Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 42 - Beni del fallito.

Angelo Napolitano

Beni del fallito.

 

La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento.

Sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento, dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi.

Il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi 1.

Inquadramento

Intervenuta la dichiarazione di fallimento, il fallito è privato dell'amministrazione e della disponibilità dei beni esistenti.

In dottrina, tuttavia, si parla, per indicare la perdita dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni da parte del fallito, di spossessamento.

Tale effetto viene accostato a quello che si verifica in caso di pignoramento nell'ambito del processo di espropriazione: il fallimento infatti segnerebbe l'avvio di una esecuzione collettiva su tutti i beni del debitore, al pari di un pignoramento generale con cui si assoggettasse ad espropriazione l'intero suo patrimonio (Cass. III, n. 5792/2014; Cass. II, n. 11737/2013).

In dottrina, Provinciali, II, 790; Fabiani, 263 s.; Pajardi, Paluchowsky, 247.

Secondo la giurisprudenza più recente, la dichiarazione di fallimento non determinerebbe ope legis la perdita del possesso dei beni da parte del fallito.

Il curatore, secondo tale ricostruzione, si limiterebbe a prendere in consegna i beni, divenendone detentore, sicché il fallimento non costituirebbe una causa interruttiva del possesso in capo al debitore (Cass. n. 17605/2015; Cass. n. 16853/2005).

Questa ricostruzione, che si fonda sull'assimilazione degli effetti della dichiarazione di fallimento a quelli di un pignoramento generale sui beni del debitore, coerentemente chiarisce la portata del termine «spossessamento», attribuendo al curatore la qualità di detentore e al fallito quella di possessore, aggiungendo che il fallimento non determina alcuna interruzione del possesso in capo al debitore.

Allo stesso modo, infatti, con il pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati (art. 559 c.p.c.), ed anche quando sia nominato custode un diverso soggetto egli non perde il possesso legale dei beni.

In dottrina si tende anche a descrivere il fenomeno della perdita dell'amministrazione e della disponibilità in capo al debitore dei beni esistenti al tempo della dichiarazione di fallimento in termini di separazione patrimoniale (Rocco di Torrepadula, in Comm. Jorio, 2010, 217 ss.): i beni esistenti alla data del fallimento formerebbero così un patrimonio separato dagli altri beni che dovessero sopravvenire nella disponibilità o nella titolarità del debitore, salvi i commi due e tre dell'art. 42 l.fall., affinché sugli stessi possano soddisfarsi le ragioni dei creditori concorrenti ex art. 52 l.fall. secondo il criterio della par condicio creditorum.

In giurisprudenza la definizione del complesso dei beni del debitore esistenti alla data della dichiarazione di fallimento come patrimonio separato non ha avuto particolare seguito, in quanto per patrimonio separato in genere si intende uno o più beni, tra quelli appartenenti al fallito al momento della dichiarazione di fallimento, soggetti ad un peculiare regime di responsabilità patrimoniale (cfr., ad esempio, prima della riformulazione dell'art. 52, u.c. l.fall. ad opera dell'art. 4, comma 2, d.lgs. n. 169/2007, Trib. Alessandria del 4 marzo 1986 in Giur. cost. 86, II, 2, 768, che ha definito come patrimonio separato il bene immobile escluso dal concorso fallimentare per le speciali disposizioni sul credito fondiario di cui all'art. 42 r.d. n. 646/1905; nonché Cass. n. 21494/2011, che utilizza la locuzione di patrimonio separato con riferimento ai beni costituiti in fondo patrimoniale dal debitore prima della dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 46, primo comma, n. 3 l.fall.).

Non riuscito, infine, appare il tentativo di definire lo spossessamento come un effetto della presunta perdita della capacità di agire da parte del debitore dichiarato fallito: a tal riguardo, si è chiarito in giurisprudenza che il fallimento non comporta perdita o riduzione della capacità d'agire sostanziale o processuale in capo al fallito, ma solo l'inopponibilità nei confronti del curatore fallimentare degli atti a contenuto patrimoniale compiuti dal fallito (sul piano processuale, cfr. Cass. n. 267/2011 e, in campo fallimentare, Cass. n. 1359/1999).

Giova rimarcare peraltro che gli sforzi di inquadramento della perdita della amministrazione e della disponibilità in capo al fallito dei suoi beni esistenti alla data della dichiarazione di fallimento sembrano soddisfare per lo più esigenze di classificazione dogmatica, mentre un maggior rilievo avrebbe l'analisi delle conseguenze di tale perdita di facoltà in capo al debitore fallito sui rapporti con i terzi, nonché sui connessi doveri e facoltà del curatore e degli organi fallimentari.

L'articolo in commento corrisponde all'art. 142 del Codice della crisi e dell'insolvenza di cui al d.lgs. n. 14 del 12 gennaio 2019 (in vigore dal 15 agosto 2020). L'art. 142 rappresenta quasi una trascrizione dell'art. 42 l.f., fatta eccezione per alcune varianti formali, dovute al fatto che il fallimento è divenuto, nel nuovo codice, “liquidazione giudiziale” ed il fallito è chiamato semplicemente “debitore”. Queste varianti formali, o meglio, nominali, rispetto alla legge fallimentare, si ritrovano anche nei successivi articoli del codice della crisi e dell'insolvenza. 

La tipologia dei beni acquisibili al fallimento

Oggetto del c.d. spossessamento di cui al primo comma dell'art. 42 l.fall. sono tutti i beni rientranti nel patrimonio del debitore ad eccezione di quelli elencati nell'art. 46 l.fall., nella misura in cui la loro liquidazione possa comportare un vantaggio per i creditori. Nell'espressione «beni» rientrano non solo le res materiali o immateriali suscettibili di valutazione economica e, dunque, di liquidazione, ma anche le situazioni giuridiche soggettive attive dalle quali potrebbe rivenire una utilità economica per i creditori concorsuali (Nicodemo, Commentario Ambrosini, Milano, 2006, 77).

In giurisprudenza, poi, si è chiarito che le somme versate dalla compagnia assicuratrice all'assicurato fallito a titolo di riscatto della polizza vita sono sottratte all'azione di inefficacia di cui all'art. 44 l.fall., in virtù del combinato disposto degli artt. 1923 c.c. e 46 comma 1 n. 5 l.fall., riguardando l'esonero dalla disciplina del fallimento tutte le possibili finalità dell'assicurazione sulla vita e, dunque, non solo la funzione previdenziale ma anche quella di risparmio (Cass. n. 12261/2016).

Con riferimento all'estensione dell'effetto dello spossessamento ai beni di terzi nella disponibilità del fallito, si è detto che lo spossessamento del fallito, ai sensi dell'art. 42 l.fall., colpisce tutti i beni rinvenuti nella sua disponibilità a qualsiasi titolo alla data del fallimento, giustificando l'acquisizione di essi alla massa attiva in via diretta, se effettivamente a lui appartenenti, o mediante sigillatura, se si tratti di beni rinvenuti presso il fallito ma di terzi che, in quella sede, non abbiano svolto contestazioni, conseguendone, in ogni caso, l'onere per il terzo opponente di esperire lo strumento generale della rivendica, ex art. 103 l.fall.; ne consegue l'inammissibilità del reclamo, proposto ex art. 26 l.fall., avverso il decreto di acquisizione emesso dal giudice delegato relativamente ai beni rinvenuti in una cassetta di sicurezza, intestata al terzo ricorrente ma nella disponibilità del fallito, delegato all'accesso (Cass. ord., n. 607/2012).

Per la dottrina, invece, il disposto del primo comma dell'art. 42 l.fall. non farebbe distinzioni tra beni del fallito e beni di terzi nella disponibilità del fallito, ricollegandone l'effetto di spossessamento alla sentenza dichiarativa di fallimento (Satta, 143), anche se vi sono opinioni che distinguono tra i beni del fallito e i beni di terzi, nel senso che i primi sarebbero oggetti di uno spossessamento ope legis, mentre i secondi sarebbero spossessati solo in virtù di un'attività di inventariazione da parte del curatore (Semiani Bignardi, 1960, 152).

Ancora, la Suprema Corte ha avuto modo di affermare che con riguardo ad azienda commerciale, che sia stata inventariata tra le attività del fallimento e presa in consegna dal curatore (art. 88 l.fall.) — il quale è immesso «ope legis» nel possesso dei beni detenuti dal fallito — il terzo, che assuma di essersi reso cessionario dell'azienda medesima prima dell'instaurazione della procedura concorsuale o che vanti sui singoli beni appresi un titolo autonomo ed anteriore al fallimento, trova esclusiva tutela nel procedimento di verificazione dello stato passivo, nei modi e nei termini contemplati dall'art. 103 l.fall. per la rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili possedute dal fallito, salva solo l'autonoma tutela, esperibile in sede di cognizione, per gli eventuali provvedimenti abnormi di acquisizione dei suddetti beni alla massa. (Cass. n. 25931/2015. Nella specie, la S.C. aveva confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inammissibile l'azione possessoria proposta nei confronti del curatore per aver proceduto all'inventario presso la sede della società fallita, pur avendovi rinvenuto una diversa società con oggetto sociale identico).

In giurisprudenza, quanto ai limiti all'emissione da parte del giudice delegato dei decreti di acquisizione ex art. 25, comma 1, n. 2 l.fall. per ricomprendere nel fallimento beni oggetto di diritti di terzi, si ritiene che il giudice delegato può emettere, ai sensi dell'art. 25, primo comma, n. 2 l.fall., provvedimenti di acquisizione di determinati beni ed attività alla massa fallimentare solo quando non sia contestata la spettanza al fallimento dei beni e delle attività, non potendo i provvedimenti del giudice delegato, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dalla legge fallimentare, incidere su diritti soggettivi dei terzi. (Cass. n. 26172/2006. Nella specie, la S.C. aveva confermato la decisione di merito che, in sede di opposizione all'esecuzione, aveva escluso che il giudice delegato potesse acquisire alla massa in via amministrativa beni della società fallita assoggettati a misura di prevenzione, essendone controversa la loro destinabilità al soddisfacimento dei creditori).

Con riferimento all'assicurazione della responsabilità civile e all'indennizzo assicurativo dovuto da parte della società assicuratrice a favore del danneggiato nell'interesse del danneggiante, la Suprema Corte ha ritenuto che in materia di fallimento, poiché lo spossessamento colpisce tutto il patrimonio del debitore, comprese le entità prive di autonomia o di valore economico immediato, deve essere acquisito all'attivo del fallimento dell'assicurato il diritto di credito per indennizzo assicurativo, senza che rilevi l'esistenza o meno di una richiesta del danneggiato nei confronti dell'assicurato danneggiante o l'accertamento del relativo obbligo; tali circostanze incidono, infatti, sulla liquidità ed esigibilità del credito ma non sulla sua esistenza in quanto la situazione giuridica attiva dell'assicurato sussiste sin dal momento della stipula del contratto di assicurazione; ne consegue che, intervenuto il fallimento, l'assicuratore non può esercitare la facoltà di pagare direttamente al terzo danneggiato, incompatibile con le regole del concorso sui beni del danneggiato (Cass. n. 11228/2000).

Con riferimento al marchio di proprietà di terzi al momento della dichiarazione di fallimento, si è ritenuto (Cass. n. 2493/1998) che in tema di fallimento, il terzo che affermi la titolarità di diritti reali su di un bene (nella specie, proprietà di un marchio commerciale) oggetto di disposizione da parte del curatore (previo decreto autorizzativo del giudice delegato) è tutelato attraverso il rimedio endofallimentare di cui all'art. 103 l.fall. (domanda di separazione della cosa), a prescindere da qualsiasi vizio del decreto — emesso dal giudice delegato ai sensi dell'art. 106 legge cit. (formulazione ante riforma) — contro il quale il reclamo al tribunale, ex art. 26 l.fall., ed il conseguente ricorso per cassazione avverso il provvedimento di quest'ultimo organo, deve ritenersi «iter» processuale esperibile nel solo caso in cui la doglianza (id est, l'opposizione) ricalchi la tipologia delle fattispecie di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c., e non anche quando si faccia valere, come terzo, un diritto (che, nell'esecuzione singolare, sarebbe tutelabile ex artt. 619 — 620 c.p.c.), per il quale la legge abbia predisposto altro, apposito e peculiare strumento di tutela (stabilendo, tra l'altro, che il giudice delegato possa sospendere la vendita delle cose rivendicate: art. 103, comma terzo, l.fall.). Né può assumere rilevanza la (eventuale) circostanza della non inventariazione del marchio tra i beni del fallito, riguardando tale questione il merito della vicenda (e, cioè, la stessa legittimità, rispettivamente, del decreto del giudice delegato autorizzativo alla vendita, e della vendita stessa disposta dal curatore), mentre, parallelamente, in relazione al negozio di alienazione stipulato dal curatore è legittimamente esperibile il rimedio extrafallimentare della ordinaria azione di cognizione, tesa alla invalidazione del contratto nei confronti del terzo acquirente (parte necessaria dell'instaurato giudizio), senza che possa assumere rilievo, in contrario, giusto disposto degli artt. 2919 — 2920 c.c., la circostanza che si tratti di negozio stipulato in sede di liquidazione dell'attività fallimentare.

Il regime dei beni sopravvenuti in pendenza di fallimento

Il secondo comma dell'art. 42 l.fall. disciplina i limiti dell'apprensione all'attivo fallimentare dei beni pervenuti al debitore successivamente alla dichiarazione di fallimento.

L'effetto di cristallizzazione, dunque, riguarda il passivo, cioè l'ammontare dei debiti dell'imprenditore fallito, non l'attivo, che può essere costituito anche da beni che sopravvengono rispetto alla dichiarazione di fallimento.

In dottrina vi è chi mette in risalto l'acquisibilità di tali beni al fallimento e, dunque, scorge in tale disposizione un'applicazione del principio di responsabilità patrimoniale, secondo il quale il debitore risponde delle sue obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri.

In giurisprudenza si è precisato che deve riconoscersi al curatore la legittimazione ad appropriarsi immediatamente di tutte le somme affluite su di un conto corrente del fallito in epoca successiva al fallimento e delle quali non risulti provato il titolo di acquisizione (somme da ritenersi «beni sopravvenuti al fallito in corso di fallimento», ex art. 42, secondo comma, l.fall.), mentre la banca convenuta per la restituzione delle somme stesse può opporre, in via di eccezione (restando, per l'effetto, onerata della relativa prova), che le rimesse sul conto abbiano costituito provento della gestione di un'attività d'impresa esercitata dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento, sicché (trattandosi di beni pervenuti a quest'ultimo durante il corso della procedura fallimentare) dall'importo dei versamenti debbono essere detratti i pagamenti eseguiti a terzi mediante assegni bancari tratti sul conto «de quo», quali passività sostenute dal fallito per la produzione del reddito affluito sul conto stesso (Cass. n. 8274/2002).

Ancora, il versamento su un conto corrente del fallito, in pendenza del fallimento, di somme delle quali non sia provato il titolo di acquisizione, importa che dette somme costituiscono bene sopravvenuto al fallito nel corso del fallimento e, pertanto, si considerano automaticamente acquisite alla massa, ai sensi dell'art. 42, secondo comma, legge fallimentare.

La banca, pertanto, è tenuta a restituirle al fallimento che ne faccia richiesta, senza poter dedurre l'ammontare dei pagamenti che essa su ordine del fallito ha eseguito a favore di terzi (ove non provi che i pagamenti effettuati dal fallito a mezzo assegni tratti sul conto corrente costituissero costi sostenuti per realizzare il reddito confluito sul conto) e senza poter invocare esonero da responsabilità per il fatto di aver osservato gli obblighi previsti dall'art. 124 r.d. n. 1736/1934 (introdotto dall'art. 141 l. n. 689/1981 e modificato dall'art. 6 l. n. 386/1990) nella consegna al cliente dei moduli di assegno bancario, atteso che la finalità di queste ultime disposizioni è solo quella di rafforzare l'attuazione del divieto di emissione di assegni da parte di soggetti per i quali è stabilito il divieto (Cass. n. 10056/1995).

Circa il meccanismo di acquisizione dei beni sopravvenuti, in giurisprudenza si è stabilito che il legislatore – disponendo che sono compresi nel fallimento i beni che pervengono al fallito durante il fallimento – ha sottinteso che il bene sopravvenuto è automaticamente acquisito al fallimento, tanto più che l'intento di realizzare la garanzia patrimoniale dei creditori anche con i beni sopravvenuti dopo il fallimento deve confrontarsi con i costi che tale acquisto e/o conservazione comporta, sicché il curatore può rinunciarvi laddove i medesimi costi siano superiori ai benefici ricavabili (Trib. Roma 17 aprile 2012, n. 7620).

Si discute come operi l'acquisizione dei beni sopravvenuti, se cioè essa sia automatica e prescinda dalla volontà degli organi fallimentari o se, invece, sia l'oggetto di un diritto potestativo esercitabile con lo strumento dell'art. 25 comma 1 n. 2 l.fall.

La giurisprudenza è tradizionalmente orientata a ritenere l'acquisto dei beni sopravvenuti come automatico, mentre il pagamento delle spese inerenti all'acquisto dovrebbe avvenire mediante un procedimento di liquidazione in sede fallimentare, secondo i dettami dell'attuale art. 111-bis l.fall. (per tutte, Cass. n. 2012/1975).

Tali spese, o meglio obbligazioni non ancora soddisfatte, contratte in funzione dell'acquisto dei detti beni, trovano correlativi crediti in capo a coloro che tali acquisti abbiano reso possibili mediante atti negoziali.

Tali crediti non sarebbero da considerarsi concorsuali, in quanto nati non prima della dichiarazione di fallimento.

Non sarebbero nemmeno da considerarsi post-concorsuali, e quindi sottratti al procedimento di verifica del passivo, come quelli, ad esempio, relativi a corrispettivi di lavori o servizi effettuati a favore del soggetto fallito dopo la dichiarazione di fallimento.

Tali crediti, in vero, possono essere fatti valere direttamente contro l'amministrazione fallimentare (ed in questo senso sarebbero prededucibili), quasi fossero il corrispettivo che l'amministrazione fallimentare dovrebbe pagare per aver di fatto trovato «incrementato» l'attivo fallimentare dopo la dichiarazione di fallimento.

Tale corrispettivo non potrebbe essere considerato una «spesa», o meglio una «uscita» specificamente imputabile al bene oggetto di acquisto post fallimentare: la logica dei conti speciali ex art. 111-ter l.fall., infatti, appartiene alle spese di conservazione e di gestione dei beni, non a quelle legate al loro acquisto.

Il credito legato all'acquisto di un bene dopo la dichiarazione di fallimento, dunque, andrebbe soddisfatto sì in prededuzione, prima cioè dei crediti concorsuali aventi radice in fatti o atti anteriori alla dichiarazione di fallimento, ma non sarebbe assistito da alcun privilegio speciale che non sia stabilito dalla legge in base alla natura del bene acquisito al fallimento; non sarebbe, inoltre, assistito da prelazione ipotecaria sul bene immobile che non fosse quella legale dell'alienante ex art. 2817, comma 1, n. 1 c.c.

In dottrina, le posizioni appaiono più variegate.

Un primo orientamento distingue l'acquisizione dallo spossessamento effettivo.

La prima opererebbe ex iure: basterebbe, in tale ottica, che i beni pervengano nella titolarità del fallito per essere attratti alla massa attiva del fallimento. Lo spossessamento effettivo del fallito, con riferimento ai suddetti beni, avverrebbe, poi, in un momento successivo, e sarebbe in ogni caso subordinato alla liquidazione, extrafallimentare, al di fuori, cioè, del procedimento per l'accertamento e la liquidazione dei crediti prededucibili, delle passività inerenti ad essi (Vernarecci di Fossombrone, 137-138).

Tale ricostruzione, sebbene abbia il merito di mettere in luce la circostanza, evincibile dal tenore del secondo comma dell'art. 42 l.fall., che «la deduzione» delle passività incontrate per l'acquisto e la conservazione, prima dell'apprensione alla massa fallimentare, dei beni sopravvenuti sia tecnicamente un onere all'adempimento del quale è subordinata «la ricomprensione» di essi nell'attivo fallimentare, e che, dunque, l'eventuale pagamento di tali costi, precedendo logicamente la «ricomprensione» nella massa, debba avvenire al di fuori della procedura fallimentare (al di fuori, cioè, del procedimento ex art. 111-bis l.fall.), evidenzia una contraddizione intrinseca, in quanto distingue l'acquisizione alla massa, che avverrebbe ope legis, dallo spossessamento, che avverrebbe previo il pagamento dei costi per l'acquisto e per la conservazione dei beni.

Tale distinzione appare artificiosa, in quanto se l'acquisizione è automatica, allora la sua radice bisogna individuarla nella sentenza dichiarativa di fallimento, che priva altresì il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, con l'unica precisazione che quest'effetto di privazione non potrà, con riguardo ai beni sopravvenuti, prodursi se non nel momento in cui il fallito divenga successivamente titolare di tali beni, visto che fin quando egli non ne sia titolare non si può nemmeno parlare di una loro attrazione alla massa attiva del fallimento.

In altri termini, se un effetto di spossessamento si verifica al momento della sentenza dichiarativa di fallimento con riferimento ai beni di cui il fallito sia titolare a quell'epoca, coerentemente dovrebbe dirsi che con riferimento ai beni sopravvenuti nel patrimonio del fallito, se se ne predica un'acquisizione automatica al fallimento, quello stesso effetto di spossessamento deve logicamente prodursi nel momento in cui il fallito ne acquisti a sua volta la titolarità, sicché delle due l'una: o l'attrazione alla massa del fallimento è automatica, e allora la deduzione delle passività per l'acquisto e la conservazione dovrà per forza avvenire all'interno della procedura fallimentare, con il meccanismo dell'art. 111-bis l.fall.; o quell'acquisizione non è automatica e deriva da una scelta degli organi fallimentari, i quali, se ritengono di ricomprendere quei beni nel fallimento, avranno l'onere di liquidare quelle passività fuori dalla procedura fallimentare (e fuori dal meccanismo di accertamento dei crediti prededucibili ex art. 111-bis l.fall.), prima di poterli apprendere alla massa.

Orbene, per ricostruire attendibilmente il meccanismo di acquisizione alla massa dei beni sopravvenuti, si deve necessariamente interpretare il secondo comma dell'art. 42 l.fall. alla luce del comma successivo: spetta al curatore, in tale ottica ricostruttiva, su autorizzazione del comitato dei creditori (o del g.d., in via surrogatoria), scegliere se acquisire i beni sopravvenuti alla massa oppure rinunciarvi (Jaeger e Sacchi, 12).

Il criterio per l'esercizio di tale scelta è fissato nel terzo comma dell'articolo in questione: l'entità del valore di presumibile realizzo di quei beni rispetto ai costi per l'acquisto e per la loro conservazione.

Sicché, se quel valore supera i detti costi in un'ottica prospettica e prudenziale, il curatore, su autorizzazione dell'organo di controllo, potrà ricomprenderli nella massa attiva, liquidando senza alcuna formalità le spese necessarie all'acquisto e quelle resesi necessarie per conservare l'integrità dei beni fino al momento dell'attrazione alla massa attiva; se, invece, le spese necessarie all'acquisto, alla conservazione dei beni fino al momento dell'attrazione alla massa e quelle stimate come necessarie alla conservazione fino al momento di presumibile liquidazione dei beni superano il valore di presumibile realizzo degli stessi, il curatore, sempre su autorizzazione dell'organo di controllo, potrà rinunciare alla loro acquisizione al fallimento (in una prospettiva per la quale a decidere sarebbe il Giudice delegato, cfr. Minervini, 52, II, 298 ss.).

In entrambi i casi, dunque, la legge attribuisce al curatore un diritto potestativo, che nel caso dell'acquisto è subordinato all'adempimento di un onere economico da soddisfarsi al di fuori delle regole formali che presiedono all'accertamento del passivo.

Bibliografia

Fabiani, Diritto fallimentare. Un profilo organico, Bologna, 2011; Jager e Sacchi, Fallimento (effetti per il fallito), in Enc. giur, Roma, 2010; Pajardi-Paluchovsky, Manuale di diritto fallimentare, Milano 2008; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, Milano, 1974; Rocco di Torrepadula, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma. Commentario diretto da Jorio e coordinato da Fabiani, Bologna, 2010; Satta, Diritto fallimentare, Padova, 1996; Semiani Bignardi, La ritenzione nell'esecuzione singolare e nel fallimento, Padova, 1960; Vernarecci di Fossombrone, Capacità commerciale del fallito e fallimento plurimo, Milano, 1958.

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