Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 37 - Revoca del curatore.

Alessandro Farolfi

Revoca del curatore.

 

Il tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il curatore.

Il tribunale provvede con decreto motivato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori 1.

Contro il decreto di revoca o di rigetto dell'istanza di revoca, è ammesso reclamo alla corte di appello ai sensi dell'articolo 26; il reclamo non sospende l'efficacia del decreto 2.

Inquadramento

La norma non può essere rettamente intesa se non attraverso una lettura coordinata con il novellato art. 23 l.fall. Infatti, il primo comma dell'art. 37 recita «il tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il curatore» sembrando così configurare un potere totalmente discrezionale e non controllabile del tribunale fallimentare. Tuttavia così non è, se si considera che, appunto, l'art. 23, comma 1 afferma che il tribunale «provvede alla nomina ed alla revoca o sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura». Quindi, la revoca non può essere l'effetto dell'esercizio di un potere imperscrutabile e non verificabile, se si considera che la stessa deve muoversi sulla scorta di motivi che siano giustificati e deve tradursi, conseguentemente, in un decreto motivato (così il secondo comma della norma in commento, come modificato dal d.lgs. n. 5/2006) che può essere sottoposto a reclamo ex art. 26 l.fall. davanti alla corte d'appello, così come prevede il nuovo ultimo comma dell'art. 37. Sulla scorta di tali modifiche si è sostenuto in dottrina l'esistenza di un vero e proprio diritto soggettivo del curatore alla conservazione dell'incarico (Nigro – Vattermoli, 106; Vassalli, 270), ma si tratta di una opinione che non risulta maggioritaria ed è contrastata dalla prevalente giurisprudenza, ove si mette piuttosto in luce il carattere di munus publicum dell'incarico, con la conseguente configurabilità di un mero interesse alla conservazione della carica, tutelabile soltanto nella misura in cui esso coincida con il più generale interesse dei creditori e con il buon andamento della procedura concorsuale.

Si è recentemente affermato che la legge fallimentare novellata pone un limite alla discrezionalità del tribunale fallimentare nel rimuovere il curatore dall'incarico, stabilendo, all'art. 23, che la revoca possa avvenire solo «per giustificati motivi» e prevedendo, all'art. 37, che il decreto di revoca sia motivato e sia soggetto a reclamo ai sensi dell'art. 26 (Cass. n. 5094/2015). Non appare perciò condivisibile l'affermazione secondo cui non può essere ammesso il reclamo avverso il decreto adottato dal tribunale fallimentare di revoca dell'incarico di curatore fallimentare, trattandosi di provvedimento non decisorio, bensì di natura amministrativa e ordinatoria privo di portata decisoria su posizioni di diritto soggettive (App. Lecce, 29/06/2015); piuttosto deve condividersi quell'orientamento che, proprio perché non ricollega al mantenimento della carica un vero diritto soggettivo del curatore, esclude il ricorso in Cassazione avverso il provvedimento emesso dalla Corte d'appello in sede di reclamo ex art. 26 l.fall., ritenendo che lo stesso corrisponda ad un atto di amministrazione: perciò non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, anche secondo la vigente disciplina della legge fallimentare, il decreto con cui la corte d'appello, in sede di reclamo, respinge l'istanza avverso il provvedimento di revoca dall'incarico di curatore (Cass. n. 5094/2015).

Motivi di revoca

Come si è visto, il potere di revoca del tribunale, anche ove si propenda per l'assenza di un diritto soggettivo del curatore a rimanere tale, non può essere esercitato in modo capriccioso od immotivato. Infatti, dal punto di vista sostanziale, la revoca deve avvenire per giustificati motivi e, dal punto di vista formale, ciò deve tradursi in un decreto motivato. Solo in questo modo ne risulta garantita la reclamabilità ed il possibile riesame da parte della Corte d'appello. In via preventiva la norma specifica altresì che occorre tutelare il rispetto del contraddittorio: infatti il decreto di revoca può essere adottato solo dopo aver sentito il curatore. L'espressione «sentito» si ricollega da un lato alla natura camerale del procedimento e, dall'altro, corrisponde ad una interlocuzione priva di formalità essenziali, dovendo ritenersi che pur se normalmente il decreto sarà adottato dopo una udienza fissata per l'audizione del Curatore (non necessariamente davanti al collegio ma anche semplicemente davanti al g.d.), non risulta vietato che il Curatore venga chiamato a relazionare per iscritto, potendo a quel punto il decreto di revoca essere adottato anche senza una apposita udienza di discussione. Ciò posto, i giustificati motivi che possono portare alla revoca del curatore si possono ricondurre a due grandi categorie. Rilevano in primo luogo motivi di carattere soggettivo, come la perdita dei requisiti professionali indicati nell'art. 28 o la scoperta di una situazione di conflitto di interessi con la procedura o, ancora, la scoperta di comportamenti che possono aver comportato un concorso causale del soggetto alla determinazione del dissesto (circostanza che oggi rileva in modo assoluto e senza limiti di tempo a ritroso). Si discute, anzi, con riferimento alla perdita delle qualità professionali se ciò comporti un caso di decadenza automatica dalle funzioni di curatore oppure determini un giustificato motivo di revoca per la cui applicazione si richiede pur sempre un provvedimento positivo del tribunale. Rientrano inoltre fra i motivi di revoca situazioni di carattere oggettivo, quali comportamenti posti in essere in violazione di legge (anche a prescindere da un atteggiamento doloso al riguardo) come l'omesso deposito tempestivo di somme riscosse, ex art. 34 l.fall. o l'adempimento negligente dei doveri incombenti sul curatore (si ricorda che l'art. 38 prevede un obbligo di diligenza qualificato, parlando di diligenza connaturata all'incarico, e non certo parametrata a quella dell'uomo medio (come invece ad es. richiede l'art. 1710 parlando di diligenza del bonus pater familias e pur se la giurisprudenza ne adotta una interpretazione più severa in caso di mandato oneroso). Possono però rilevare anche ragioni di opportunità o che abbiano compromesso il rapporto fiduciario fra l'organo giudiziario ed il curatore (si pensi ad un contrasto non episodico fra curatore e g.d., ad una conflittualità non risolubile con il comitato dei creditori, che ad es. non abbia approvato la proposta di programma di liquidazione ex art. 104-ter). Non va dimenticato che la revoca può avvenire anche d'ufficio, ad esempio nell'esercizio da parte del tribunale del potere di audizione dello stesso, del fallito o del comitato dei creditori. Chi si orienta per l'esistenza di un vero diritto soggettivo del curatore al mantenimento della carica, ritiene che una revoca non motivata possa comportare altresì un diritto risarcitorio in capo al curatore (Vassalli, 272), ma in contrario si può rilevare che proprio l'introduzione della reclamabilità del provvedimento di revoca costituisce strumento di tutela che rende difficile in concreto la configurabilità di un danno risarcibile: infatti se il decreto fosse immotivato ed il reclamo accolto, questo restituisce il curatore nella pienezza delle sua funzioni, con tutte le difficoltà ad individuare un danno medio tempore cristallizzatosi, nonché lo stesso legittimato passivo; se invece il reclamo fosse respinto, si avrebbe una conferma della legittimità del provvedimento di revoca con conseguentemente esclusione dell'ingiustizia del danno subito. La riforma del 2015 operata con il d.l. n. 83/2015 (successivamente convertito con l. n. 132/2015) ha previsto quale giusta causa di revoca, al fine di accelerare la fase della liquidazione e ridurre la durata complessiva delle procedure, la circostanza che il curatore non presenti il programma di liquidazione entro il termine di 180 giorni dalla pronuncia di fallimento, ovvero non esaurisca senza un giustificato motivo la fase della liquidazione entro 2 anni dalla sentenza di fallimento (o entro il diverso termine motivatamente indicato dal curatore nel programma stesso). Il più recente d.l. n. 59/2016 (convertito con modd. con legge n. 119/2016) ha aggiunto a tali ipotesi il mancato rispetto dei termini per effettuare, in presenza di somme disponibili, i periodici riparti parziali previsti dall'art. 110 l.fall.

Si è ritenuto giustificato motivo di revoca il caso del curatore che abbia criticato duramente nella propria relazione ex art. 33 l.fall. la stessa sentenza di fallimento (Trib. Bologna, 8 maggio 1984); si è altresì affermato che la revoca non richiede veri e propri inadempimenti del curatore ma può basarsi su mere ragioni di opportunità (Trib. Roma, 20 aprile 1995). Si è altresì affermato che integrano violazione dei doveri connessi all'ufficio di curatore — come tali legittimanti la revoca dell'incarico — sia il ritardo nelle operazioni di stima degli immobili appresi al fallimento (nel caso di specie, operazioni non ancora ultimate a distanza di due anni dall'apertura della procedura), sia il mancato riparto ai creditori, da effettuarsi ogni quattro mesi ai sensi dell'art. 110 l.fall., delle somme già facenti parte dell'attivo, risultando in tal modo compromesso l'interesse dei medesimi a conseguire quanto prima la liquidazione dell'attivo (Trib. Forlì, 29 gennaio 2015). Al curatore revocato deve essere riconosciuto il compenso per l'opera prestata (Cass. n. 7778/1999), ma tale compenso può essere accantonato e non erogato ove venga accertata una sua responsabilità ex art. 38 l.fall. (Cass. n. 13805/2013).

Dimissioni

Si discute se il curatore possa liberamente presentare le proprie dimissioni e, addirittura, neppure motivarle, ovvero debba limitarsi (atteso che le dimissioni nono sono formalmente disciplinate) a richiedere la propria sostituzione al tribunale, che deciderà discrezionalmente valutando in primo luogo gli interessi della procedura. Secondo un indirizzo (Abete, 623) le dimissioni volontarie sarebbe sicuramente da ammettere, ma il tribunale avrebbe la possibilità di verificarne anche d'ufficio il carattere arbitrario oppure fondato su una qualche giusta causa, potendo altresì ritenerlo responsabile – in caso di dimissioni rivelatesi ingiustificate – per i danni che abbia provocato alla procedura, secondo un principio ricavabile da quanto previsto dall'art. 1727 comma 1 c.c. per il mandatario. In tal caso, ovviamente, l'azione di responsabilità ai suoi danni sarà esercitata dal nuovo curatore nominato in sostituzione.

Decesso e chiusura del fallimento

La dottrina tradizionale annovera fra le cause di cessazione dell'ufficio di curatore anche il decesso (si porrà in tale ipotesi il problema della liquidazione del compenso a favore degli eredi del professionista defunto) liquidazione che, di regola, soltanto al termine della procedura e quindi unitamente a quello del curatore subentrato, salvi eventuali acconto, così come previsto in linea generale dall'art. 39). Inoltre, anche la chiusura del procedimento fallimentare determina la cessazione delle funzioni di curatore, al momento della definitività del decreto che dispone la chiusura medesima. Due casi particolari vanno ricordati in modo specifico: a) in caso di chiusura del fallimento mediante concordato fallimentare, la definitività del provvedimento di omologa non determina l'immediata cessazione dalle funzioni; infatti, da un lato l'art. 130 l.fall. prevede che il curatore debba a quel punto presentare il proprio rendiconto e solo successivamente il tribunale dichiarerà chiuso il fallimento, salva la permanenza di un ruolo minore del curatore, tenuto a sorvegliare l'esecuzione della proposta concordataria; b) in secondo luogo, il nuovo art. 118 l.fall. contempla la possibilità per il tribunale di disporre la chiusura della procedura, dopo un riparto a favore dei creditori, se vi sono dei giudizi pendenti e la liquidazione è altrimenti terminata. La miniriforma del 2015 ha infatti interpolato il secondo comma di detta disposizione, prevedendo che la chiusura della procedura di fallimento nel caso di cui al n. 3) non è impedita dalla pendenza di giudizi, rispetto ai quali il curatore può mantenere la legittimazione processuale, anche nei successivi stati e gradi del giudizio, ai sensi dell'articolo 43. In deroga all'articolo 35, anche le rinunzie alle liti e le transazioni sono autorizzate dal giudice delegato. Le somme necessarie per spese future ed eventuali oneri relativi ai giudizi pendenti, nonché le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti provvisoriamente esecutivi e non ancora passati in giudicato, sono trattenute dal curatore secondo quanto previsto dall'articolo 117, comma secondo. Dopo la chiusura della procedura di fallimento, le somme ricevute dal curatore per effetto di provvedimenti definitivi e gli eventuali residui degli accantonamenti sono fatti oggetto di riparto supplementare fra i creditori secondo le modalità disposte dal tribunale con il decreto di cui all'articolo 119. In relazione alle eventuali sopravvenienze attive derivanti dai giudizi pendenti non si fa luogo a riapertura del fallimento. Si tratta quindi di un caso in cui alla formale chiusura della procedura non segue la cessazione dalle funzioni del curatore, che resta in carica con funzioni ridotte, sorvegliando l'andamento del o delle cause pendenti, mantenendo la relativa legittimazione processuale, provvedendo infine a distribuire l'eventuale ricavato di detti giudizi previo, si deve ritenere secondo le prime prassi applicative, un ulteriore rendiconto del periodo successivo alla formale chiusura.

Bibliografia

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