Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 43 - Rapporti processuali.Rapporti processuali.
Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore. Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico o se l'intervento è previsto dalla legge. L'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo 1. Le controversie in cui e' parte un fallimento sono trattate con priorita'. Il capo dell'ufficio trasmette annualmente al presidente della corte di appello i dati relativi al numero di procedimenti in cui e' parte un fallimento e alla loro durata, nonche' le disposizioni adottate per la finalita' di cui al periodo precedente. Il presidente della corte di appello ne da' atto nella relazione sull'amministrazione della giustizia 2.
[1] Comma inserito dall'articolo 41 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. [2] Comma aggiunto dall'articolo 7, comma 1, lettera 0b), del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 7, del medesimo decreto. InquadramentoL'articolo si occupa di disciplinare in via generale gli effetti della dichiarazione di fallimento sui giudizi in cui è parte il fallito. Orbene, esso esordisce attribuendo al curatore la legittimazione processuale alla tutela giurisdizionale dei diritti patrimoniali facenti capo al fallito. È il carattere patrimoniale dei diritti, dunque, a radicare la legitimatio ad processum del curatore, sicché il fallito continua a poter stare in giudizio con riferimento ai diritti personali e a quelli patrimoniali esclusi ex lege dal fallimento, secondo l'art. 46 l.fall. L'art. 41, comma 1, d.lgs. n. 5/2006 ha introdotto nell'articolo in commento un terzo comma, a norma del quale l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo. Con tale nuova disposizione il legislatore ha cercato di porre fine alle incertezze giurisprudenziali circa la proseguibilità del giudizio dopo il fallimento di una parte, il regime di rilevabilità della incapacità del fallito a stare in giudizio a tutela dei rapporti patrimoniali ricompresi nel fallimento, la validità e l'efficacia della sentenza emessa nel giudizio in pendenza del quale è stato dichiarato il fallimento di una parte. L'articolo in commento spiega la sua operatività con riferimento ai giudizi in cui il fallito è parte attrice (creditrice), in quanto con riferimento ai giudizi in cui il fallito è parte convenuta (debitrice) nell'ambito di azioni di condanna, vige la diversa regola di cui al secondo comma dell'art. 52 l.fall., che impone che i crediti verso il fallito e quelli in prededuzione ex art. 111 comma 1 n. 1 l.fall. siano accertati con le forme della verifica del passivo. L'introduzione della norma di cui al terzo comma dell'art. 43 l.fall. parrebbe avallare la tesi secondo la quale, determinando il fallimento l'interruzione del processo, nei giudizi aventi ad oggetto rapporti patrimoniali del fallito la perdita di legittimazione processuale di quest'ultimo è rilevabile d'ufficio dal giudice, attraverso il rilievo officioso dell'estinzione del giudizio non proseguito o non riassunto entro tre mesi dalla dichiarazione di fallimento (art. 305 c.p.c.). Coerentemente, l'esercizio dell'azione da parte del debitore già dichiarato fallito dovrebbe sfociare in una sentenza di rito che chiuda il processo dichiarando la carenza di legittimazione processuale in capo all'attore (Pajardi, Paluchowsky, 293). Da un esame della giurisprudenza, anche recente, si comprende come il riconosciuto carattere relativo della perdita della legittimazione processuale del fallito, rilevabile solo su istanza del curatore, si sia sovrapposto alla regola dell'automaticità dell'effetto interruttivo determinato dalla dichiarazione di fallimento e a quella della rilevabilità d'ufficio (ex art. 307 c.p.c.) dell'estinzione del processo per mancata prosecuzione/riassunzione del giudizio da parte (o nei confronti) del curatore. In seguito all'emanazione del d.lgs. n. 14/2019, le disposizioni del vecchio art. 43 l.f. sono state trasposte nell'art. 143 del nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza (in vigore dal 15 agosto 2020). L'ultimo comma dell'articolo in commento, tuttavia, non è stato riprodotto nel nuovo testo del codice della crisi, circostanza che testimonia la sostanziale inutilità della disposizione, dal sapore di mero adempimento burocratico. Il terzo comma dell'art. 143 del nuovo codice, inoltre, contiene un importante chiarimento rispetto al terzo comma del “vecchio” art. 43 l.f.: il termine per la riassunzione del processo interrotto per l'intervenuta pronuncia della sentenza che dichiara l'apertura della liquidazione giudiziale decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice. Si viene cosi a risolvere un non trascurabile problema interpretativo sorto nel vigore del vecchio testo del terzo comma dell'art. 43 l.f., ancorando ad un fatto certo il dies a quo del termine di riassunzione del giudizio interrotto a causa dell'apertura della liquidazione giudiziale a carico del debitore. L'interruzione del processo e la perdita della legittimazione processuale del fallitoLa Suprema Corte, infatti, ha sostenuto che la dichiarazione di fallimento, pur non sottraendo al fallito la titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, comporta, a norma dell'art. 43 l.fall., la perdita della sua capacità di stare in giudizio nelle relative controversie, spettando la legittimazione processuale esclusivamente al curatore. Se, però, l'amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l'inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando consegua ad una negativa valutazione di questi ultimi circa la convenienza della controversia (Cass., ord. n. 13814/2016). Su questa scia, si è precisato che gli effetti della sentenza favorevole al fallito emessa all'esito di un giudizio, proseguito nonostante l'intervenuto fallimento in quanto il curatore si era disinteressato del rapporto di diritto patrimoniale dedotto nello stesso, possono essere fatti propri da parte del curatore medesimo, secondo il meccanismo degli artt. 42, comma 2 e 44 comma 3 l.fall. (Cass. n. 614/2016). Questo orientamento è seguito anche in ambito tributario (Cass., ordinanza n. 21765/2015, secondo la quale in tema di contenzioso tributario, la perdita della capacità processuale del contribuente fallito, che abbia proposto ricorso avverso un diniego di rimborso, può essere rilevata d'ufficio solo ove l'Amministrazione finanziaria abbia dimostrato l'interesse della curatela per il rapporto dedotto in causa, assumendo esclusivamente in tale ipotesi il difetto di legittimazione processuale del fallito carattere assoluto). Per Cass. I, n. 12854/2018, il contribuente fallito è legittimato a impugnare l’accertamento tributario nell’inerzia degli organi fallimentari e, nel caso di esito favorevole dell’azione, il curatore può eccepire il relativo giudicato, con conseguente limitazione della pretesa dell’agente della riscossione, da ammettersi al passivo nei limiti della minor somma acclarata in sede contenziosa. Deve osservarsi, allora, che, nonostante che il terzo comma dell'art. 43 l.fall. sia chiaro nel suo corollario sistematico di privare il fallito della legittimazione a compiere atti processuali relativi a rapporti di diritto patrimoniale rientranti nel fallimento, il diritto vivente continua ad atteggiarsi nel senso di legittimare il fallito a compiere atti processuali in luogo del curatore nel caso in cui quest'ultimo si disinteressi del giudizio e l'esito di quest'ultimo non potrebbe che portare un incremento patrimoniale del fallito rispetto alla situazione anteriore alla dichiarazione di fallimento. La soluzione della giurisprudenza, seppure non appaia rispettosa del corollario sistematico che si trae dal citato terzo comma dell'art. 43 l.fall., soddisfa tuttavia esigenze pratiche non trascurabili. Infatti, dal momento che con la dichiarazione di fallimento il debitore non perde la capacità di agire, ben potrebbe egli tutelare in giudizio le sue situazioni giuridiche patrimoniali che il curatore trascuri di coltivare o di tutelare. Per tale via, si evita che l'inerzia del curatore possa compromettere i diritti che fanno capo al fallito: a tal proposito, occorre rilevare, tra l'altro, che la dichiarazione di fallimento del debitore non sospende il corso della prescrizione, sicché l'inerzia o un'erronea valutazione degli organi fallimentari rischiano di compromettere la tutela giurisdizionale di diritti o di situazioni giuridiche che fanno capo al debitore. Tuttavia, la distinzione che la giurisprudenza opera quanto all'inerzia processuale del curatore tra disinteresse per la causa (e dunque per la situazione giuridica patrimoniale sottesa), che legittimerebbe il fallito a stare in giudizio per la tutela dei suoi interessi (salva per il fallimento la possibilità di appropriarsi degli effetti favorevoli della sentenza secondo il regime normativo dei beni sopravvenuti nel corso del fallimento), e valutazione negativa circa la convenienza di intraprenderla o il modo in cui l'abbia intrapresa il fallito, che priverebbe quest'ultimo della legitimatio ad processum, fondandosi sull'inerzia del curatore, affida la sua portata euristica ad un fatto di per sé equivoco e poco concludente. Molto raramente, infatti, il giudice del contenzioso intrapreso dal debitore dopo la dichiarazione di fallimento, o dal debitore che fallisca nel corso del giudizio, è nelle condizioni di qualificare l'inerzia del curatore rispetto alla causa in corso come disinteresse piuttosto che come sintomo di una valutazione negativa dell'azione in sé o del modo in cui il fallito l'abbia esercitata, sicché egli in genere, nel dubbio, arriverà a pronunciare una sentenza di merito, i cui effetti saranno fatti propri dal curatore a seconda che sia vantaggiosa o meno per gli interessi della procedura. A ben riflettere, inoltre, lo stesso curatore che fosse in dubbio se esercitare o meno un'azione avrebbe tutto l'interesse «a stare alla finestra» ed attendere l'esito del giudizio instaurato o proseguito dal fallito, così da potersi appropriare degli eventuali effetti positivi della sentenza o da impugnarla, se sfavorevole, deducendo che quell'azione sarebbe stata esercitata contro il volere degli organi fallimentari, a loro insaputa e che, dunque, la domanda avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile (se proposta dal debitore già fallito) o improcedibile (se coltivata dal debitore fallito in corso di causa). Orbene, la disposizione del terzo comma dell'art. 43 l.fall., pur avendo qualificato la dichiarazione di fallimento come causa di interruzione del giudizio, non ha risolto la questione della proponibilità da parte del debitore già fallito di una azione a tutela di un suo diritto di natura patrimoniale nell'inerzia del curatore, né quella della procedibilità della domanda nel caso in cui, sopravvenuto il fallimento del debitore attore nel corso del giudizio, il curatore non abbia proseguito il giudizio dopo l'evento interruttivo. Si potrebbe, però, giunti a questo punto, tentare di prospettare una soluzione al problema che, pur basandosi sul nuovo testo del terzo comma dell'art. 43 l.fall., sia rispettoso del principio pragmatico «conservativo» a tutela del debitore espresso costantemente in giurisprudenza: intervenuto il fallimento, il debitore attore che sia convinto che quel giudizio debba essere proseguito o iniziato può «mettere in mora» il curatore ai sensi dell'art. 36 l.fall. affinché provochi da parte del g.d. l'autorizzazione ex art. 25 n. 6 l.fall. a iniziare o proseguire il giudizio iniziato dal fallito, ed eventualmente proporre reclamo al g.d., od eventualmente appellarsi al collegio, per ottenere l'autorizzazione del curatore a iniziare o proseguire il giudizio. Sicché, se, all'esito di tale subprocedimento, il fallimento decida di non intraprendere un giudizio a tutela della posizione giuridica dedotta dal fallito o di non proseguire il giudizio iniziato dal debitore fallito nelle more ritenendo non degna di tutela giurisdizionale la posizione vantata dal fallito, quest'ultimo potrà iniziare il giudizio o proseguire quello in corso senza che, però, sia data al curatore, a sentenza emessa, la possibilità di appropriarsene degli effetti favorevoli o di impugnare quella asseritamente sfavorevole agli interessi della procedura. L'interruzione del processo, con particolare riferimento al giudizio attivo di primo gradoLa scelta del legislatore del 2006 di attribuire alla dichiarazione di fallimento l'efficacia interruttiva del processo in corso in cui è parte creditrice il fallito (per il caso in cui il fallito sia parte debitrice, cfr. infra, sub art. 52 l.fall.) ha una chiara valenza semplificatrice dei rapporti tra curatela e massa dei creditori da una parte, fallito che conserva la sua capacità di agire e dunque di tutelare i suoi diritti non rientranti nel fallimento o ai quali quest'ultimo non sia interessato, e debitore convenuto dall'altra. In assenza di una disposizione specifica, infatti, si era ritenuto in giurisprudenza che la dichiarazione di fallimento di una parte, avvenuta dopo la sua costituzione in giudizio, non determina l'automatica interruzione del processo, non esistendo in materia fallimentare alcuna disposizione che deroghi al principio sancito dall'art. 300 c.p.c., secondo cui l'interruzione del processo a seguito della perdita della capacità della parte costituita si verifica soltanto quando il procuratore della stessa dichiari in udienza o notifichi alle altre parti l'evento interruttivo. In difetto di tale dichiarazione o notificazione il processo prosegue tra le parti originarie e l'eventuale sentenza pronunciata nei confronti del fallito non è nulla, né «inutiliter data», bensì soltanto inopponibile alla massa dei creditori, rispetto ai quali il giudizio in tal modo proseguito costituisce «res inter alios acta». Tuttavia, qualora la sentenza di primo grado venga appellata dalla curatela fallimentare, il curatore del fallimento non può pretendere che la sentenza stessa sia dichiarata inopponibile al fallimento, dal momento che la dichiarazione di inopponibilità presuppone il permanere di una situazione di terzietà che con la impugnazione viene meno, avendo la curatela in tal modo fatto proprio il processo in corso (Cass. n. 8530/2001). In particolare, si è affermato che la dichiarazione di fallimento di una delle parti che si sia verificata dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni e la scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e le repliche non produce alcun effetto ai fini della interruzione del processo, sicchè il giudizio prosegue tra le parti originarie e la sentenza pronunciata nei confronti della parte successivamente fallita non è nulla, né "inutiliter data", bensì inopponibile alla massa dei creditori, rispetto ai quali costituisce "res inter alios acta" (Cass. I, n. 7076/2022). Sicché, la scelta dei procuratori delle parti di non dichiarare la verificazione dell'evento interruttivo (fallimento di una di esse) poteva provocare uno spreco di attività giurisdizionale, in quanto la sentenza emessa all'esito del giudizio era (considerata) inopponibile alla massa dei creditori concorsuali, e quindi il fallimento, nel caso di epilogo del giudizio ad esso sgradito, poteva esercitare di nuovo l'azione già intrapresa dal fallito, sperando in un migliore esito, salvo che non compisse un'attività processuale, come ad esempio un'impugnazione, che implicasse volontà di far propri gli effetti di quella sentenza inter alios acta. Orbene, a parte la considerazione che, nel sistema delineato dall'art. 300 c.p.c., la mancata dichiarazione da parte del procuratore della parte della verificazione dell'evento interruttivo con la conseguente continuazione del giudizio fino alla sentenza di merito non implica che quest'ultima sia inopponibile al soggetto che potrebbe legittimamente stare in giudizio in luogo del soggetto che abbia subito l'evento interruttivo, il terzo comma dell'art. 43 l.fall. dispone, innovando sotto questo aspetto la disciplina degli eventi anomali del processo, che il fallimento produce l'interruzione immediata del processo in corso, che pertanto deve essere proseguito dal curatore o nei suoi confronti a pena di estinzione nel termine previsto dall'art. 305 c.p.c. Ne consegue che se, per un error in procedendo, il processo dovesse continuare tra il fallito e le altre parti pur avendo subito l'evento interruttivo della dichiarazione di fallimento e nonostante che il curatore non l'abbia proseguito nei termini o che il processo interrotto non sia stato riassunto nei suoi confronti, il curatore che non ne volesse restare vincolato dovrebbe, in applicazione della regola della conversione dei motivi di nullità in motivi di impugnazione (art. 161, comma 1, c.p.c.), appellarla per far dichiarare dal Giudice del gravame la nullità della sentenza di primo grado e l'estinzione del giudizio di prime cure (Consolo- Muroni, 963). In conclusione, dunque, può affermarsi che tutte le sentenze di primo grado emanate in seguito a un giudizio che non è stato dichiarato interrotto per l'intervenuto fallimento del creditore attore, od in seguito ad un giudizio intrapreso direttamente dal creditore già dichiarato fallito, benché nulle, sono efficaci anche nei confronti del fallimento, che se le trova sfavorevoli ai suoi interessi o alle sue aspettative non può fare altro che denunciarne la nullità in appello per ottenere la dichiarazione di estinzione del giudizio di primo grado. Cass. II, n. 31010/2018 ha poi affermato che nel giudizio civile la dichiarazione di fallimento della parte costituita determina l’automatica interruzione del processo, ex art. 43 l. fall., senza necessità di dichiarazione dell’evento e che il termine per la riassunzione decorre dalla conoscenza legale della sentenza dichiarativa del fallimento, la quale deve essere acquisita nello specifico giudizio in cui deve operare; pertanto, la comunicazione effettuata dal curatore ai sensi dell’art. 92 l. fall. costituisce strumento idoneo ai fini della decorrenza del detto termine, a condizione che sia indirizzata al difensore della parte, contenga un esplicito riferimento alla lite pendente interrotta e sia corredata da copia autentica della sentenza di fallimento. La conoscenza del fallimento da parte del procuratore di più parti è produttiva del medesimo effetto conoscitivo legale anche nei confronti delle altre parti del medesimo processo rappresentate da quello stesso difensore, unico destinatario esclusivamente legittimato a ricevere la notizia dell’evento interruttivo con riferimento al giudizio nel quale tale evento è destinato ad esplicare efficacia (Cass. III, ord. n. 25859/2020). L'interruzione e l'estinzione del giudizio in seguito al fallimento e, simmetricamente, la carenza di legittimazione processuale in capo al soggetto già dichiarato fallito prima dell'instaurazione del giudizio da parte sua, devono essere dichiarate d'ufficio dal giudice, purché la notizia del fallimento risulti in qualsiasi modo acquisita nel processo, salva la possibilità per il fallito di proseguire il giudizio a tutela delle sue situazioni giuridiche quando, dopo aver sollecitato il curatore ed aver devoluto la questione della prosecuzione del giudizio al g.d. ed eventualmente al collegio secondo il meccanismo dell'art. 36 l.fall., risulti che gli organi fallimentari non abbiano manifestato alcun interesse ad acquisire nel fallimento il rapporto dedotto in quel giudizio e le connesse utilità. L'interruzione del processo e il giudizio di impugnazioneLe conclusioni che si sono appena prospettate devono essere verificate con riferimento alla fattispecie nella quale il fallimento del creditore sia dichiarato dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di primo grado, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado o comunque nella pendenza del giudizio di appello. Orbene, quando il curatore «trovi» una sentenza emessa nei confronti del fallito creditore relativa ad un rapporto di diritto patrimoniale per legge non escluso dal fallimento, a differenza di quanto si è detto con riferimento al giudizio di primo grado, la corrispondente utilità già rientra nei beni rispetto ai quali vale la regola del primo comma dell'art. 42 l.fall., che sottrae la disponibilità e l'amministrazione al fallito per attribuirle al curatore. Questo discorso non vale solo per le sentenze rispetto alle quali il fallito sia totalmente vincitore, ma anche per quelle rispetto alle quali egli sia rimasto solo parzialmente vincitore o totalmente soccombente. Infatti, la mancata prosecuzione o la mancata riassunzione del giudizio interrotto ex lege in seguito alla dichiarazione di fallimento, così come la mancata impugnazione della sentenza di primo grado se il fallimento è «aperto» prima dell'esperimento dell'impugnazione, determina l'estinzione del giudizio di secondo grado con l'effetto del passaggio in giudicato della sentenza impugnata, ai sensi dell'art. 338 c.p.c.: la propensione al giudicato che ogni sentenza ha fa sì che, se essa sia stata emessa nei confronti del fallito prima della dichiarazione di fallimento o anche dopo, ma quando l'evento interruttivo non ha più rilievo processuale nel giudizio in corso (art. 300, comma 5, c.p.c.), il curatore soggiace ai relativi effetti sicché, se egli voglia farla riformare o voglia difenderla contro l'impugnazione altrui deve coltivare l'appello, proponendo lui l'impugnazione o proseguendo lui il relativo giudizio dopo la dichiarazione di fallimento del creditore appellante in tutto o in parte soccombente, o costituendosi in giudizio se, dopo la dichiarazione di fallimento del creditore vincitore anche solo parzialmente in primo grado, il giudizio sia proseguito dalla controparte anche solo parzialmente soccombente. Il curatore, in virtù del meccanismo dell'interruzione e della successiva prosecuzione o riassunzione ex art. 43, terzo comma, l.fall., può subentrare nel giudizio nello stato e grado in cui esso si trova al momento della dichiarazione di fallimento della parte creditrice, senza che si possa dolere di come il fallito abbia esercitato l'azione o di come abbia condotto la sua difesa in giudizio fino alla verificazione dell'evento interruttivo. Una volta che il fallimento della parte attrice si trovi con una sentenza già emessa o con un giudizio di appello in corso, il disposto del terzo comma dell'art. 43 l.fall. fa sì che il curatore attui le difese che vuole nel solco del giudizio già iniziato dal fallito, e con le preclusioni processuali verificatesi al momento della dichiarazione di fallimento, salva la possibilità di esperire una revocazione ex art. 395, n. 1, c.p.c. o, secondo altri, un'opposizione di terzo revocatoria (art. 404, secondo comma, c.p.c.) se la sentenza sia l'effetto di dolo a danno del fallito e, dunque, della massa dei creditori concorsuali (cfr. Cass. n. 5026/1999). Il fallimento di una delle parti che si verifichi nel giudizio di cassazione non determina l’interruzione del processo, trattandosi di procedimento dominato dall’impulso d’ufficio; ne segue che il curatore non è legittimato a stare in giudizio in luogo del fallito, essendo, tra l’altro, non ipotizzabili in tale giudizio gli adempimenti di cui all’art. 302 c.p.c. Deve darsi conto, tuttavia, di una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. n. 20163/2015) che, nel caso della proposizione di un giudizio per cassazione avverso una sentenza sfavorevole ad un fallimento ed emessa all'esito di un giudizio di appello che aveva come parte quel fallimento, giudizio per cassazione proposto dal fallito in proprio, ha ritenuto implicitamente che, nel caso di inerzia del curatore fallimentare con riguardo al potere di impugnazione della sentenza di appello sfavorevole alla procedura, il fallito potrebbe egli stesso impugnare la sentenza, dei cui effetti favorevoli il fallimento potrebbe tuttavia giovarsi. Deve anche notarsi, d'altra parte, sulla scia di quanto si è andato qui sostenendo, che il principio di diritto che pare essere stato implicitamente espresso con la richiamata pronuncia non può essere accolto. La decadenza dal termine per impugnare una sentenza resa all'esito di un giudizio di cui sia stato parte il fallimento, infatti, al di là dell'eventuale autorizzazione che il g.d. dia a non proporre impugnazione, non potrebbe che essere considerata come un effetto strettamente e indissolubilmente collegato al passaggio in giudicato della sentenza che neghi al fallimento il diritto posto a base dell'azione. In altri termini, una volta che una sentenza sia resa in un giudizio che veda come parte un fallimento al quale sia negato il bene della vita rappresentante il petitum della originaria domanda giudiziale, la mancata impugnazione della sentenza da parte della procedura non può che significare acquiescenza rispetto al modo in cui sono stati regolati gli interessi in campo ad opera di quella sentenza. L'intervento del fallito per le questioni da cui può dipendere un'imputazione di bancarottaIl secondo comma dell'articolo in commento rappresenta una deroga alla disposizione di cui al primo comma dell'articolo in questione. Infatti, fermo restando che nei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore, il fallito può tuttavia non proporre autonomamente azione o impugnazione, bensì intervenire adesivamente nel giudizio in corso se in esso si controverte di questioni da cui potrebbe dipendere una imputazione di bancarotta ai danni del fallito stesso (Cass. n. 7448/2012). Secondo un orientamento giurisprudenziale di legittimità, il fallito non ha capacità e legittimazione processuale nei giudizi di opposizione, di impugnazione dello stato passivo o di insinuazione tardiva dei crediti, nei quali il curatore è parte necessaria ed insostituibile, fatta eccezione — quanto alla possibilità di un intervento adesivo autonomo del fallito — per i soli giudizi in cui dalle questioni dedotte dipenda direttamente la possibilità dell'inizio di un procedimento penale per bancarotta a carico di lui. Pertanto, al di fuori di tale eccezione, eventuali interventi del fallito nelle cause in cui sia parte il curatore sono configurabili soltanto sub specie dell'intervento adesivo dipendente, alla cui stregua va escluso il diritto del fallito medesimo di impugnare la sentenza autonomamente ed indipendentemente dall'impugnazione del curatore (Cass. n. 7997/1990). In realtà, questo riportato orientamento sembra attribuire in ogni caso al fallito il potere di un intervento adesivo dipendente, mentre riconosce il potere di un intervento adesivo autonomo solo nei giudizi in cui si discuta di questioni da cui possa dipendere una imputazione di bancarotta ai suoi danni. L'estensione del potere in ogni caso al fallito di esperire un intervento adesivo dipendente nelle cause relative a rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento nelle quali sta in giudizio il curatore, in realtà, non sembra conforme al dato normativo. Non si comprende, infatti, quali possano essere i diritti del fallito che verrebbero incisi di riflesso dalle sentenze emesse nei giudizi di cui sia parte il curatore, considerato che il curatore subentra nel potere di amministrare e di disporre dei beni del fallito e in quello di stare in giudizio nelle controversie in cui il fallito è parte. È maggiormente attendibile, dunque, la ricostruzione secondo la quale il fallito conserverebbe il potere di spiegare intervento adesivo autonomo per far valere un interesse proprio coincidente con quello del curatore o di un'altra parte del processo, essendo l'interesse ad intervenire quello di evitare una imputazione di bancarotta fraudolenta o semplice (artt. 216 e 217 l.fall.) ai suoi danni. La qualificazione come autonomo dell'intervento adesivo del fallito nei casi in cui vi può essere incidenza dell'esito del giudizio su di un'eventuale imputazione di bancarotta determina l'impugnabilità autonoma della sentenza resa da parte del fallito, a differenza di quanto si ritiene accadere se l'intervento fosse qualificato come adesivo dipendente (cfr., ex multis, Cass. n. 23235/2013: «Il ricorso per cassazione proposto in via autonoma e principale dall'interveniente adesivo dipendente va esaminato come ricorso incidentale adesivo rispetto a quello della parte adiuvata, da intendersi quale ricorso principale, posto che il predetto interveniente — cui è preclusa l'impugnazione in via autonoma della sentenza sfavorevole alla parte adiuvata, salvo che per la statuizione di condanna alle spese giudiziali pronunziata nei suoi confronti — conserva in tal modo la sua posizione processuale secondaria e subordinata, potendo aderire all'impugnazione della parte adiuvata»). L'esigenza di celerità nella definizione dei giudiziL'ultimo comma dell'art. 43 l.fall., aggiunto dal d.l. n. 83/2015, art. 7, comma 1 lett. 0b), convertito in l. n. 132/2015, è una norma che potremmo ironicamente chiamare «norma della disperazione». Di fronte alla abnorme durata dei processi che vedono come parte i fallimenti, e che ne impediscono la chiusura (cfr. il nuovo art. 118 comma 2-terzo periodo l.fall., che ha introdotto una nuova ipotesi di chiusura «virtuale» o «statistica»), il legislatore ha reagito con una norma di tipo meramente organizzativo, se non burocratico, certamente un po' velleitaria: «le controversie in cui è parte un fallimento sono trattate con priorità». Spetta al Presidente del Tribunale monitorare la durata delle cause in cui è parte un fallimento, oltre che il loro numero, ed individuare soluzioni e strategie affinché esse vengano definite prioritariamente. I dati raccolti dal Presidente del Tribunale e le misure organizzative da lui predisposte per raggiungere l'obiettivo della prioritaria trattazione e della prioritaria definizione, poi, sono trasmessi al presidente della Corte di Appello che «ne dà atto» nella relazione sull'amministrazione della giustizia. Orbene, il carattere velleitario di tale disposizione è palese se solo si consideri che la norma non dà alcuna indicazione circa il modo in cui il Presidente dell'ufficio debba adottare disposizioni affinché le cause in cui è parte un fallimento vengano trattate con priorità; non è chiaro se in assenza di tali disposizioni il Giudice del singolo contenzioso sia obbligato a trattare con priorità le cause in cui è parte un fallimento; non è chiaro se una tale corsia preferenziale debba essere riconosciuta in assoluto o debba essere volta per volta accordata compatibilmente con la vetustà e la «delicatezza» delle altre cause iscritte a ruolo. Certo è che il carattere burocratico della norma rischia di emergere in tutta la sua ipocrisia quando prescrive che il Presidente della Corte di Appello debba limitarsi a «dare atto» nella relazione sull'amministrazione della giustizia delle informazioni e delle misure comunicategli dal Presidente del Tribunale: egli, dunque, non è tenuto a valutare la significatività di quei dati e l'efficienza di quelle misure, bensì deve solo darne atto. Il Presidente del Tribunale, dal canto suo, potrebbe essere tentato dall'evadere l'incombente, parimenti di sapore burocratico, semplicemente raccomandando ai giudici di trattare, nei limiti del possibile e nel contemperamento delle esigenze di celerità degli altri processi di più antica iscrizione a ruolo, con precedenza i giudizi di cui è parte un fallimento. Si capirà solo in futuro se tale disposizione aggiunta in coda all'art. 43 l.fall. avrà o meno qualche effetto nel decongestionamento del contenzioso dei fallimenti e nell'abbattimento dei relativi tempi di definizione. BibliografiaV. sub art. 42. |