Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 51 - Divieto di azioni esecutive e cautelari individuali 1 .Divieto di azioni esecutive e cautelari individuali 1.
Salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento. [1] Articolo sostituito dall'articolo 48 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. InquadramentoQuesto articolo è strettamente connesso all'art. 52, in quanto ne rappresenta il corollario applicativo: l'attuazione del concorso formale e sostanziale esige che i creditori del fallito non possano, a far data dalla dichiarazione di fallimento, iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sui beni compresi nel fallimento, anche se i crediti sono maturati durante il fallimento. La riforma recata con il d.lgs. n. 5/2006 ha inciso sull'articolo in commento inserendo tra i crediti soggetti al divieto di azioni esecutive e cautelari quelli maturati durante il fallimento. Secondo la relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 5/2006, in questo modo si sarebbe voluto inserire «un espresso riferimento ai crediti in prededuzione ovvero quelli maturati durante il fallimento in relazione al divieto di azioni esecutive individuali o cautelari nel corso della procedura fallimentare». In sostanza, con l'inciso introdotto in seguito alla riforma, il legislatore avrebbe inteso riferirsi al divieto di azioni esecutive e cautelari anche per i crediti prededucibili, ma deve osservarsi che l'espressione usata (crediti maturati durante il fallimento), da un lato non sarebbe in grado di ricomprendere tutta la gamma dei crediti prededucibili; dall'altro esprime una regola applicabile anche a crediti che non sono prededucibili (per appunti sul carattere fuorviante dell'inciso, cfr. Lamanna, 993). Infatti, esiste una serie di crediti che possono sorgere in costanza di concordato preventivo, ai quali la legge attribuisce la natura di prededucibili nel corso del successivo eventuale fallimento (art. 182-quater e quinquies l.fall), pur non essendo questi ultimi maturati durante il fallimento. Di converso, non perdendo il debitore, in seguito alla dichiarazione di fallimento, la generale capacità giuridica e di agire, e dunque anche quella di obbligarsi dopo la dichiarazione di fallimento, il nuovo inciso dell'art. 51 l.fall. serve ad escludere esplicitamente che i creditori non concorsuali, cioè postfallimentari, possano soddisfarsi in via esecutiva individuale sui beni rientranti nel fallimento. Che sia anzi quest'ultimo il senso da dare all'inciso, al di là dell'intenzione del legislatore della riforma, è confermato dal fatto che già dagli artt. 52 e 111-bis si giunge alla conclusione che i creditori prededucibili non possono soddisfarsi esecutivamente sui beni rientranti nel fallimento. A livello dogmatico, è stato detto che il divieto dell'art. 51 l.fall. si risolve non in una perdita, bensì in una trasformazione dell'azione di espropriazione da azione esecutiva individuale ordinaria in azione esecutiva concorsuale fallimentare, che si esercita esclusivamente a norma dell'art. 52 l.fall., attraverso la domanda di ammissione al passivo ed il conseguente concorso del creditore alle ripartizioni dell'attivo fallimentare (Garbagnati, 374). Tuttavia, tale costruzione appare artificiosa: il fallimento sembra piuttosto un microordinamento nel quale esistono più subprocedimenti connessi ma caratterizzati da specifiche funzioni: la verifica del passivo è un subprocedimento con caratteri di cognizione sommaria volta alla selezione dei creditori concorrenti; la liquidazione dell'attivo è un subprocedimento volto alla monetizzazione del patrimonio del debitore in vista della soddisfazione dei creditori ammessi al passivo; i riparti sono a loro volta dei subprocedimenti volti a garantire la soddisfazione dei creditori ammessi secondo le regole del concorso sostanziale (art. 52 l.fall.). In tale preferibile ottica, dunque, l'azione esecutiva, così come quella cautelare, diviene semplicemente improcedibile. Dall'ultima parte della disposizione in commento, inoltre, si evince che l'effetto di improcedibilità delle azioni esecutive e cautelari non si verifica con riferimento ai beni che sono esclusi dal fallimento, nei limiti in cui essi siano pignorabili. II contenuto del nuovo art. 150 d.lgs. n. 14/2019 - Codice della crisi d'impresa e dell’insolvenza riproduce sostanzialmente il contenuto dell'articolo in commento. Incidenza dell'art. 51 l.fall. sui vari tipi di azione esecutivaOccorre interrogarsi sulla sorte che la dichiarazione di fallimento del debitore determina sull'azione esecutiva di obblighi di consegna e di rilascio, oltre che di quelli di fare e di non fare. Con riferimento all'esecuzione per consegna o rilascio, ad essa si applica la stessa regola, di improcedibilità, che si applica ai crediti pecuniari. L'assoggettamento dei creditori che hanno diritto alla consegna di un bene mobile o al rilascio di un bene immobile rientrante nella massa, infatti, al procedimento di verifica del passivo al fine di vedere soddisfatto il loro diritto, ai sensi dell'art. 93 l.fall., esclude che essi possano esercitare l'azione esecutiva individuale per ottenere il rilascio o la consegna del bene sul quale vantano il diritto reale o personale alla restituzione. (Andrioli, 281; Bonsignori, 355; in senso contrario, prima della riforma, Satta, 180; Foschini, 2; F. Vassalli, 316). Più problematica, invece, è la sorte dei crediti di prestazioni di fare e di non fare e la possibilità di esercitare un'azione esecutiva in pendenza di fallimento a loro tutela. Nella giurisprudenza di merito si segnala la posizione contraria del Tribunale di Como (sentenza del 24 febbraio 2005, in Fall. 2005, p. 1167 con nota di Conte, in Giur. it. 2006, I, 83), secondo il quale è inammissibile, perché in contrasto col divieto di azioni esecutive individuali ex art. 51 l.fall., la domanda con cui si richiede nei confronti di una procedura fallimentare l'esecuzione di obblighi specifici di fare (nella fattispecie, la distruzione di un manufatto), in forza di sentenza di condanna passata in giudicato prima della dichiarazione di fallimento, ovvero l'ammissione al passivo delle spese che l'istante affronterà per provvedere in proprio all'esecuzione. Pur nella condivisione dell'approdo interpretativo secondo il quale l'azione esecutiva degli obblighi di fare e di non fare ricadono nel generale divieto di cui all'art. 51 l.fall., si può comunque sostenere che il creditore possa chiedere di essere ammesso al passivo per il controvalore della prestazione che il debitore fallito avrebbe dovuto eseguire in favore del creditore (distruzione dell'opus illecitamente realizzato e realizzazione dell'opera non eseguita), applicando almeno analogicamente il disposto dell'art. 59 l.fall sui crediti non pecuniari, anche se il credito non sia ancora scaduto alla data della dichiarazione di fallimento, secondo il principio generale di cui all'art. 55, secondo comma, l.fall., ed esclusa l'applicabilità del disposto dell'art. 614 c.p.c. (in tema, cfr. Satta, 180; F. Vassalli, 317, i quali non escludono in linea generale la compatibilità dell'esecuzione in parola con la procedura concorsuale, ammettendo che il curatore possa distruggere l'opera realizzata in violazione dell'obbligo di non fare e negando che da lui possa pretendersi la realizzazione dell'opera). Con riferimento, poi, all'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto, si deve rilevare che la fattispecie del contratto preliminare è espressamente contemplata tra i contratti pendenti ai sensi del terzo comma dell'art. 72 l.fall. Cass. I, ord. n. 9010/2018 ha ricordato che l’azione esperita dal promissario acquirente per ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto non diventa improcedibile a seguito della dichiarazione di fallimento del promittente venditore, essa, infatti, non ha ad oggetto il soddisfacimento diretto e immediato di un credito pecuniario e, inoltre, malgrado il tenore apparente della rubrica della disposizione e la sedes materiae, si differenzia dalle azioni esecutive individuali, onde non può configurarsi alcun profilo di inammissibilità originaria della domanda o di improcedibilità successiva della stessa. Stante il rinvio alla disposizione del comma 1 dell'art. 72 l.fall., l'esecuzione del contratto preliminare è sospesa fino a quando il curatore non eserciti la facoltà di scegliere di sciogliersi dal contratto o subentrare nello stesso. Nel caso in cui il curatore subentri, deve escludersi la possibilità per il promissario acquirente di esperire contro il curatore l'azione ex art. 2932 c.c., in quanto l'inerzia eventuale del curatore dovrà farsi rilevare nelle forme endofallimentari di cui all'art. 36 l.fall. Si deve ancora aggiungere che il divieto di azioni esecutive individuali posto dall’art. 51 l. fall. non osta alla procedibilità dell’azione revocatoria ordinaria già proposta dal creditore dell’alienante se la relativa domanda è stata trascritta anteriormente alla dichiarazione di fallimento dell’acquirente perché, altrimenti, il creditore dell’alienante resterebbe privo della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c. e l’atto fraudolento gioverebbe ai creditori dell’acquirente fallito per il sol fatto che a questi si è sostituito il curatore; anche se poi il vittorioso esperimento dell’azione, trascritta prima della data del fallimento, non abilita il creditore dell’alienante a promuovere l’esecuzione sui beni compravenduti ma lo colloca in posizione analoga a quella del titolare di un diritto di prelazione (Cass. III, n. 14892/2019). Invece il giudizio di opposizione all’esecuzione ex art. 615, comma 1, c.p.c., non può essere proseguito dalla curatela fallimentare dopo la dichiarazione di fallimento del debitore opponente perché la causa è attratta nella competenza del tribunale fallimentare dall’art. 52, comma 2, l. fall., secondo cui ogni credito deve essere accertato in base alle norme prescritte per la verifica dello stato passivo (Cass. III, n. 29327/2019). Le eccezioni al divieto di azioni esecutiveA seguito delle modifiche intervenute con il d.lgs. n. 46/1999, che ha escluso il potere dell'agente della riscossione di avviare o proseguire le azioni esecutive nei confronti del contribuente fallito, assoggettando anch'esso al concorso formale e sostanziale, l'unica eccezione al divieto di azioni esecutive è quella relativa al credito fondiario: l'art. 41, comma 2, T.U. n. 385/1993 consente l'inizio o la prosecuzione dell'esecuzione sui beni ipotecati a garanzia dei finanziamenti fondiari anche dopo la dichiarazione di fallimento. Per quanto riguarda i crediti da esigersi dal concessionario, Cass. V, n. 15834/2018 ha chiarito che, ove l’iscrizione a ruolo sia avvenuta a seguito della dichiarazione di fallimento del contribuente, ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. n. 112/1999 e il credito impositivo sia stato ammesso al passivo, non è necessaria la successiva notifica della cartella di pagamento al curatore, essendo questa prodromica all’esecuzione individuale che non può essere iniziata o proseguita sui beni del fallito. Cass. I, n. 16112/2019 ha aggiunto che può procedersi anche sulla base del solo estratto, in ragione del processo di informatizzazione dell’amministrazione finanziaria che rende indisponibile un documento cartaceo e ne impone la sostituzione con una stampa dei dati riguardanti la partita da riscuotere; le copie formate nell’osservanza delle prescritte regole tecniche hanno piena efficacia probatoria ove il curatore non contesti la loro conformità all’originale. Le spese di insinuazione al passivo sostenute dall’agente della riscossione sono costi di una funzione pubblicistica e hanno natura concorsuale; esse devono essere ammesse al passivo fallimentare in applicazione estensiva dell’art. 17 d.lgs. n. 112 /1999 (Cass. I, ord. n. 15717/2019). Ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 44 del citato testo unico, la disposizione eccezionale in materia di credito fondiario si applica anche ai finanziamenti di credito agrario e peschereccio garantiti da ipoteca sugli immobili rientranti nel fallimento. Tuttavia, sopendo vecchie discussioni, il correttivo alla riforma (d.lgs. n. 169/2007), introducendo il terzo comma dell'art. 52 l.fall., ha chiarito che l'eccezione concessa al creditore fondiario (ed assimilati) è solo un privilegio processuale: la possibilità che il creditore fondiario (o assimilato) inizi o prosegua il processo di espropriazione nonostante l'intervenuto fallimento del debitore non toglie che esso abbia l'onere di sottoporsi al concorso fallimentare attraverso il procedimento di verifica del passivo. In tal modo il creditore fondiario (o assimilato) diventa creditore concorrente nel fallimento in ragione della sua collocazione preferenziale sul valore dell'immobile ipotecato; potrà partecipare, una volta ammesso al passivo, ai riparti, come creditore chirografario, dei beni sui quali non ha la garanzia ipotecaria (art. 111 comma 1 n. 3 l.fall), oltre che virtualmente (essendosi già soddisfatto in sede di espropriazione singolare) al riparto della somma ricavata dall'espropriazione in sede individuale, con eventuale obbligo di restituzione dell'eccedenza nel caso in cui una quota delle somme incassate dalla vendita in sede esecutiva serva per pagare crediti maturati in prededuzione nell'ambito del procedimento fallimentare (cfr. Di Corrado, 363; prima della riforma, cfr. Cass. n. 23572/2004). Dall'art. 41, comma 3, d.lgs. n. 385/1993 si desume che, in costanza di fallimento del debitore, nel caso in cui prosegua o sia iniziata l'espropriazione del bene ipotecato da parte del creditore fondiario, il curatore debba essere nominato custode, peraltro in coerenza con l'effetto di spossessamento determinato dalla dichiarazione di fallimento (contra, Cass. n. 5352/1994, in Banca, borsa e titoli di credito 1995, II, 684, con nota di Tardivo, Esecuzione fondiaria individuale e insinuazione nel fallimento; in senso contrario cfr. invece Cass. n. 6254/1982; Costa, I, 569). Nel caso di espropriazione immobiliare iniziata o proseguita da un istituto di credito fondiario dopo la dichiarazione di fallimento dell’esecutato, la distribuzione delle somme ricavate dalla vendita nell’esecuzione forzata ha carattere provvisorio e può diventare definitiva soltanto in esito al riparto in sede fallimentare (Cass. III, n. 23482/2018, che ha ammesso il curatore ad agire per ottenere la restituzione degli importi percepiti in eccedenza dal creditore fondiario a titolo di anticipazione in sede esecutiva . Con riferimento al diritto di ritenzione attribuito al creditore concorsuale, lo stesso è inopponibile al fallimento. La par condicio creditorum, infatti, non giustificherebbe un trattenimento del bene presso il creditore, visto che in ogni caso il debitore fallito non potrebbe in ogni caso estinguere spontaneamente la sua obbligazione per recuperare, così, il bene oggetto della ritenzione del creditore. La dottrina, infatti, ha sottolineato che l'elemento centrale della ritenzione semplice consiste nella possibilità che viene concessa al creditore di esercitare una coazione sul proprio debitore perché questo adempia (Inzitari, 63; Barba, 1385; Guglielmucci, 186; contra F. Vassalli, 324, il quale sottolinea che «il diritto di ritenzione è sempre dotato di una efficacia in rem con la conseguenza che può essere fatto valere nei confronti di qualunque acquirente del bene, anche nei confronti del curatore del fallimento, che in definitiva subentra nella stessa posizione del fallito»). Diversa sorte normativa ha, invece, la ritenzione c.d. privilegiata: l'art. 53 l.fall., infatti, al terzo comma, con riferimento ai crediti pignoratizi o privilegiati a norma degli artt. 2756 e 2761 c.c., stabilisce che il g.d., sentito il comitato dei creditori, può autorizzare il curatore a «riprendere le cose sottoposte a pegno o a privilegio, pagando il creditore» (Ferrara Jr. Borgioli, 344 ss. e 346; in giurisprudenza, Trib. Torino 9 giugno 1995; Trib. Roma, 18 giugno 1990, in Fall., 1991, 302.). Emerge dunque che l'unico modo per il curatore di riacquistare il possesso dei beni oggetto di pegno o di privilegio ai sensi degli artt. 2756 e 2761 c.c. che si trovano presso il creditore del fallito è quello di pagare il creditore pignoratizio o privilegiato. L’apertura del procedimento fallimentare nei confronti dell’appaltatore non comporta l’improcedibilità dell’azione precedentemente esperita dai dipendenti nei confronti del committente per il recupero dei loro crediti verso l’appaltatore-datore di lavoro (Cass., n. 6333/2019).
Il divieto di azioni cautelariLa nuova formulazione dell'art. 51 l.fall., in seguito alla riforma del 2006, si esprime nel senso che nessuna azione cautelare può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento. L'articolo prima della riforma nulla disponeva per le azioni cautelari. Sicché, si escludeva l'ammissibilità delle azioni aventi ad oggetto i beni compresi nel fallimento, come il sequestro conservativo, preludio del pignoramento, mentre più dubbia era la sorte dei sequestri giudiziari (cfr. Satta, 181 ss.; Inzitari, 52 ss.; F. Vassalli, 321; Bonsignori, 356 ss.; Belviso, 1991, 19 ss.). Si deve rilevare che, nella vigenza del precedente assetto normativo, le forme dell'ammissione al passivo per la tutela dei crediti nei confronti del debitore fallito non valevano per i crediti del proprietario del bene immobile aventi ad oggetto la restituzione del bene come conseguenza di azioni personali o reali. Di conseguenza, queste tutele trovavano attuazione al di fuori della procedura fallimentare, nelle forme dell'ordinario giudizio di cognizione. Sicché, con riferimento alle azioni aventi ad oggetto beni immobili e tese alla loro restituzione, non vi erano ostacoli all'ammissione dell'esperibilità del sequestro giudiziario contro il curatore, strumentale ad una azione di merito reale o personale a tutela del diritto alla restituzione dell'immobile. Non era, invece, ammissibile il sequestro giudiziario con riferimento ai diritti su beni mobili rientranti nel fallimento, in quanto per le relative domande di rivendicazione o di restituzione il creditore si doveva comunque assoggettare al concorso formale tramite la domanda di ammissione allo stato passivo. Di conseguenza, avrebbe dovuto essere escluso il ricorso alla misura cautelare del sequestro giudiziario. Si ammettevano invece le azioni dirette alla salvaguardia di un bene del creditore, come le azioni possessorie (artt. 1168 e 1170 c.c.) e le azioni cautelari di denuncia di nuova opera o di danno temuto (artt. 1171 e 1172): l'azione di reintegrazione nel possesso promossa per denunciare atti di spoglio compiuti dal curatore di un fallimento non rientrava tra quelle devolute al tribunale fallimentare (art. 24 l.fall.), e restava affidata alla cognizione del Pretore (art. 8 c.p.c., ove attenga a beni non compresi nel fallimento, né rivendicati dal curatore: nella specie, impianto elettrico, realizzato da impresa appaltatrice in un edificio di proprietà comunale, per conto dell'impresa concessionaria della costruzione dell'edificio, poi fallita) (Cass. I, n. 8253/1995). Ancora più chiaro, sul punto, un altro arresto della Suprema Corte, anteriore alla riforma: «l'azione di reintegrazione nel possesso, promossa per denunciare atti di spoglio compiuti dal fallito prima della apertura della procedura concorsuale, non rientra fra quelle devolute al tribunale fallimentare (art. 24 l.fall.), e resta affidata alla cognizione del pretore (art. 8 c.p.c.), ove attenga a beni non acquisiti al fallimento, né rivendicati dal curatore, atteso che, in tale ipotesi, diversamente dal caso in cui si controverta sul possesso di beni inclusi nell'attivo fallimentare (possesso nel quale subentra il curatore), la causa non coinvolge le esigenze della procedura e gli interessi dei creditori (Cass I, n. 2590/1992). Emerge dalla lettura degli arresti della Corte di legittimità sul punto un filo conduttore: le azioni possessorie sono ammesse se non incidono su beni rientranti nel fallimento e se, di conseguenza, non incidono sugli interessi della procedura e dei creditori. Seguendo il criterio interpretativo della spettanza dei beni e degli interessi sui quali incide l'azione esperita, può affermarsi che anche le azioni nunciatorie erano ammissibili, in quanto tendono a tutelare contro pericoli incombenti su beni appartenenti al ricorrente e nel suo possesso, sicché limitarne l'esperibilità non sarebbe funzionale agli interessi dei creditori del fallito e determinerebbe una compressione ingiustificata della tutela giurisdizionale del soggetto che agisce. Nel nuovo assetto normativo conseguente alla riforma del 2006, il procedimento di verifica è stato generalizzato a tutti i crediti, anche a quelli alla restituzione di beni immobili. Di conseguenza, oggi dovrebbero escludersi le azioni cautelari incidenti sui beni rientranti nel fallimento, come i sequestri in genere e le azioni ex art. 700 c.p.c. aventi ad oggetto beni rientranti nel fallimento. Qualche dubbio, tuttavia, continua a porsi nel caso delle azioni a tutela del possesso. Lo spogliato, infatti, ha diritto alla reintegrazione nel possesso anche se non ha alcun diritto personale alla restituzione del bene o nessun diritto reale sullo stesso, e la sua tutela sembra erogabile esclusivamente nelle peculiari forme previste dal codice di rito nella sussistenza dei presupposti previsti dal codice civile, nel caso in cui lo spoglio sia stato perpetrato dal curatore. Stesso discorso dovrebbe valere per l'azione di manutenzione ex art. 1170 c.c. per turbative compiute dal curatore, così come per le azioni di nunciazione, il cui scopo non interferisce sulla funzione della procedura concorsuale di liquidazione dell'attivo spettante al debitore per ripartirne il ricavato tra i creditori. Tuttavia si ritiene che con la riformulazione dell'art. 51 l.fall sia sopito ogni dibattito, nel senso che tutte le azioni cautelari dovrebbero ritenersi escluse (Lamanna, 1004; Jorio, 210, 365). È interessante indagare quali siano gli effetti dei provvedimenti cautelari concessi prima della dichiarazione di fallimento, una volta che sia sopravvenuto il fallimento. Una delle ipotesi statisticamente più verificabili è la concessione e l'attuazione prima della dichiarazione di fallimento del sequestro conservativo. A tale proposito, il fatto che nessuna azione cautelare possa essere iniziata o proseguita a fallimento dichiarato, come dispone l'art. 51 l.fall., comporta che il sequestro eseguito prima della dichiarazione di fallimento non perda efficacia, ma che i suoi effetti ex art. 2906 c.c. vengano assorbiti nei più generali effetti della dichiarazione di fallimento a favore di tutti i creditori concorrenti (Inzitari, 55; Marelli, 764; Lamanna, 1010). Deve darsi conto di un orientamento espresso dalla Suprema Corte in un suo non remoto arresto (Cass. I, n. 25963/2009): nell'ipotesi in cui, prima della dichiarazione di fallimento, sia stato trascritto da un creditore il sequestro conservativo su un bene immobile, successivamente ceduto dal debitore ad un terzo, con acquisto trascritto anteriormente alla conversione della misura cautelare in pignoramento, a seguito dell'inizio dell'espropriazione forzata sul predetto bene ed a norma dell'art. 107 della l.fall., il curatore si sostituisce al creditore istante, che perde ogni potere di impulso ai sensi dell'art. 51 della legge fall., e tale sostituzione opera di diritto, senza che sia necessario un intervento del curatore o un provvedimento di sostituzione del giudice dell'esecuzione; se il curatore interviene nell'esecuzione, si realizza un fenomeno di subentro nel processo, come manifestazione del più generale potere di disposizione dei beni del fallito ex art. 31 della legge fall., ma non una vera e propria sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c. potendo perciò il curatore giovarsi degli effetti sostanziali e processuali del solo pignoramento, ex art. 2913 c.c., ma non sostituirsi nelle posizioni giuridiche processuali strettamente personali del creditore istante, dalle quali non deriva i propri poteri, che, invece, hanno fonte nella legge fallimentare. Ne consegue che mentre al curatore, come partecipante alla medesima esecuzione che con lui prosegue, sono inopponibili gli atti pregiudizievoli trascritti successivamente al pignoramento, egli non può giovarsi della inopponibilità degli atti che hanno per oggetto la cosa sequestrata in quanto tale, trattandosi di effetti di cui si avvantaggia, ex art. 2906 c.c., solo il creditore sequestrante. Diverso discorso, invece, è a farsi con riferimento agli effetti del sequestro giudiziario disposto ed eseguito prima della dichiarazione di fallimento. Quest'ultima, infatti, di certo non elimina le ragioni per le quali era stato disposto ed eseguito il sequestro in parola, ma la permanenza di un custode dei beni, rientranti, almeno apparentemente, nel patrimonio del debitore fallito, è incompatibile, in quanto andrebbe illegittimamente a sovrapporsi con le funzioni e i poteri del curatore fallimentare. Né potrebbe parlarsi di un assorbimento nei più generali effetti della dichiarazione di fallimento di quelli del sequestro giudiziario. Gli effetti di quest'ultimo, infatti, sono di tipo esclusivamente materiale, essendo tesi allo spossessamento di chi lo subisce con riferimento ai beni che ne sono oggetto per evitarne il deterioramento o la dispersione; sicché tali effetti, prodotti dal sequestro giudiziario fino alla dichiarazione di fallimento, sono garantiti, appunto, da quest'ultimo provvedimento e dalla nomina di un curatore che prende possesso di tutti i beni rientranti della disponibilità giuridica e materiale dell'imprenditore fallito (Inzitari, 58; Bonsignori, 359; Ricci, 80 ss.; Marelli, 765). Fallimento e esecuzioneSe, ai sensi dell'art. 51 l.fall., dal giorno della dichiarazione di fallimento non può essere iniziata nessuna azione esecutiva o cautelare sui beni compresi nel fallimento, il divieto rende illegittimi gli atti cautelari o esecutivi che fossero compiuti dai creditori individuali. Ne deriva che, sulla mera notorietà dell'esistenza della procedura fallimentare, il provvedimento cautelare non può essere concesso; simmetricamente, anche senza che il curatore o il debitore fallito esecutato svolga una opposizione all'esecuzione, il Giudice dell'esecuzione deve rigettare l'istanza di vendita depositata dopo il fallimento. Con riferimento, invece, al pignoramento eseguito in data anteriore alla dichiarazione di fallimento, la Suprema Corte, con sentenza n. 25802/2015 della prima sezione, ha stabilito che esso non perde efficacia in seguito alla dichiarazione di fallimento, e che tale efficacia si conserva sia che il curatore decida di intervenire nel processo esecutivo e di proseguirlo, sia che decida di «trasferire» la vendita giudiziale in sede fallimentare, essendo tale facoltà di scelta esercitabile con il programma di liquidazione e senza che dalla scelta di «trasferire» la liquidazione in sede fallimentare il creditori concorrenti debbano subire il danno di perdere gli effetti sostanziali del pignoramento, che renderebbero a loro inopponibili, ad esempio, iscrizioni pregiudizievoli prese da altri creditori sui beni già pignorati e successivamente attratti alla liquidazione concorsuale. Conforme, Cass. VI, ord. n. 24442/2010, secondo la quale nell'ipotesi in cui, prima della dichiarazione di fallimento, sia stata iniziata da un creditore l'espropriazione di uno o più immobili del fallito, a norma dell'art. 107 l.fall., il curatore si sostituisce al creditore istante, e tale sostituzione opera di diritto, senza che sia necessario un intervento da parte del curatore o un provvedimento di sostituzione da parte del giudice dell'esecuzione; ove il curatore ritenga di attuare altre forme di esecuzione, la procedura individuale, non proseguita, per sua scelta, dal curatore, né proseguibile, ai sensi dell'art. 51 l.fall., dal creditore istante, diventa improcedibile, ma tale improcedibilità non determina la caducazione degli effetti sostanziali del pignoramento (tra cui quello, stabilito dall'art. 2916 c.c., in base al quale nella distribuzione della somma ricavata dall'esecuzione non si tiene conto delle ipoteche, anche se giudiziali, iscritte dopo il pignoramento), purché però, nel frattempo, non sia sopravvenuta una causa di inefficacia del pignoramento stesso, la quale, benché non dichiarata dal giudice dell'esecuzione all'epoca della dichiarazione di fallimento, opera «ex tunc» ed automaticamente; in senso conforme Cass. I, n. 15103/2005; in senso difforme, tuttavia, sembra Cass. II., n. 2273/1964. In particolare, Cass. III, n. 9624/2018 aveva affermato che il sopravvenuto fallimento del debitore pignorato nell’espropriazione di crediti presso terzi, pur determinando, a norma dell’art. 51 l. fall., l’improseguibilità del processo esecutivo sospeso, non comportava l’improcedibilità del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo; e che l’impossibilità di proseguire l’esecuzione forzata non cagionava la sopraggiunta carenza dell’interesse del creditore allo svolgimento del giudizio. In seguito Cass. III, n. 272/2021 ha confermato la regola del mancato ostacolo alla procedibilità del giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo ma ha escluso la possibilità di dare ulteriore impulso all’accertamento endoesecutivo compiuto dal giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 549 c.p.c. (nel testo più volte modificato ) perché – come affermato dalla sentenza della Corte cost n. 172/2019 – l’ordinanza emessa produce effetti ai soli fini del procedimento in corso e dell’esecuzione fondata sul provvedimento di assegnazione e non dà luogo alla formazione di un giudicato sull’an o sul quantum del debito del terzo nei confronti dell’esecutato. Fallimento e sequestri penaliSe i rapporti tra il fallimento e i provvedimenti cautelari civili hanno trovato ormai una definitiva composizione nella disposizione di cui all'art. 51 l.fall., ancora problematici sono i rapporti tra la procedura fallimentare e i sequestri disposti dall'autorità penale. A tale proposito, è ancora fondamentale, anche per il suo sforzo di ricostruzione sistematica, la sentenza resa a sezioni unite penali (Cass. S.U., n. 29951/2004), con la quale si è stabilito che è legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un'impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia instaurata la relativa procedura concorsuale, a condizione che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare. In ordine alle altre tipologie di sequestro la Corte ha precisato in motivazione che: a) il sequestro probatorio può legittimamente essere disposto su beni già appresi al fallimento e, se anteriore alla dichiarazione di fallimento, conserva la propria efficacia anche in seguito alla sopravvenuta apertura della procedura concorsuale, trattandosi di una misura strumentale alle esigenze processuali, che persegue il superiore interesse della ricerca della verità nel procedimento penale; b) il sequestro conservativo previsto dall'art. 316 cod. proc. pen., in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto, rientra, in caso di fallimento dell'obbligato, nell'area di operatività del divieto di cui all'art. 51 l.fall., secondo cui dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento; c) il sequestro preventivo c.d. impeditivo, previsto dall'art. 321 comma 1 c.p.p., di beni appartenenti ad un'impresa dichiarata fallita è legittimo, a condizione che il giudice, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale; d) il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare, prevalendo l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente «pericoloso» in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato» (in Giur. It., 2005, 1509, con nota di Massari, Note minime in materia di sequestro probatorio sui beni del fallito; ed in Fall., 2005, 1265, con nota di Iacoviello, Fallimento e sequestri penali). Una specifica disciplina ai rapporti tra i sequestri e il fallimento è dettata dal «codice antimafia», approvato con d.lgs. n. 159/2011. In particolare, gli artt. 63 e ss. del richiamato codice dettano una disciplina complessa dei rapporti tra i sequestri e le misure di prevenzione previsti nella legislazione antimafia e la procedura fallimentare (cfr. Minutoli, 2011, 1271 ss.; Balsamo-Maltese, 2011, 73 ss.). Nel caso in cui venga disposto un sequestro, è sancita la prevalenza delle ragioni che hanno determinato la misura di prevenzione stabilendo la sottrazione alla massa attiva del fallimento dei beni sequestrati, la cui amministrazione è affidata all'amministratore giudiziario nominato dal Tribunale ai sensi dell'art. 35 d.lgs. n. 159/2011, insieme con il giudice delegato alla procedura col provvedimento che dispone il sequestro. Quando, poi, il fallimento dell'imprenditore viene dichiarato successivamente al sequestro o alla confisca dei suoi beni ai sensi del d.lgs. n. 159/2011, il comma 4 dell'art. 63 del richiamato decreto dispone che i beni già assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare. Ne consegue che, se non vi sono altri beni, il Tribunale, sentito il curatore e il comitato dei creditori, dichiara chiuso il fallimento e, ai fini dell'accertamento dei diritti dei creditori, si applicano le disposizioni di cui agli artt. 52 e ss. del codice antimafia. Se, poi, pendente il fallimento, sopravviene la revoca del sequestro o della confisca, il curatore procede ad apprendere i beni; se la revoca interviene dopo la chiusura del fallimento, questo viene riaperto ai sensi dell'art. 121 l.fall (art. 64, commi 6 e 7, d.lgs. n. 159/2011). Se le misure di prevenzione non colpiscono tutti i beni del patrimonio del debitore, il fallimento prosegue e l'art. 63, comma quinto, del codice antimafia impone al giudice delegato al fallimento di procedere alla verifica dei crediti, compresi quelli inerenti ai beni sottoposti a sequestro o confisca, tenendo conto delle speciali norme di cui all'art. 52, comma 5, lett. b), c) e d), e comma 3, del codice antimafia. Queste ultime sono disposizioni che tendono alla salvaguardia delle ragioni sottese alla emanazione delle misure di prevenzione, oltre che ad evitare l'insinuazione di crediti fittizi o simulati. Il Giudice delegato al fallimento, sostituendosi al giudice delegato alla procedura nominato dal Tribunale con il provvedimento che dispone il sequestro, deve accertare che il credito non sia strumentale all'attività illecita o a quella che ne costituisce il frutto o il reimpiego, salvo che il creditore dimostri di avere in buona fede ignorato il nesso di strumentalità. Proprio per scongiurare il più possibile il rischio di simulazioni, è previsto che il giudice delegato, in caso di credito fondato su promessa di pagamento o ricognizione di debito, debba accertare la prova del rapporto fondamentale e del rapporto che legittima il possesso del titolo. Con riferimento ai criteri per l'accertamento della buona fede, è rilevante il disposto di cui al terzo comma dell'art. 52 del codice antimafia: il giudice deve tenere conto della condizione delle parti, dei rapporti personali e patrimoniali tra le stesse e del tipo di attività svolta dal creditore, avendo anche riguardo al tipo di attività svolta, alla presenza di particolari obblighi di diligenza nella fase precontrattuale e, in caso di enti, alla dimensione degli stessi. L'amministratore giudiziario, poi, ha la legittimazione ad esperire le azioni previste dagli artt. 64 e ss. l.fall., stabilendo che gli effetti del sequestro e della confisca si estendono ai beni oggetto dell'atto dichiarato inefficace. Ne consegue che la legittimazione per tutte le altre azioni che discendono dal fallimento resta in capo al curatore (cfr. Balsamo-Maltese, op. ult. cit., che attribuiscono al curatore anche la possibilità di esperire l'azione di responsabilità nei confronti dell'amministratore giudiziario che abbia aggravato o determinato con atti di mala gestio il dissesto dell'impresa). In caso di sequestro successivo alla dichiarazione di fallimento, i beni oggetto della misura di prevenzione sono sottratti al fallimento e consegnati all'amministratore giudiziario, su autorizzazione del giudice delegato al fallimento, sentito il curatore e il comitato dei creditori. In questo caso, l'accertamento dei crediti e dei diritti relativi ai beni sequestrati avviene in sede fallimentare ma in questo caso si impone una sorta di riesame dei crediti ammessi al passivo prima del sequestro o che si siano insinuati dopo il deposito della richiesta di applicazione di una misura di prevenzione. La disposizione del comma 2 dell'art. 64, infatti, prescrive che il Giudice delegato al fallimento deve verificare che ricorrano le condizioni di cui all'art. 52 del codice antimafia, ed il riesame in parola si spiega con la necessità di non frustrare, con l'ammissione al passivo di crediti simulati, le ragioni che hanno portato al sequestro o all'ablazione dei beni. Se poi al momento dell'adozione della misura di prevenzione pende un'opposizione allo stato passivo, la verifica delle condizioni previste dall'art. 52 del codice antimafia spetta al Collegio, d'ufficio. La misura di prevenzione sopravvenuta è anche in grado di travolgere l'efficacia preclusiva data dalla dichiarazione di esecutività dello stato passivo. Solo i crediti che abbiano superato positivamente l'esame delle condizioni previste dall'art. 52 l.fall possono partecipare ai riparti fallimentari, anche se quei crediti, al momento dell'adozione della misura di prevenzione, fossero già stati ammessi allo stato passivo senza alcuna riserva. Ai sensi dell'art. 53 del codice antimafia, i crediti per titolo anteriore al sequestro, verificati ai sensi delle disposizioni di cui al capo II, sono soddisfatti dallo Stato nel limite del 60 per cento del valore dei beni sequestrati o confiscati, risultante dalla stima redatta dall'amministratore o dalla minor somma eventualmente ricavata dalla vendita degli stessi. L'art. 64 del codice antimafia, confermando la prevalenza della misura di prevenzione sulla procedura concorsuale, prevede: la chiusura del fallimento se la misura di prevenzione colpisce tutti i beni rientranti nella massa attiva del fallimento; la perdita della legittimazione del curatore all'esperimento delle azioni di cui agli artt. 64 e ss. l.fall e la sua sostituzione con l'amministratore giudiziario se le azioni sono già state proposte; la riconsegna dei beni colpiti dalla misura di prevenzione al curatore qualora la stessa venga revocata; la riapertura del fallimento se la revoca della misura di prevenzione intervenga dopo la chiusura del fallimento. Diverse regole valgono, invece, per le misure di prevenzione minori nei loro rapporti con il fallimento. L'art. 65 del codice antimafia, a tale proposito, stabilisce la prevalenza della procedura concorsuale rispetto sia al controllo giudiziario che all'amministrazione giudiziaria previsti dall'art. 34 del codice antimafia: tali misure non possono essere disposte su beni ricompresi nella massa attiva del fallimento e se il fallimento viene dichiarato dopo l'adozione di tali misure, queste ultime cessano di avere efficacia. BibliografiaAndrioli, voce Fallimento (dir. Priv. e proc.) in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 281; Balsamo-Maltese, Il codice antimafia, Officina del diritto, Il penalista, Milano 2011,73 ss. Barba, voce Ritenzione (dir. Priv.), in Enc. dir., XL, Milano 1989; Belviso, Sequestro conservativo e procedure concorsuali, in AA.VV. Atti del Convegno Sisco su «La tutela cautelare nelle procedure concorsuali», Milano 1991, 19 ss.; Bonsignori, Il Fallimento, in Tratt. Di dir. Comm. e dir. Pubb. Econ., diretto da Galgano, IX, Padova, 1986; Di Corrado, sub artt. 51 e 52, in La legge fallimentare. Commentario teorico pratico, a cura di Massimo Ferro, Padova, 2007; Ferrara Jr – Borgioli, Il fallimento, Milano 1995; Foschini, voce Fallimento: Effetti per i creditori, in Enc. giur., XIII, Roma, 1989; Garbagnati, Fallimento ed azioni dei creditori, in Riv. Trim. dir. e proc. civ. 1960, 374; Guglielmucci, Diritto fallimentare, Torino, 2006; Inzitari, Effetti del fallimento per i creditori. Art. 51-63, in Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 1988; Jorio, voce Fallimento (diritto priv. e proc.) in Enc. dir., Annali, III, Milano 2010, 365; Lamanna, sub art. 51, in Commentario alla legge fallimentare, a cura di Cavallini, Milano, 2010; Marelli, Il nuovo diritto fallimentare, diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna 2006; Ricci, Profili del sequestro giudiziario sui beni compresi nela massa attiva fallimentare, in Atti del Convegno Sisco; Minutoli, Verso una fallimentarizzazione del giudice della prevenzione antimafia, in Fall. 2011,1217 ss.; Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996, 180; F. Vassalli, Diritto fallimentare, Torino, 1997. |