non solo il titolo dal quale deriva il credito compensato, ma anche la sua efficacia e validità. Pertanto, dall'accertamento della compensazione, implicito nel provvedimento del giudice delegato che, senza altro aggiungere, ammette il creditore al passivo per l'importo del credito residuo, discende una preclusione endofallimentare che, atteso il carattere unitario della procedura e la strumentalità alla liquidazione delle azioni di massa, opera anche nei giudizi promossi dal fallimento per impugnare l'esistenza, la validità o l'efficacia del titolo dal quale deriva il credito opposto in compensazione (Cass. I, n. 12548/2004).

Il nuovo "Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza"

L'art. 155 del d.lgs. n. 14/2019 (in vigore dal 15 agosto 2020), nel primo comma, rappresenta la trasposizione del contenuto dell'articolo in commento.

Due novità di rilievo si condensano nel secondo comma: innanzitutto, il divieto di compensazione dei crediti acquistati per atto tra vivi viene esplicitamente esteso anche ai crediti già scaduti; in secondo luogo, viene rimodulato il tempo dell'acquisto del credito ai fini dell'operatività del divieto di compensazione: non viene più in rilievo l'apertura della procedura concorsuale, ma il ricorso cui sia seguita l'apertura della liquidazione giudiziale. Pertanto non possono essere oggetto di compensazione i crediti, anche già scaduti, acquistati per atto tra vivi dopo il deposito del ricorso cui sia seguita la liquidazione giudiziale, e nell'anno anteriore al deposito di tale ricorso.

Bibliografia

Bonsignori, Il fallimento, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell'economia, Padova, 1986; Bozza-Schiavon, L'accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Milano, 1992; Daniele, Legge applicabile e diritto uniforme nel regolamento comunitario relativo alle procedure di insolvenza, in Riv. dir. int. priv. e proc. 2002; Foschini, La compensazione nel fallimento, Napoli, 1965; Inzitari, Presupposti civilistici e fallimentaristici per il riconoscimento al creditore fallimentare della facoltà di compensare, in Banca borsa tit. cred. 1992; Inzitari, Effetti del fallimento, in Comm. S.B., Bologna-Roma, 1988; Lamanna, sub art. 56, in Commentario della legge fallimentare, a cura di Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2007; Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 2007; Vigo, Compensazione del credito pignorato, Milano, 1994.

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