Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 97 - Comunicazione dell'esito del procedimento di accertamento del passivo 1 .Comunicazione dell'esito del procedimento di accertamento del passivo1.
Il curatore, immediatamente dopo la dichiarazione di esecutivita' dello stato passivo, ne da' comunicazione trasmettendo una copia a tutti i ricorrenti, informandoli del diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda. [1] Articolo sostituito dall'articolo 82 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e, successivamente, dall' articolo 17, comma 1, lettera g), del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179. Per l'applicazione del presente comma vedi quanto disposto dai commi 4 e 5 del medesimo articolo 17. InquadramentoLa decisione del giudice delegato può essere di accoglimento, di rigetto (in tutto o in parte) ovvero di inammissibilità della domanda di ammissione o di rivendicazione/restituzione. In caso di accoglimento della domanda di ammissione di un credito, l'art. 96, comma 2, nel testo successivo alla riforma del 2006, stabiliva che il giudice dovesse indicare anche il grado dell'eventuale diritto di prelazione. La norma, tuttavia, è stata abrogata dal decreto correttivo del 2007, posto che – come osservato nella relazione – il grado di privilegio eventualmente riconosciuto discende direttamente dalla legge. L'art. 390 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, dispone: sono definiti ancora con le norme del r.d. n. 267/1942 i ricorsi per l'apertura del concordato preventivo depositati prima dell'entrata in vigore del d.lgs. (15 luglio 2022); sono definite secondo le norme del r.d. n. 267/1942 le procedure di concordato preventivo pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. nonchè le procedure aperte a seguito della definizione dei ricorsi e delle domande di concordato preventivo. La decisione del Giudice delegato: la motivazioneNella disciplina originaria, il giudice delegato aveva il dovere di motivare il decreto solo in caso di rigetto totale o parziale della domanda. Nella prima versione della riforma, il giudice delegato doveva motivare il decreto solo in caso di contestazione del curatore: e quindi, anche in caso di accoglimento ove il curatore avesse contestato la domanda. Il decreto correttivo, infine, ha previsto che il decreto deve sempre essere, sia pur succintamente, motivato, con la concisa indicazione delle ragioni di fatto e di diritto poste dal giudice a fondamento della decisione assunta. Il difetto di motivazione, tuttavia, non determina la nullità del decreto (e l'automatica ammissione al passivo del credito esclsuo con decreto privo di motivazione) ma solo un vizio da far valere nelle forme dell'opposizione allo stato passivo (Nardone, 2010, 1238). L'ammissione con riservaL'art. 96, al comma 3, prevede (come già l'art. 95, commi 2 e 3, nel testo previgente) che il giudice delegato dispone l'ammissione con riserva: - dei crediti sottoposti a condizione e di quelli di cui all'art. 55, comma 3, l.fall.; - dei crediti per i quali la mancata produzione del titolo dipende da fatto non imputabile al creditore (e perciò non allegato nella domanda, né prodotto in seguito in udienza), salvo che la produzione non avvenga entro il termine assegnato dal giudice; - dei crediti accertati con sentenza, del giudice ordinario o del giudice speciale, pronunciata prima del fallimento ma, in quel momento, non ancora definitiva. L'esplicito rinvio contenuto nella norma alle altre ammissioni con riserva «nei casi stabiliti dalla legge» induce a ritenere che le ipotesi di ammissione riservata sono tassative e, per l'effetto, che le riserve cd. atipiche non sono più consentite. La norma prevede, quindi, tre ipotesi di ammissione con riserva. La prima riguarda i crediti sottoposti a condizione (sospensiva o, come per lo più si ritiene, risolutiva: Cass. 8428/1998; Nardone, 1241; in senso contrario, Guizzi, 302), cui sono equiparati i crediti che non possono essere fatti valere se non dopo l'escussione di un obbligato principale, come il credito del fideiussore quando sia stato pattuito il beneficium excussionis (non rientrandovi, quindi, i crediti futuri solo eventuali: Cass. n. 8428/1998): la riserva, in tal caso, riguarda la verificazione dell'evento dedotto in condizione. La seconda conserne i crediti per i quali la mancata produzione del «titolo» dipende da fatto non imputabile al creditore: la riserva, in tal caso, riguarda la produzione del documento contenente il titolo del diritto. La terza, infine, ha per oggetto i crediti «accertati» con sentenza (del giudice ordinario o di un giudice speciale), pronunciata prima del fallimento, secondo le norme che di volta in volta la riguardano, e, come tale, opponibile alla procedura, ma, al momento dell'apertura del concorso, non definitiva e perciò impugnabile. I creditori ammessi con riserva hanno il diritto all'accantonamento delle quote in caso di ripartizioni parziali (art. 113, n. 1, l.fall.) ed il diritto di voto nel concordato fallimentare (art. 127, comma 1, l.fall.). Nei casi di ammissione con riserva della condizione (art. 96, comma 3, n. 1) o dell'impugnazione della sentenza (art. 96, comma 3, n. 3), i creditori, nel caso in cui al momento del riparto finale la condizione non si è verificata o il provvedimento non è ancora passato in giudicato, hanno il diritto al deposito delle sommme (art. 117, comma 3, l.fall.). a. L'ammissione con riserva in caso di crediti condizionali. L'ipotesi riguarda i crediti sottoposti a condizione e di quelli di cui all'art. 55, comma 3, l.fall., cui si rinvia. L'apposizione della condizione rientra, peraltro, nei poteri officiosi del giudice di merito, il quale, pertanto, acogliendo la domanda, può sia apporvi una condizione prevista dalla legge e risultante dagli atti, sia rettificare l'indicazione della circostanza condizionanante erroneamente prospettata dalla parte ricorrente (Cass. n. 24539/2013). b. La riserva di produzione dei documenti. L'ipotesi è già stata esaminata sub art. 95 (5.4.), cui si rinvia. c. La riserva sui crediti accertati con sentenza non definitiva. Nel caso in cui il crediti risulta accertato con sentenza pronunciata prima della dichiarazione di fallimento ma, in quel momento, non ancora passata in giudicato, il giudice lo ammette al passivo con riserva dell'impugnazione. Il curatore, quindi, con la dovuta autorizzazione, ha la facoltà (e non l'obbligo: Nardone, 1244) di impugnare la sentenza o proseguire il giudizio di impugnazione già proposto dal fallito. La riserva, infine, è sciolta all'esito della scadenza del termine per l'impugnazione ovvero all'esito dell'impugnazione stessa. Si tratta, a ben vedere, di un'eccezione alla regola dell'esclusività del giudizio di verificazione poiché, in definitiva, l'accertamento (dell'an e del quantum) del credito è rimesso al giudizio di impugnazione della sentenza ed al rito cui lo stesso è assoggettato. L'ammissione con riserva, infatti, presuppone, in tale ipotesi, che il curatore contesti l'esistenza del credito o la validità del titolo da cui deriva, proponendo, appunto, impugnazione avverso la sentenza o proseguendo l'impugnazione già proposta dal fallito. Se, però, il curatore intenda contestare solo l'efficacia del titolo ex artt. 64 ss. l.fall., il credito deve essere escluso senza necessità di impugnazione (Cass. I, ord. n. 3778/2019). Se, infine, il curatore intende contestare sia la validità del titolo o l'esistenza del credito sia la sua efficacia verso i creditori, occorre escludere il credito e proporre l'impugnazione della sentenza. In tale ipotesi, può accadere che pendano due giudizi: quello di impugnazione avverso la sentenza proposto dal curatore, che riguarda l'esistenza del credito o la validità del titolo, e quello di opposizione proposto dal creditore, che riguarda solo l'efficacia del credito nei confronti dei creditori, con tutte le possibile interferenze, da risolvere sulla base dell'interesse ad agire, per cui: se il credito è definitivamente escluso in sede di impugnazione, anche il giudizio di opposizione (relativo all'opponibilità del credito) non può più proseguire, mentre, se l'opponibilità del credito è definitivamente esclusa in sede fallimentare, il curatore non ha più interesse a proseguire il giudizio di impugnazione. La norma in esame è interpretata estensivamente, trovando, quindi, applicazione, oltre che nel caso in cui il giudice (ordinario o speciale) ne abbia accertato l'esistenza, anche nel caso in cui il giudice (ordinario o speciale) ne abbia accertato l'inesistenza, in tutto o in parte. Secondo l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, infatti, tale disposizione, pur se dettata per l'ipotesi di accoglimento della domanda proposta dal creditore, dev'essere interpretata, in coerenza con il principio della ragionevole durata del processo, in modo da includervi anche l'ipotesi del rigetto (anche solo parziale) della domanda con sentenza non ancora passata in giudicato, con la conseguenza che il creditore, che voglia evitarne il passaggio in giudicato ed ottenere l'ammissione del proprio credito al passivo del fallimento, è tenuto ad impugnarla nei confronti del curatore, il quale è legittimato non solo a proporre l'impugnazione, ma anche a resistervi (Cass. n. 26041/2010; Cass. n. 5113/2008; Cass. n. 18088/2007; Cass. n. 24847/2011; conf., più di recente, Cass. n. 15796/2015). Pertanto, ove, a seguito dell'impugnazione della sentenza di rigetto (anche parziale) della domanda da parte del creditore, il giudizio, interrottosi per la dichiarazione di fallimento del debitore, sia proseguito dal curatore o nei confronti dello stesso, la sentenza di accertamento del credito eventualmente emessa in riforma di quella di primo grado spiega efficacia nei confronti del fallimento, allo stesso modo di quella di rigetto dell'impugnazione proposta o proseguita dal curatore, in caso di accoglimento della domanda in primo grado (Cass. n. 26041/2010; Cass. n. 7025/2012). Il rapporto tra la norma di cui al nuovo art. 96, n. 3, e l'art. 113-bis l.fall., sarebbe, invece, stravolto qualora il giudice del gravame, la cui decisione è considerata alla stregua di una condizione al cui verificarsi è collegato lo scioglimento della riserva, dovesse sospendere il processo ex art. 295 c.p.c. ovvero ritenesse la continenza con il procedimento di verifica del passivo che, in relazione al credito oggetto del giudizio di gravame, si è, in realtà, già concluso con un provvedimento di ammissione condizionato, ossia l'ammissione con riserva. La disciplina dettata dall'art. 96 l.fall., per contro, è proprio nel senso di favorire la continuazione del giudizio ordinario già pendente nel quale sia stata pronunciata già una sentenza, di accoglimento o di rigetto della pretesa del creditore della parte dichiarata fallita. Nello stesso modo, è illegittima l'ordinanza di sospensione ex art. 295 c.p.c. del procedimento di ammissione al passivo, nelle more della definizione del giudizio di appello (Cass. n. 17834/2013). Il presupposto per l'applicazione della norma è che la sentenza sia stata pronunciata, con il deposito in cancelleria, prima del fallimento: l'esistenza della sentenza civile è, infatti, determinata dalla sua pubblicazione mediante deposito nella cancelleria del giudice che l'ha pronunziata, mentre il suo dispositivo è atto privo di rilevanza giuridica esterna e di definitività (Cass. n. 5585/1999). Ne consegue che solo con la pubblicazione la decisione diviene irretrattabile, dovendo il giudice applicare le norme sopravvenute alla deliberazione prima della pubblicazione (Cass. 5855/2000 e 5245/2009). Tuttavia, se si tratta del sentenza resa resa in un processo soggetto al rito del lavoro (ovvero ad uno dei riti ad esso legislativamente equiparati), l'anteriorità della pronuncia rispetto alla dichiarazione di fallimento deve valutarsi con riguardo alla data del suo dispositivo letto in udienza, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., che esprime l'accertamento giurisdizionale del credito, restandone, invece, irrilevante la posteriorità del deposito della relativa motivazione, con cui non può modificarsi quanto da esso deliberato (Cass n. 19335/2013). Se, infine, la sentenza è stata pronunciata a norma dell'art. 281-sexies c.p.c., occorre aver riguardo al momento della lettura della sentenza all'udienza di discussione (Spiotta, 2016, 2036, nt. 274). La norma presuppone che la sentenza sia stata pubblicata prima del fallimento e non sia in quel momento divenuta definitiva: non si applica, dunque, né al caso della sentenza pubblicata dopo la dichiarazione di fallimento, pur se rimessa in decisione in data anteriore, né al caso della sentenza che, prima del fallimento, sia divenuta definitiva. Quanto al primo caso, la deroga che la norma prevede non opera, infatti, al di fuori della sua espressa previsione, non solo perché la sua natura di eccezione a regola generale la rende di stretta interpretazione, ma anche perché, nonostante la concisa formulazione della norma, è chiaro che la sua ratio ispiratrice è improntata all'esigenza di evitare una retrocessione del processo, che consentirebbe peraltro il controllo su di una decisione già esistente, non già al giudice naturale del grado superiore, ma al giudice delegato. Se così è, è altrettanto chiaro che non può rientrare nel suo schema applicativo la diversa ipotesi in cui il titolo giudiziale si sia formato dopo l'apertura del fallimento, poiché questo caso è estraneo alla suddetta mens legis, ispirata come si è rilevato, all'esigenza di consentire che il processo ordinario già conclusosi prima del fallimento prosegua nelle sue forme, e la decisione che lo ha definito sia rimossa col suo mezzo tipico d'impugnazione previsto dalla legge, in modo da impedire che il suo accertamento diventi irretrattabile (cfr. Cass. n. 6167/1993). Quale che sia la scopo effettivo che il legislatore abbia inteso perseguire prevedendo suddetta deroga, che parte della dottrina ha ricondotto all'opportunità di evitare un probabile contrasto di giudicati, ed altra parte ad esigenza di economia processuale collegata alla necessità di mantenere gli effetti di decisioni già pronunciate, resta comunque pacifico ed indiscusso che essa opera solo con riguardo al caso in cui il credito portato in sede di ammissione al passivo emerga da sentenza già pronunciata prima del fallimento ed ancora impugnabile (Cass. 28481/2005). Quanto al secondo caso, la sentenza (di accertamento del credito verso il fallito) passata in giudicato prima del fallimento del debitore non è più impugnabile: ciò, peraltro, non esclude, da un lato, che la domanda di ammissione debba essere proposta e, dall'altro, che tale domanda, nei limiti in cui, naturalmente, l'accertamento giudiziale extrafallimentare non determini una preclusione pro iudicato, e cioè per ragioni diverse da quelle relative all'an e/o al quantum della pretesa accertata o alla validità del titolo, come accade, in particolare, nel caso in cui il curatore o il giudice rilevino l'inefficacia o la revocabilità del titolo costitutivo della pretesa, a norma degli artt. 64 ss. l.fall., e cioè, in definitiva, la sua inopponibilità alla massa (Valerio, 401; Spiotta, 2016, 2036, nt. 274; Cass. n. 7774/2012). La norma, infine, trova espressa applicazione non solo nel caso in cui la sentenza sia stata pronunciata, prima del fallimento del debitore, da un giudice ordinario, ma anche nel caso in sui sia stata resa da un giudice speciale, come il giudice tributario (Trib. Reggio Calabria 3 gennaio 2012, in Fall. 2012, 881). La norma è ritenuta applicabile anche al lodo rituale, in quanto equiparato alla sentenza ai sensi dell'art. 824-bis c.p.c. (Spiotta, 2016, 2039; Cass. n. 17891/2004), ed alle ordinanze pronunciate ai sensi degli artt. 186-ter e 186-quater c.p.c., nei casi in cui acquistino l'efficacia della sentenza (Didone, 1996, 159 ss), se, ovviamente, sono ancora suscettibili di impugnazione. La sentenza, infatti, ai fini della norma in esame, dev'essere, al momento della dichiarazione di fallimento, ancora impugnabile oppure dev'essere già stata impugnata. Se la sentenza ha accolto la domanda proposta dal creditore, è il curatore a dover proporre l'impugnazione (nei termini ordinari, con decorrenza dalla notificazione della sentenza o, in mancanza entro il termine previsto dall'art. 327 c.p.c., ma con decorrenza dalla conoscenza della sentenza, come nel caso in cui sia stata prodotta in sede di insinuazione al passivo) ovvero, una volta interrotto il relativo giudizio a norma dell'art. 43 l.fall., a riassumerlo nei confronti dell'altra parte. Se, invece, la sentenza ha rigettato la domanda proposta dal creditore, è quest'ultimo a doverla impugnare, nei termini ordinari, ovvero, una volta interrotto il giudizio a norma dell'art. 43 l.fall., riassumerlo nei confronti del curatore. Se, infatti, la sentenza è stata pronunciata prima del fallimento ma il relativo giudizio di impugnazione prosegue tra le parti originarie, la sentenza resta inter alios acta ed è, quindi, inopponibile alla procedura (cfr. Cass. n. 5494/2012, per cui la sentenza del giudice tributario emessa nei confronti di un soggetto fallito, allorché il giudizio sia stato intrapreso prima della dichiarazione di fallimento e sia proseguito fra le parti originarie, non può fare stato nei confronti del curatore rimasto estraneo alla lite, attesa la posizione di terzietà che questi assume nel procedimento di verifica — quale portatore dell'interesse della massa alla conservazione del patrimonio fallimentare — sia nei confronti dei creditori concorsuali sia nei confronti del fallito). Invece, se la sentenza pronunziata prima della dichiarazione di fallimento che dichiara l’esistenza di un credito nei confronti del fallito non è ancora passata in giudicato, il curatore è onerato di proporre o proseguire il giudizio di impugnazione; se l’onere è disatteso e sulla sentenza matura il giudicato, il credito va ammesso al passivo senza alcuna riserva (Cass. I, ord. n. 2949/2021). La norma non trova applicazione nel caso in cui il credito risulta da un decreto ingiuntivo non definitivo al momento del fallimento, pur se dichiarato provvisoriamente esecutivo, stante la sommarietà dell'accertamento del credito propria del rito monitorio, in contrapposizione alla cognizione piena del processo ordinario (cfr. Cass. n. 23202/2013; Cass. n. 6098/2006; Cass. n. 6085/2004; Cass. n. 3401/2013, per la quale, in tema di formazione dello stato passivo, ed alla stregua di quanto sancito dagli artt. 52 e 95 l.fall., ove sopravvenuta la dichiarazione di fallimento del debitore ingiunto nelle more del giudizio, da lui proposto, di opposizione a decreto ingiuntivo, detto decreto, in quanto privo della indispensabile natura di «sentenza impugnabile» esplicitamente richiesta dall'art. 95, comma 3, l.fall., norma di carattere eccezionale ed insuscettibile di applicazione analogica, deve considerarsi inopponibile al fallimento, per cui il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori previa domanda di ammissione al passivo). Tale disciplina, peraltro, non è ritenuta in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., attesa la evidente diversità tra decreto ingiuntivo opposto e sentenza impugnabile, poiché solo nella seconda l'accertamento è avvenuto nel contraddittorio delle parti. Inoltre, la soggezione al concorso formale non comprime la possibilità di difesa del creditore opposto, mentre l'eccezione in favore del creditore che abbia ottenuto una sentenza impugnabile si giustifica con esigenze di economia processuale, ferma restando, comunque, la soggezione al concorso sostanziale. Il credito, in definitiva, ove risulti da un decreto ingiutivo che, al momento del fallimento, non è diventato definitivo, può essere escluso, se sfornito di altre prove (come, ad es., i documenti prodotti in sede monitoria), senza che il curatore abbia a tal fine la necessità di proporre o continuare l'opposizione al decreto ingiuntivo (Spiotta, 2016, 2039). Va, peraltro, ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 23202/2013; Cass. n. 28553/2011), il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale, idoneo a costituire titolo inoppugnabile per l'ammissione al passivo, soltanto a seguito della dichiarazione di esecutività ai sensi dell'art. 647 c.p.c. e che non è ammissibile l'accertamento incidentale, in sede fallimentare, dell'esecutività definitiva del decreto ingiuntivo che sia tuttora sprovvisto del visto di esecutorietà ai sensi dell'art. 647 c.p.c. (in senso conf., Cass. n. 1650/2014, per la quale, in assenza di opposizione, il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato formale e sostanziale solo nel momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, lo dichiari esecutivo ai sensi dell'art. 647 c.p.c.: tale funzione si differenzia dalla verifica affidata al cancelliere dall'art. 124 o dall'art. 153 disp. att. c.p.c. e consiste in una vera e propria attività giurisdizionale di verifica del contraddittorio che si pone come ultimo atto del giudice all'interno del processo d'ingiunzione e a cui non può surrogarsi il giudice delegato in sede di accertamento del passivo, sicché il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, del decreto di esecutorietà. non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale e non è opponibile al fallimento, neppure nell'ipotesi in cui il decreto ex art. 647 c.p.c. venga emesso successivamente, tenuto conto del fatto che, intervenuto il fallimento, ogni credito, deve essere accertato nel concorso dei creditori ai sensi dell'art. 52 l.fall). Viceversa, nel caso in cui il decreto ingiuntivo sia stato opposto ed il fallimento sia stato dichiarato quando è già stata pronunciata la sentenza di primo grado del giudizio di opposizione e tale sentenza non sia passata in giudicato al momento del fallimento dell'opponente, la norma dell'art. 96, comma 3, n. 3, trova senz'altro applicazione. La norma, infine, pur facendo testuale riferimento ai crediti, trova applicazione anche per il caso in cui il provvedimento giudiziale pronunciato prima del fallimento ma non ancora definitivo abbia accertato (o, come visto, negato) il diritto di proprietà ovvero altro diritto reale ovvero il diritto alla restituzione di un bene in possesso o in proprietà del fallito, come nel caso di una sentenza che abbia pronunciato la risoluzione dell'atto di acquisto da parte del fallito e lo abbia condannato alla restituzione ovvero che abbia condannato il compratore, poi fallito, alla restituzione delle cose mobili consegnategli, in accoglimento della domanda tempestivamente proposta dal venditore a norma dell'art. 1519 c.c. (Cass. n. 2248/1975). d. Lo scioglimento della riserva Prima della riforma, si distingueva a seconda che riserva riguardasse eventi indipendenti dalla volontà del creditore ammesso (come la verificazione della condizione nei crediti condizionali) o comunque connessi ad un'attività che non poteva essere svolta in sede di verifica (come l'escussione di un obbligato principale ovvero il passaggio in giudicato della sentenza extrafallimentare sul credito), ovvero eventi dipendenti esclusivamente dalla volontà del creditore (come la produzione dei documenti indicati in ricorso): nel primo caso, si riteneva che lo scioglimento della riserva non richiedesse l'opposizione allo stato passivo e che l'avveramento o meno dell'evento dedotto in riserva dovesse essere accertato dal giudice delegato in sede di riparto; nel secondo caso, invece, si riteneva che fosse necessario, per sciogliere la riserva, la proposizione dell'opposizione allo stato passivo, onde consentire l'esame dei documenti stessi, il loro contenuto e la loro opponibilità alla massa, per cui la riserva apposta era, di fatto, sciolta con la sentenza che pronunciava sull'opposizione (Cass. n. 738/1999; Cass. n. 16657/2008). Con la riforma, la legge ha espressamente disciplinato i modi di scioglimento della riserva. L'art. 113-bis l.fall., applicabile a qualunque tipo di riserva, dispone che, quando si verifica l'evento che ha determinato l'accoglimento di una domanda con ammissione riservata, il giudice delegato, su istanza del curatore o della parte interessata (e non d'ufficio), procede alla modifica lo stato passivo con apposito decreto (e, dunque, senza necessità di opposizione a norma dell'art. 98 l.fall.), disponendo la definitiva ammissione del credito (o del privilegio). Ad onta della sua formulazione letterale, la norma deve essere letta nel modo che segue: 1) se si verifica l'evento dedotto in riserva (verificazione della condizione, escussione dell'obbligato principale, passaggio in giudicato della sentenza extrafallimentare che ha accertato in via definitiva il credito, produzione del documento contenente il titolo del credito), il giudice delegato modifica lo stato passivo disponendo che il credito debba intendersi definitivamente ammesso, attribuendo al relativo titolare in via definitiva le somme accantonate; 2) se l'evento dedotto in condizione non si verifica ed è certo che non potrà verificarsi (ad es., definitivo mancato avveramento della condizione, passaggio in giudicato della sentenza extrafallimentare che ha escluso in via definitiva il credito, ecc.), il giudice delegato esclude in via definitiva il credito dallo stato passivo e svincola le somme accantonate per altri ripartizioni. 3) L'ammissione con riserva dei crediti tributari Accanto alle ipotesi sopra descritte, gli artt. 87 e 88 d.P.R. n. 602/1973 disciplinano l'ammissione con riserva dei crediti tributari. In particolare, l'art. 87 prevede che «il concessionario chiede, sulla base del ruolo, per conto dell'Agenzia delle entrate l'ammissione al passivo della procedura» mentre l'art. 88, comma 1, aggiunge che «se sulle somme iscritte a ruolo sorgono contestazioni, il credito è ammesso al passivo con riserva». Nel passato, la Corte di Cassazione aveva sostenuto che, ai fini dell'ammissione dei crediti tributari al passivo del fallimento del contribuente è necessaria la previa notifica del ruolo al curatore, onde consentire a quest'ultimo di ricorrere avverso il ruolo stesso in vista della conseguente ammissione del tributo con la «riserva» prevista dall'art. 45 del medesimo d.P.R. n. 602 (Cass. n. 6032/1998). Tale orientamento, riferito al testo del d.P.R. n. 602/1973 anteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, che ha riscritto gli artt. 87 e 88, è stato, tuttavia, superato. Nel nuovo contesto normativo, infatti, la Corte ha superato quel precedente prima con la sentenza n. 5063/2008, poi con l'ordinanza n. 12019/2011 ed, infine, con le sentenze nn. 6520 e 6646 del 2013. Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 23110/2016; Cass. n. 6126/2014), in particolare, l'ammissione al passivo dei crediti tributari è richiesta dalle società concessionarie per la riscossione, come stabilito dall'art. 87, comma 2, del d.P.R. n. 602, nel testo introdotto dal d.lgs. n. 46/1999, sulla base del semplice ruolo, senza che occorra, in difetto di espressa previsione normativa, anche la previa notifica della cartella esattoriale: tuttavia, in presenza di contestazioni del curatore, il credito dev'essere ammesso con riserva, da sciogliere poi ai sensi dell'art. 88, comma 2, del d.P.R. n. 602, allorché sia stata definita la sorte dell'impugnazione esperibile davanti al giudice tributario. La riserva, in particolare, è sciolta dal giudice delegato con decreto, su istanza del curatore o del concessionario, quando è inutilmente decorso il termine prescritto per la proposizione della controversia davanti al giudice competente ovvero quando il giudizio è stato definito con decisione irrevocabile o risulta altrimenti estinto. Per il resto, si rinvia al commento relativo all'art. 92. Il decreto di esecutività dello stato passivo fallimentare: natura, effetti ed oggettoL'art. 95 l.fall., nel testo originario, intitolato «Formazione dello stato passivo», prevedeva che il giudice delegato «... con l'assistenza del curatore, sentito il fallito ed assunte le opportune informazioni, esamina le domande e predispone in base ad esse lo stato passivo del fallimento. Il giudice indica distintamente i crediti che ritiene di ammettere, specificando se sono muniti di privilegio, pegno o ipoteca, e i crediti che ritiene di non ammettere in tutto o in parte esponendo sommariamente i motivi dell'esclusione totale o parziale di essi o delle relative garanzie. Il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo solo dopo aver terminato l’esame di tutte le domande presentate tempestivamente e pertanto deve escludersi che, se il procedimento di verifica di protrae per più udienze, il giudice possa adottare all’esito di ciascuna di esse altrettanti decreti di esecutività, che, se erroneamente emessi, devono ritenersi tamquam non essent e perciò privi di effetti ai fini della scadenza del termine per il deposito delle domande tardive di cui all’art. 101 (Cass. VI, ord. n. 3054/2021). Lo stato passivo predisposto dal giudice deve essere depositato in cancelleria almeno tre giorni prima di quello fissato dall'art. 16, n. 5. I creditori possono prenderne visione». L'art. 96 l.fall., nel testo originario, intitolato «Verificazione dello stato passivo», aggiungeva che «nell'adunanza prevista dall'art. 16, n. 5, è esaminato, alla presenza del curatore, e con l'intervento del fallito, lo stato passivo predisposto dal giudice. Sono inoltre esaminate le domande di ammissione al passivo pervenute successivamente o presentate nell'adunanza stessa. Il giudice, tenuto conto delle contestazioni e delle osservazioni degli interessati, nonché dei nuovi documenti esibiti, apporta allo stato passivo le modificazioni e le integrazioni che ritiene necessarie». L'art. 97 l.fall., nel testo originario, intitolato «Esecutività dello stato passivo», prevedeva, infine, al primo comma, che «lo stato passivo del fallimento è sottoscritto dal giudice e dal cancelliere e si chiude con decreto del giudice che lo dichiara esecutivo...». Le norme che precedono hanno, come è noto, posto due questioni: 1) la natura giuridica del decreto di esecutività dello stato passivo; 2) gli effetti del decreto di esecutività dello stato passivo. In ordine alla prima questione, l'opinione assolutamente prevalente in dottrina e giurisprudenza è stata quella che configura il decreto di esecutività dello stato passivo del fallimento come un provvedimento di natura giurisdizionale (in tal senso, in particolare, hanno opinato, in giurisprudenza, Cass n. 3765/2007, per la quale «nel sistema della legge fallimentare il procedimento di verificazione dello stato passivo ha natura giurisdizionale e decisoria ed è strutturato sullo schema del processo di cognizione, sia pure con gli adattamenti imposti dal carattere sommario della cognizione e dalla attribuzione al Giudice delegato di poteri inquisitori, e di detto procedimento l'eventuale giudizio di opposizione costituisce lo sviluppo in sede contenziosa per l'accertamento dell'esistenza e dell'efficacia, nei confronti del fallimento, del credito di cui si chiede l'ammissione...»; Cass. n. 19605/2004, secondo cui «nel sistema della legge fallimentare il procedimento di verificazione dello stato passivo ha natura giurisdizionale e decisoria ed è strutturato sullo schema del processo di cognizione, sia pure con gli adattamenti imposti dal carattere sommario della cognizione e dalla attribuzione al giudice delegato di poteri inquisitori, il giudizio di opposizione costituendone l'eventuale sviluppo in sede contenziosa»; Cass. n. 3550/2003, per la quale il decreto del giudice delegato di ammissione di un credito allo stato passivo del fallimento, emesso ai sensi dell'art. 97 l.fall., ha natura giurisdizionale. In dottrina, la natura giurisdizionale del decreto è stata sostenuta, tra gli altri, da Provinciali, 1443 ss. e nt. 183, 184, 185 e 186; Bozza-Schiavon, 8 ss; Pellegrino, 23 e 30 ss; Lanfranchi, 328 ss.), riconducibile, pur nelle forme speciali e sommarie che lo caratterizzano, alla giurisdizione contenziosa di cognizione (in tal senso, Bozza-Schiavon, 8 ss.; Lanfranchi, 389. Ragusa Maggiore, 196. Dopo la riforma, Fabiani, 2011, 1093 ss., 1098, 1099; Pagni, Il nuovo diritto fallimentare, 343 ss.) della quale, in effetti, specie dopo la riforma della legge fallimentare, ha i caratteri essenziali: il procedimento si svolge, sin dall'inizio, innanzi ad un giudice, che decide in posizione di terzietà ed imparzialità; il procedimento inizia con la proposizione di una domanda di parte che ha il contenuto e produce gli effetti tipici di una domanda giudiziale (art. 94 l.fall.); il curatore riveste la qualità di parte del procedimento, potendo sollevare eccezioni in senso stretto (e cioè quelle riservate all'iniziativa esclusiva della parte) e, dopo la riforma, impugnare le decisioni assunte dal giudice; il procedimento, per quanto semplificato, è aperto all'espletamento di un'attività istruttoria, anche di tipo documentale, pur dovendo essere modellata secondo esigenze di speditezza e celerità; il giudice, infine, decide, sulla base dei fatti allegati dalle parti e delle rispettive domande ed eccezioni, nonché delle eccezioni rilevabili di ufficio, nel rispetto dei principi fondamentali del processo civile, come quelli della domanda (art. 99 c.p.c.), della corrispondenza tra chiesto e pronunciato (art. 112 c.p.c.), della necessità della pronuncia secondo diritto (art. 113 c.p.c.), della valutazione delle prove secondo il suo prudente apprezzamento salvi i casi di prova legale (art. 116 c.p.c.), della ripartizione dell'onere della prova (art. 2697 c.c.) nonché, a seguito della riforma, il principio della disponibilità delle prove (artt. 115 c.p.c. e 95, comma 3, in fine, nuovo testo, l.fall.) e delle eccezioni non rilevabili di ufficio (artt. 112, in fine, c.p.c. e 95, commi 1 e 3, nuovo testo, l.fall.) (In tal senso, prima della riforma, Bozza-Schiavon, 11 e 31 ss. Dopo la riforma, Fabiani, 2011, 1093 ss., 1098, 1099. Pagni, 347 ss; Spiotta, 2007, 815 ss., 816, pur ricordando, quali possibili effetti extrafallimentari del decreto di esecutività, l'art. 120 l.fall. ed il principio di irripetibilità dei pagamenti eseguiti in sede di riparto. Sul principio della domanda, in particolare, cfr. Trisorio Liuzzi, 2011, 1034 ss; Trisorio Liuzzi, 2012, 431 e nt. 1; Cavallini, 700 ss., 707. Sul principio dell'onere della prova, cfr., in giurisprudenza, Cass n. 3765/2007, per cui «nel sistema della legge fallimentare il procedimento di verificazione dello stato passivo ha natura giurisdizionale e decisoria ed è strutturato sullo schema del processo di cognizione, sia pure con gli adattamenti imposti dal carattere sommario della cognizione e dalla attribuzione al giudice delegato di poteri inquisitori, e di detto procedimento l'eventuale giudizio di opposizione costituisce lo sviluppo in sede contenziosa per l'accertamento dell'esistenza e dell'efficacia, nei confronti del fallimento, del credito di cui si chiede l'ammissione. Ne consegue che vi trova applicazione il principio generale sull'onere della prova di cui all'art. 2697 c.c....».). Gli effetti dell'accertamento (dell'esistenza o dell'inesistenza del diritto di credito/diritto reale o personale alla restituzione di beni) contenuto nel decreto di esecutività, sono, però, una volta divenuti definitivi, rilevanti ai soli fini del concorso. Il decreto, cioè, ove non impugnato, consente (o, rispettivamente, impedisce) a chi ha proposto la domanda di partecipare al riparto del ricavato della liquidazione dei beni acquisiti (art. 110 l.fall.), fissandone la misura e la collocazione (Fabiani, 1997, 1084 ss., 1087, 1088. Sulle facoltà che la legge accorda al creditore ammesso, v. Cavalaglio, 1019) ovvero di ottenere la restituzione, in via temporanea o definitiva, totale o parziale, in forma specifica o per equivalente pecuniario, di uno o più beni acquisiti alla procedura (art. 103 l.fall.), definitivamente precludendo la deduzione di ogni questione relativa all'an, al quantum ed alla collocazione del credito ovvero alla sussistenza del diritto reale o personale alla restituzione, nonché alla validità e/o alla efficacia/opponibilità del titolo da cui tali diritti derivano, in un diverso giudizio — e, precisamente, in un diverso giudizio proposto, in sede ordinaria o concorsuale, tra le stesse parti sostanziali, e cioè, da un parte, il singolo creditore e, dall'altra parte, il curatore, che sta in giudizio in luogo del fallito ex art. 43 l.fall. e nell'interesse della massa dei creditori (sul punto, v. Russo, 41 ss., 77 ss., dove, tra l'altro, evidenzia che «... nel meccanismo fallimentare, il curatore è chiamato alternativamente a sostituirsi al fallito, per integrarne la menomata incapacità (relativa), quando si discuta del fatto che esista un rapporto giuridico destinato a refluire nel patrimonio assoggettato; ovvero ai creditori, quando si controverta sull'opponibilità del titolo al fallimento»; così anche Pellegrino, 41, dove parla di «... sostituzione processuale del fallito con il curatore fallimentare che, riconosciuto pacificamente per i giudizi promossi a norma dell'art. 43 l.fall. e per quelli di impugnazione dello stato passivo, si attua anche nella fase della verificazione dei crediti») ed avente per oggetto l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza del medesimo diritto già accertato dal giudice delegato (petitum) e sul fondamento (causa petendi) dei medesimi fatti che, quali fatti costitutivi ovvero estintivi, modificativi o impeditivi, sono stati dedotti o avrebbero potuto essere dedotti in sede di verifica (ivi compresa l'eccezione di revoca del titolo costitutivo del credito o della garanzia): con esclusione, quindi, di ogni preclusione rispetto a quei giudizi che pendano, pur se efficaci verso la procedura, tra soggetti diversi (es. azione di responsabilità dei creditori sociali proposta dal curatore, il cui lo stato passivo accertato dal giudice delegato, che determina lo squilibrio patrimoniale sul quale l'azione è fondata, non è opponibile agli amministratori della società convenuti in giudizio) o che non siano caratterizzata dalla medesima causa petendi, come sopra ricostruita (es. opposizione al fallimento: Cass. n. 22343/2004, per cui gli accertamenti eseguiti in sede di verificazione dei crediti non fanno stato nel giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento e non precludono in modo assoluto l'attività di chi nega lo stato di insolvenza, a meno che su qualche credito definitivamente ammesso al passivo fallimentare non sia intervenuta sentenza passata in cosa giudicata) — ma (ed è questo il punto) solo nell'ambito ed ai fini del fallimento in cui è pronunciato (in tal senso, in dottrina, Bozza-Schiavon, 37 ss; Ragusa Maggiore, 196 e 198, dove rileva che «l'ammissione di un credito al passivo fallimentare... rende incontestabile la validità del titolo da cui il credito deriva e la sua efficacia nei confronti dei creditori...». Fabiani, 1997, 1084 ss., 1095, pur escludendo, per il principio della stabilità dei riparti, che la somma assegnata ad un creditore possa essere chiesta in restituzione dal fallito tornato in bonis Cavalaglio, 1029 ss., 1032, dove evidenzia che «... il creditore ammesso dal giudice delegato con decreto, non contestato, potrà essere convenuto in un giudizio ordinario per ripetizione dell'indebito, essendo stato il suo diritto riconosciuto da un provvedimento non munito e mai suscettibile di acquisire autorità di cosa giudicata»; in senso contrario, tuttavia, e cioè per l'efficacia anche fuori del fallimento del decreto di esecutività, cfr. Lanfranchi, 389 ss., con espresso riferimento sia all'accertamento positivo che all'accertamento negativo del credito; Montanari, 707 ss.; Pellegrino, 51 ss., pur evidenziando che «il giudicato... si realizza con riguardo al petitum ed al decisum», per cui «se il giudice delegato non ha ammesso un credito al passivo per la sua non opponibilità agli altri creditori, il giudicato riguarda solo quest'ultimo punto della decisione e non la sussistenza o meno del credito nei confronti del debitore, che può essere invece rimessa in discussione al di fuori della procedura concorsuale, per ottenere una decisione da far valere nei confronti del fallito tornato in bonis»: per il resto, il decreto di esecutività ha efficacia di giudicato nei rapporti fra i singoli creditori ammessi ed il fallito «né il fallito tornato in bonis può contestare i crediti accertati nel procedimento di verifica»: «in sede di accertamento dei crediti... avviene con la sostituzione processuale del curatore al fallito, il che comporta l'instaurazione di un contraddittorio fra il creditore ed il curatore come parte formale, conservando il fallito stesso la sola natura di parte sostanziale, dovendo l'attività processuale posta in essere produrre effetti sul suo patrimonio», aggiungendo, infine, che «l'efficacia di giudicato si verifica anche nei rapporti fra i singoli creditori che hanno partecipato al concorso... I creditori che hanno partecipato al procedimento di verifica hanno il diritto di opporsi all'ammissione dei crediti altrui. Se non esercitano questo diritto oppure se, essendosi opposti, la contestazione è respinta, si forma nei loro confronti un giudicato efficace nella procedura fallimentare ed anche successivamente al di fuori di questa procedura, dalla quale non può che derivare la preclusione di ogni accertamento incompatibile con quello già intervenuto; questa preclusione opera anche nel senso di impedire la proposizione di questioni non sollevate in sede fallimentare, in base al principio secondo cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile». Rolfi, 161 ss., 164, con riferimento tanto al decreto di ammissione, onde evitare la possibilità per il fallito di agire, una volta chiusa la procedura, nei confronti del creditore per far accertare l'inesistenza del credito ammesso e di ottenere, in caso positivo, la restituzione della somma ricevuta, quanto al decreto di rigetto fondata su ragioni di merito, e cioè di inesistenza del credito verso il fallito, data, in tal caso, la integrale coincidenza di parti, petitum e causa petendi. Non manca, poi, chi ritiene che occorre distinguere, rispetto all'efficacia del decreto di esecutività, a seconda che l'accertamento del credito sia positivo o negativo: Cass. n. 22012/2007, in motiv., per cui «oggetto del giudizio d'opposizione al passivo fallimentare è l'accertamento del diritto del creditore istante di partecipare al concorso sui beni acquisiti all'attivo, per la soddisfazione di un credito, nei confronti del fallito, che deve essere anteriore alla dichiarazione di fallimento. L'accertamento dell'anteriorità del credito è — nel rapporto tra creditore istante e curatela fallimentare — logicamente successivo a quello della sua esistenza, e ha luogo sulla base di regole diverse da quelle applicabili nella controversia tra creditore e debitore, perché a questo riguardo il curatore, legittimato a rappresentare il fallimento, è terzo... Evidentemente, qui non è in discussione la questione dell'efficacia extrafallimentare del giudicato sull'opponibilità del credito al fallimento, accertata in funzione della partecipazione del creditore istante al concorso, giacché quella funzione si è esaurita con la chiusura del processo fallimentare. Un'efficacia extrafallimentare di quel giudicato sarebbe ipotizzabile solo con riguardo all'accertamento negativo dell'esistenza del credito. Ora, la sentenza che, definendo il giudizio d'opposizione al fallimento, accerti l'inopponibilità del credito, perché basato su scrittura priva di data certa, non esclude l'esistenza del credito (semmai, al contrario, la suppone), e neppure la sua efficacia tra le parti, ma solo la sua anteriorità al fallimento, nel contraddittorio con la massa dei creditori. Il giudicato, dunque, avuto riguardo alla sua portata oggettiva, non può essere d'ostacolo alla proposizione della stessa domanda nei confronti del debitore tornato in bonis: e ciò, non già perché nei confronti di quest'ultimo — siccome terzo rispetto al giudicato formatosi nel contraddittorio con il fallimento rappresentato dal curatore — possa rimettersi in discussione il diritto del creditore di soddisfarsi sui beni che sono stati oggetto dell'esecuzione concorsuale (diritto rispetto al quale, soltanto, ha valore d'accertamento pregiudiziale la certezza della data del titolo fatto valere); ma perché le ragioni che si fanno valere non dipendono di regola dalla certezza della data del titolo, non essendo il debitore, per definizione, un terzo al quale possa applicarsi l'art. 2704 c.c.; sicché, rispetto all'accertamento richiesto, vertente sull'esistenza dell'obbligazione inadempiuta, è irrilevante l'accertamento compiuto nel precedente giudizio, in funzione della partecipazione del creditore al concorso. La conclusione accolta, dunque, non si pone in contrasto con l'insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, per cui l'opposizione avverso i provvedimenti adottati dal giudice delegato, in sede di verificazione dei crediti, da vita ad un vero e proprio giudizio di cognizione, di natura contenziosa, sull'esistenza o meno del credito, e la sentenza che chiude definitivamente tale giudizio ha efficacia di cosa giudicata .... Quel principio, infatti, è stato enunciato con riguardo all'accertamento dell'esistenza o inesistenza del credito, che ben può costituire l'oggetto (preliminare) del contraddittorio tra il creditore istante e il curatore del fallimento; ma non anche con riguardo all'accertamento dell'opponilibilità del titolo ai creditori anteriori al fallimento». In giurisprudenza, la tesi dell'efficacia solo endofallimentare del decreto di esecutività è assolutamente prevalente a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 2082/1963, per cui «i provvedimenti che, in sede di verificazione dei crediti vengono adottati dal giudice delegato, quand'anche non abbiano formato oggetto di opposizione, non acquistano efficacia di cosa giudicata, ma spiegano solo effetti preclusivi nell'ambito della procedura fallimentare...». Tale soluzione è stata, in seguito, ai più diversi fini, ribadita da: Cass n. 20222/2013; Cass n. 7407/2013, per cui «... i provvedimenti adottati dal giudice delegato in sede di formazione dello stato passivo... privi di definitività e con efficacia meramente endoconcorsuale...»; Cass n. 13289/2012, che pure parla di «... forza di giudicato endofallimentare, da attribuire al decreto che rende esecutivo lo stato passivo...»; Cass. S.U. n. 16508/2010, per cui «quando il creditore richiede l'ammissione al passivo per un importo inferiore a quello originario deducendo la compensazione, l'esame del giudice delegato investe il titolo posto a fondamento della pretesa, la sua validità, la sua efficacia e la sua consistenza», fermo restando, invece, che «il provvedimento di ammissione del credito per la parte insoddisfatta, in conformità della richiesta, non presuppone... neppure implicitamente alcuna valutazione sulla validità ed efficacia della parte soddisfatta sicché, non essendosi formata alcuna preclusione endofallimentare su tale ultima parte, è stata coerentemente e correttamente affermata l'esperibilità dell'azione revocatoria, con riguardo agli atti estintivi delle maggiori ragioni del creditore»; Cass. n. 12823/2003, per cui «i provvedimenti che, in sede di verificazione dei crediti, vengono adottati dal giudice delegato, quand'anche non abbiano formato oggetto di opposizione, non acquistano efficacia di cosa giudicata, ma spiegano solo effetti preclusivi nell'ambito della procedura fallimentare»; Cass. n. 3550/2003: «il decreto del giudice delegato di ammissione di un credito allo stato passivo del fallimento, emesso ai sensi dell'art. 97 l.fall., ha natura giurisdizionale e da esso deriva un'efficacia preclusiva esclusivamente endofallimentare...»; Cass. n. 2573/2002, per la quale «il decreto con cui il giudice delegato dispone l'ammissione di un credito allo stato passivo del fallimento non produce effetti nel giudizio promosso dal creditore nei confronti dei coobbligati del fallito (nella specie, fideiussori), atteso che esso ha mera efficacia preclusiva limitata all'ambito della procedura fallimentare»; Cass. n. 3830/2001, per cui «nel procedimento fallimentare l'ammissione di un credito, sancita poi dalla definitività dello stato passivo, una volta che questo sia stato reso esecutivo con il decreto emesso dal giudice delegato ai sensi dell'art. 97 della legge fallimentare, acquisisce all'interno della procedura concorsuale un grado di stabilità assimilabile al giudicato...»; nella giurisprudenza di merito, App. Torino 7 febbraio 2007, relativamente al garante del fallito, e Trib. Monza 16 marzo 1998. Le ragioni di questo orientamento interpretativo sono spiegate da Cass. I, ord. n. 11808/2022 e da Cass. I, n. 27709/2020: il giudicato endofallimentare copre solo la statuizione di rigetto o di accoglimento della domanda di ammissione, precludendone il riesame. Quanto, invece, all'ambito oggettivo e soggettivo di efficacia preclusiva del decreto di esecutività, «... i limiti oggettivi della preclusione endofallimentare sono segnati, analogicamente a quanto accade in tema di cosa giudicata, dal decisum e dalle questioni che ne costituiscono il presupposto logico necessario... Se si accetta che l'accertamento del Giudice delegato comprende una decisione sul credito.., è chiaro che l'indagine si estende necessariamente e logicamente al titolo da cui il credito stesso deriva, alla sua efficacia e validità, talché l'ammissione, una volta che sia divenuta definitiva, preclude, nell'ambito fallimentare, ogni azione che tenda a contestare gli stessi elementi, fatta eccezione per la revocazione di cui all'art. 102. Naturalmente, a seguito dell'ammissione, restano incontestabili il titolo giuridico del credito e la sua esistenza in misura pari a quella che ne risulta accertata...»: Bozza-Schiavon, 45; Bozza, 1999, 41, per il quale l'efficacia endofallimentare non espone il creditore soddisfatto al rischio di eventuali pretese di ripetizione da parte del debitore tornato in bonis perché il meccanismo fallimentare in cui l'accertamento del credito si inserisce crea delle preclusioni progressive, una delle quali è l'immutabilità delle attribuzioni delle somme distribuite ai singoli creditori con il riparto finale, che risponde ad un principio di stabilità degli effetti di quanto legittimamente accaduto, come confermato dall'art. 114 l.fall. e dall'art. 2921 c.c. In altra prospettiva, invece, si distingue, quanto all'effetto, tra l'accertamento del diritto a partecipare al concorso, che può avere soltanto un effetto preclusivo endofallimentare, e l'accertamento del diritto o del titolo, che ha efficacia extrafallimentare: «quando la sede dell'accertamento è utilizzata, per il comando dell'art. 52 l.fall., come sede sostitutiva della cognizione ordinaria, il contraddittorio può legittimamente svolgersi perché il curatore si sostituisce (anche) al fallito nella verifica processuale del rapporto controverso; ed è dunque legittimo che gli effetti della decisione si estendano, quanto alla esistenza del diritto accertato, alla sfera personale del fallito nella eventuale proiezione extrafallimentare. Viceversa, ai fini del controllo della partecipazione al concorso, la posizione del debitore non ne viene in alcun modo intaccata; perché il secondo momento dell'accertamento (che il titolo già esistente o previamente accertato nello stesso procedimento o altrove sia opponibile a quella massa dei creditori...) non riguarda affatto la sua posizione soggettiva al di fuori della procedura... il creditore che venga escluso dal concorso perché in possesso di un titolo cartolare sfornito di data certa anteriore al fallimento o solo perché di formazione successiva all'apertura del concorso stesso, non subisce altro effetto di giudicato... se non quello dell'inopponibilità del titolo medesimo alla massa. Lo stesso dicasi di un diritto di cui sia accertata l'inefficacia (cioè l'inopponibilità alla massa). Ma ciò che deve fare stato, necessariamente (perché le regole del diritto sono prima di tutto di certezza e di stabilità dei rapporti giuridici) e legittimamente (data la garanzia di sostituzione del curatore), è la decisione sull'esistenza del titolo o della pretesa che eventualmente non fossero stati accertati prima del fallimento, e su cui non è coerente ai principi dell'ordinamento giuridico che si possa riaprire un'indagine processuale identica dopo la procedura di fallimento...»: Russo, 94 ss. Sull'efficacia preclusiva del decreto di esecutività e la sua ampiezza oggettiva e soggettiva, v., in giurisprudenza, Cass. n. 5840/2013, per cui «il principio di intangibilità dello stato passivo del fallimento non impugnato con gli specifici rimedi previsti dalla legge fallimentare o all'esito dei relativi procedimenti, non consente agli organi della procedura di far valere l'inopponibilità o la revocabilità alla massa di crediti già ivi ammessi definitivamente....». Cass. n. 20222/2013: Il curatore fallimentare non può agire in revocatoria per far dichiarare inopponibile alla massa l'intervenuta risoluzione di diritto di un contratto di leasing relativo ad un macchinario allorquando, in sede di accertamento del passivo, sia stata già definitivamente accolta la domanda di rivendica del bene oggetto del menzionato contratto avanzata dal terzo acquirente, in quanto, non essendosi opposta in tale sede alla restituzione, la curatela fallimentare ha ormai riconosciuto la validità dell'atto d'acquisto del rivendicante e non può pretendere di tornare in possesso del medesimo bene attraverso l'esercizio dell'azione revocatoria, posto che un simile effetto non sarebbe raggiungibile senza la modificazione dello stato passivo, ormai preclusa dal giudicato endofallimentare, il quale copre sia il dedotto che il deducibile. Cass n. 13289/2012 ha ritenuto che «al curatore fallimentare non è consentito agire in revocatoria per far dichiarare inopponibile alla massa una causa di prelazione (nella specie, ipoteca), in forza della quale un determinato credito sia stato già definitivamente ammesso al passivo in via privilegiata, atteso che soltanto lo scopo di modificare lo stato passivo, retrocedendo quel credito al rango chirografario, potrebbe sorreggere una tale azione, ma questo effetto non sarebbe raggiungibile senza la modificazione dello stato passivo, preclusa al di fuori dei rimedi previsti dagli artt. 98 ss l.fall.; il curatore, quindi, stante la forza di giudicato endofallimentare, da attribuire al decreto che rende esecutivo lo stato passivo, può chiedere la revocazione del credito ammesso ai sensi dell'art. 102 l.fall., ma non agire in via ordinaria per rimettere in discussione il titolo, ovvero gli elementi che lo costituiscono o lo connotano. Cass. n. 20180/2010, per la quale «in sede di ripartizione dell'attivo fallimentare non è possibile rimettere in discussione l'importo dei crediti ammessi e le cause di prelazione riconosciute o escluse in sede di verificazione del passivo, attesa l'efficacia preclusiva, nell'ambito della procedura concorsuale, del decreto di approvazione dello stato passivo, né sono ammesse contestazioni attinenti ad altre fasi della procedura, in quanto il giudice delegato deve limitarsi a risolvere le questioni relative alla graduatoria dei privilegi e, comunque, alla collocazione dei diversi crediti», salvo che non si tratti di fatti estintivi successivi all'ammissione (Cass. n. 525/2016, con riguardo all'integrale soddisfazione del creditore intervenuta in sede extrafallimentare da parte dei coobbligati in solido del fallito); Cass. S.U., n. 16508/2010, che, dopo aver ribadito come «... se non impugnato, il decreto di approvazione dello stato passivo esclude la possibilità di riproporre, all'interno della detta procedura, ogni questione concernente l'esistenza del credito, la sua entità, l'efficacia del titolo da cui deriva, l'esistenza di cause di prelazione», ha affermato il principio per cui «quando il creditore richiede l'ammissione al passivo per un importo inferiore a quello originario deducendo la compensazione, l'esame del giudice delegato investe il titolo posto a fondamento della pretesa, la sua validità, la sua efficacia e la sua consistenza. Ne consegue che il provvedimento di ammissione del credito residuo nei termini richiesti comporta implicitamente il riconoscimento della compensazione quale causa parzialmente estintiva della pretesa, riconoscimento che determina una preclusione endofallimentare, che opera in ogni ulteriore eventuale giudizio promosso per impugnare, sotto i sopra indicati profili dell'esistenza, validità, efficacia, consistenza, il titolo dal quale deriva il credito opposto in compensazione«, laddove, al contrario, «la preclusione endofallimentare formatasi in relazione all'ammissione del credito insoddisfatto per pagamenti non effettuati non si estende alla parte di credito già soddisfatto, pur se dipendente dal medesimo titolo, e ciò tenuto conto dell'autonomia che caratterizza i singoli pagamenti post in essere»; Cass. n. 18832/2008, per cui «il decreto di approvazione dello stato passivo... se non impugnato, preclude nell'ambito del procedimento fallimentare ogni questione relativa all'esistenza del credito, alla sua entità, all'efficacia del titolo da cui deriva e all'esistenza di cause di prelazione... sicché è sostanzialmente indiscusso in giurisprudenza..., che il suddetto decreto ha un'efficacia meramente processuale e negativa (ne bis in idem), in quanto solo preclusiva di un riesame in sede fallimentare delle questioni inerenti e all'esistenza e alla natura e all'entità del credito; anche se non ha un'efficacia di vincolo positivo in ordine alle questioni comuni ad altra eventuale controversia tra le stesse parti, pur vertente sul medesimo negozio o rapporto giuridico, tanto che non fa stato nel giudizio di opposizione al fallimento»; Cass. n. 3830/2001, per la quale «nel procedimento fallimentare l'ammissione di un credito, sancita poi dalla definitività dello stato passivo, una volta che questo sia stato reso esecutivo con il decreto emesso dal giudice delegato ai sensi dell'art. 97 della legge fallimentare, acquisisce all'interno della procedura concorsuale un grado di stabilità assimilabile al giudicato, tant'è che al decreto si riconosce un'efficacia preclusiva di ogni questione che riguardi l'esistenza, l'entità del credito, le eventuali cause di prelazione che lo assistono, così come anche la validità e l'opponibilità del titolo dal quale il credito stesso deriva....»; Il decreto di esecutività, quindi, non impedisce né che il debitore, una volta tornato in bonis, possa ripetere dal terzo quanto ha percepito sulla base di un'ammissione che dovesse risultare infondata per totale o parziale inesistenza del credito (in senso contrario, per la stabilità dei riparti e dei pagamenti ivi previsti ed eseguiti, v. Spiotta, 2007, 815 ss., 817), né che il creditore possa agire nei confronti del debitore tornato in bonis per ottenere il pagamento di un credito in tutto o in parte non ammesso. L'art. 96 l.fall., nella formulazione assunta a seguito delle modifiche apportate dapprima con il d.lgs. n. 5/2006 e poi con il d.lgs. n. 169/2007, prevede che: «Il giudice delegato, con decreto succintamente motivato, accoglie in tutto o in parte ovvero respinge o dichiara inammissibile la domanda proposta ai sensi dell'art. 93 [...]. La dichiarazione di inammissibilità della domanda non ne preclude la successiva riproposizione. Terminato l'esame di tutte le domande, il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria. Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo e le decisioni assunte dal tribunale all'esito dei giudizi di cui al'articolo 99, producono effetti soltanto ai fini del concorso». La norma conferma testualmente i principi sopra esposti, e cioè, da un lato, che il decreto con il quale il giudice delegato pronuncia sulla domanda di ammissione e/o di restituzione, con l'accoglimento o il rigetto, totale o parziale, della domanda, (art. 96 l.fall.) contiene, se non impugnato — al pari dei decreti emessi dal tribunale a seguito dei giudizi previsti dall'art. 99 l.fall. (vale a dire: l'opposizione allo stato passivo in caso di rigetto totale o parziale della domanda, l'impugnazione dei crediti in caso di ammissione e la revocazione del decreto di ammissione o di rigetto regolati, rispettivamente, dai commi 2, 3 e 4 dell'art. 98 l.fall.) — l'accertamento definitivo dell'esistenza o dell'inesistenza del diritto (di credito e/o di restituzione) verso il fallito azionato con la domanda, precludendo la successiva deduzione — in altro giudizio, purché proposto, in sede ordinaria o concorsuale, tra le stesse parti sostanziali e che abbia ad oggetto l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza del medesimo diritto già accertato dal giudice delegato (petitum) e sul fondamento (causa petendi) dei medesimi fatti che, quali fatti costitutivi (ivi compresa l'anteriorità del titolo al fallimento) ovvero estintivi, modificativi o impeditivi (come l'inefficacia/revocabilità del titolo ex artt. 44, 45 e 64 ss l.fall), sono stati dedotti (o avrebbero potuto essere dedotti: cd. preclusione del dedotto e del deducibile) in sede di verifica (cfr. De Santis, 385, 386, dove, sul rilievo che «... a seguito della dichiarazione di fallimento lo status del debitore fallito subisce certamente una rilevantissima deminutio della capacità processuale, ma non mi pare che la capacità processuale riconosciuta al curatore sia strutturalmente funzionale alla tutela del fallita (semmai della massa)», osserva come «... le controversie che possono sorgere all'interno del giudizio di accertamento del passivo (e delle eventuali impugnazioni) hanno come parti il curatore ed i creditori istanti, e solo ad essi può essere limitata l'efficacia di giudicato del provvedimento che le decide»: «rispetto a tali giudizi, il debitore fallito (non potendo svolgervi domande, eccezioni, conclusioni ed impugnazioni) rimane..., anche quando chiede di essere sentito». «Si comprende allora perché... l'ultimo comma dell'art. 96 l.fall. limiti alla sola procedura concorsuale l'efficacia del decreto che rende esecutivo lo stato passivo (o che decide sulle impugnazioni): se si forma il giudicato sulle statuizioni in esso contenute, l'autorità che ne deriva vincolerà (salva la revocazione) le sole parti del concorso (curatela e creditori insinuati, tempestivi e tardivi), i cui reciproci rapporti hanno modo di articolarsi unicamente all'interno del concorso...». Ne consegue «... la ragione per la quale il secondo comma dell'art. 114... sancisce la ripetibilità dei pagamenti effettuati in base al piano di riparto, ma non dovuti, anche quando l'indebito sia accertato nei giudizi che, al di fuori del concorso (quando cioè il fallimento è stato revocato o si è chiuso col rientro in bonis del debitore...), l'ex fallito (non vincolato al giudicato inter alios) ha il potere di avviare contro l'accipiens») — di ogni questione che riguardi l'esistenza, l'entità del credito, le eventuali cause di prelazione che lo assistono nonché la validità e l'opponibilità del titolo dal quale il diritto deriva, purché, come detto, si tratti di giudizi intercorrenti tra le medesime parti (e cioè, durate il fallimento, il creditore ed il curatore) ed incidenti sulle questioni, esplicitamente o implicitamente, già definitivamente decise (Fabiani, — 2011, 1093 ss., 1102, con riferimento all'azione revocatoria del titolo sul quale il credito si fonda, sul rilievo che «se il giudice dell'accertamento del passivo prima di riconoscere il diritto del creditore a partecipare alle distribuzioni è chiamato a sindacare l'esistenza e l'efficacia del titolo che sta a fondamento della pretesa (in via di eccezione), l'attività che compie è intrinsecamente identica a quella che è chiamato a svolgere (questa volta in via di azione) quando il curatore promuove un azione revocatoria. Vi è piena reciprocità soggettiva (curatore/terzo da un lato e creditore/convenuto dall'altra) e oggettiva (il thema decidendi è l'efficacia del titolo, un volta come oggetto diretto del processo e l'altra volta come necessario antecedente logico»; Pagni, Accertamento del passivo, 1392 ss., 1398, dove, traendo spunto dalla possibilità oggi espressamente riconosciuta al giudice delegato di escludere, in sede di verifica, un credito o una prelazione in ragione della revocabilità del titolo da cui traggono origine (art. 95, comma 1, l.fall.), ha affermato che «non vi è dubbio...che, una volta divenuto definitivo il decreto di esecutività dello stato passivo, la proposizione della revocatoria contro il titolo dal quale sorge il credito ammesso o il privilegio riconosciuto non sia più ammissibile. La conclusione... non contrasta con l'efficacia endoconcorsuale del giudicato, né implica alcun superamento dei limiti soggettivi di efficacia della pronuncia, dal momento che, da un lato, l'eventuale accoglimento della revocatoria, riflettendosi sulla formazione della massa passiva, avrebbe ricadute interne alla procedura fallimentare...; dall'altro, la partita qui si gioca tra le medesime parti, creditore e curatore, sia pure in posizione rovesciata, per cui non si va al di là del perimetro soggettivo del processo di verifica dei crediti»; Cass. n. 6738/2014, in motiv.: «l'accertamento del diritto di credito conseguente al decreto di esecutività ex art. 97 l.fall., pur non avendo valore di giudicato al di fuori del fallimento, ma effetto preclusivo soltanto durante la procedura fallimentare, impedisce che, in corso di essa, possano essere proposte dal creditore e dal debitore, ad un giudice diverso da quello fallimentare, le questoni riconducibili al credito ammesso al passivo, come pure alla validità ed opponibilità del titolo da cui esso deriva») e, dall'altro lato, che gli effetti di tale accertamento (pur quando è definitivo) valgono ai soli fini (vale a dire con effetti sulla procedura) e fino a che dura la procedura concorsuale nella quale è reso. Ciò significa che — salvi gli effetti extraconcorsuali espressamente (cfr. l'art. 120 l.fall.: De Santis, 386, dove rileva che la norma costituisce una eccezione rispetto al principio dell'efficacia endofallimentare dell'accertamento del passivo «che, però, corrobora la... posizione di estraneità del debitore, al quale non potrà essere negato il potere di opporre il decreto ingiuntivo mettendo così in discussione il fondamento sostanziale del credito») o implicitamente (come l'art. 114 l.fall., che afferma la stabilità dei riparti anche oltre la chiusura del fallimento: Cass. n. 20748/2012 che, sia pur con riferimento alla disciplina anteriroe alla riforma, ha rilevato come «'efficacia solo endofallimentare del decreto di esecutività dello stato passivo deve essere coordinata con il principio di intangibilità dei riparti dell'attivo, eseguiti nel corso della procedura, il quale soffre la sola eccezione contemplata espressamente dall'art. 114 dello stesso decreto) previsti dalla legge — l'accertamento (dell'esistenza o dell'inesistenza del diritto azionato), contenuto nel decreto di esecutività, non ha effetto preclusivo al di fuori della procedura in cui sono rese. Ed infatti, da un lato, il debitore, una volta tornato in bonis, può ripetere dal terzo quanto ha percepito sulla base di un'ammissione che dovesse risultare infondata per totale o parziale inesistenza del credito (in senso contrario, Fabiani, 2010, 330 ss., per cui «... le decisioni assunte con la formazione dello stato passivo valgono solo all'interno del fallimento, ma la loro esecuzione (che si esprime...attraverso i riparti), se conforme alla legge, è protetta anche extra-fallimento. Il debitore fallito, dopo la chiusura del fallimento, non può rimettere in discussione le decisioni assunte in ambito fallimentare in funzione di ottenere la restituzione di quanto i creditori abbiano ricevuto») così come, dall'altro lato, il creditore può agire nei confronti del debitore tornato in bonis per il pagamento di un credito in tutto o in parte non ammesso (in dottrina, Guglielmucci, 215, per cui, appunto, l'efficacia meramente endofallimentare del decreto di esecutività lascia «aperta la possibilità... di reclamare dopo la chiusura del fallimento il pagamento di un credito escluso dallo stato passivo, rispettivamente di disconoscere il credito ammesso allo stato passivo e di ripetere le quote attribuite con le ripartizioni dell'attivo»: a nulla rilevando in senso contrario il principio della irripetibilità dei pagamenti eseguiti in sede di riparto, che vale soltanto nei rapporti tra i creditori concorrenti e non nel rapporto tra creditore e debitore, avendo il fallito, una volta tornato in bonis, «la facoltà di far accertare giudizialmente l'inesistenza del credito ammesso e, conseguentemente, di ripetere le somme corrisposte nel fallimento»). Nello stesso modo, se si tratta di diritto, reale o personale, alla restituzione di un bene mobile o immobile di cui il fallito è possessore o proprietario, il rigetto della domanda, con la conseguente permanenza del bene tra quelli acquisiti all'attivo della procedura, non esclude che il terzo, una volta chiuso il fallimento, possa far valere, in applicazione della norma prevista dall'art. 2919 c.c., i propri diritti nei confronti di chi abbia acquistato il bene dal curatore (Nardone, 1201, 1202, il quale, pertanto, sia pur con dubbi di legittimità costituzionale, ne trae la conseguenza dell'intrascrivibilità della domanda di rivendica proposta a norma dell'art. 103 l.fall.), mentre, in caso di accoglimento della domanda, con la conseguente esclusione del bene dalla liquidazione fallimentare, la decisione ha effetto inoppugnabile solo nei confronti dei creditori ma non anche verso il fallito, il quale, dopo la chiusura del fallimento, potrà far valere i propri diritti sul bene (così Fabiani, 2010, 332, 333), e neppure del terzo rivendicante, il quale, infatti, ottenuto il risultato utile di escludere dal patrimonio del fallito il proprio diritto reale immobiliare, potrà poi agire dopo la chiusura del fallimento per il definitivo riconoscimento del proprio diritto (Nardone, 1202; in senso contrario, Pagni, Il nuovo diritto fallimentare, 387, sul rilievo che, in tal caso, l'aggiudicatario, subìta l'evizione, avrebbe il diritto di ripetere dai creditori le somme ad essi distribuite che, però, l'art. 114 l.fall. esplicitamente esclude, ammettendo la ripetibilità delle somme distribuite solo in caso di accoglimento della domanda di rivendicazione: «il che, allora, fa dubitare della praticabilità della via di ritenere che l'efficacia endoconcorsuale riguardi anche le domande di cui all'art. 103 l.fall., se con essa di consente di riaprire al terzo, pure sconfitto sull'opposizione, la possibilità di rivendicare il bene dall'aggiudicatario e nel contempo lasciare quest'ultimo privo di qualsiasi forma di ristoro»; in altra prospettiva, si è ritenuto che il diritto del fallito tornato in bonis di agire nei confronti del rivendicante ex art. 103 l.fall. sia riconoscibile solo se fondato su elementi nuovi rispetto a quelli considerati nel giudizio endofallimentare e, per quanto riguarda le vendite fallimentari, che il regime di stabilità che le caratterizza comporti che chi vanta diritti sui beni venduti potrà esclusivamente agire nei confronti dell'imprenditore fallito ritornato in bonis per ottenere il tantundem, analogamente a quanto previsto dalla disciplina in sede fallimentare: Ferraro, 1326). Sia pur nei limiti che precedono, il decreto di esecutività ha, nell'ambito della procedura fallimentare in cui è reso, efficacia di giudicato (cd. giudicato endofallimentare) o, quanto meno, preclusiva, il cui ambito soggettivo ed oggettivo va determinato, secondo i principi generali, avendo riguardo alla pretesa sostanziale azionata con la domanda di ammissione al passivo e/o con la domanda di restituzione, vale a dire, rispettivamente, il diritto di credito ed il diritto alla restituzione vantato verso il fallito. La preclusione pro iudicato, infatti, è determinata, sul piano oggettivo, dal diritto fatto valere in giudizio e, sul piano soggettivo, dalle parti che vi abbiano partecipato (oltre ai loro eredi o aventi causa), nel senso che solo l'accertamento definitivo (dell'esistenza o dell'inesistenza) di tale diritto, così come contenuto nel provvedimento idoneo a produrre siffatta preclusione, fa stato, come recita l'art. 2909 c.c., ad ogni effetto nei futuri giudizi tra le stesse parti, impedendo, appunto, la successiva proposizione, tra le stesse parti (o i loro eredi o aventi causa), di giudizi aventi ad oggetto l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza dello stesso diritto (petitum) e per fondamento (causa petendi) gli stessi fatti che, come fatti costitutivi ovvero estintivi, modificativi o impeditivi, sono stati dedotti o avrebbero potuto essere dedotti nel precedente giudizio. Nel caso del giudizio di verifica, le parti sono il creditore che propone la domanda, il curatore e tutti gli altri creditori concorrenti: ne consegue che la preclusione pro iudicato opera solo relativamente ad essi e non anche tra parti diverse (Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria, 1392 ss., 1398, dove avverte del rischio di dimenticare che «sempre, l'individuazione dell'ambito oggettivo del giudicato passa attraverso la determinazione dei suoi limiti soggettivi, e che pertanto la preclusione può operare, ma solo a patto che il condizionamento sull'eventuale ulteriore giudizio, promosso per impugnare il titolo dal quale deriva il diritto al concorso, si riferisca ad un processo che coinvolga le stesse parti (creditore e curatore) di quello di verifica dei crediti. Il che significa che l'accertamento con efficacia di giudicato del diritto al concorso può implicare l'accertamento con efficacia di giudicato di tutto ciò che attiene alla ragione creditoria, unicamente quando non sia abbia la pretesa di esportare gli effetti della decisione giudiziale in una situazione processuale relativa a parti diverse, come avviene col creditore e il fallito una volta che il fallimento sia chiuso e il debitore sia tornato in bonis». Fabiani, 2011, 1093 ss., 1094-1095. In altra prospettiva, tra le parti sostanziali deve comprendersi anche il fallito: Russo, 41 ss., 77 ss., dove, tra l'altro, evidenzia che «... nel meccanismo fallimentare, il curatore è chiamato alternativamente a sostituirsi al fallito, per integrarne la menomata incapacità (relativa), quando si discuta del fatto che esista un rapporto giuridico destinato a refluire nel patrimonio assoggettato; ovvero ai creditori, quando si controverta sull'opponibilità del titolo al fallimento»; così anche Pellegrino, 41, dove parla di «... sostituzione processuale del fallito con il curatore fallimentare che, riconosciuto pacificamente per i giudizi promossi a norma dell'art. 43 l.fall. e per quelli di impugnazione dello stato passivo, si attua anche nella fase della verificazione dei crediti») mentre l'oggetto è costituito, secondo alcuni, dal diritto di credito verso il fallito mentre, secondo altri, dal diritto al concorso. A quest'ultimo proposito, l'opinione più diffusa è nel senso che il decreto di esecutività contiene l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza del credito vantato nei confronti del fallito (in tal senso, prima della riforma, Bozza-Schiavon, 1 ss. e, in particolare, 6, 7, 8, dove evidenziano, tra l'altro, come «... comunque si configuri il diritto al concorso, non possa escludersi dall'oggetto del tema decisorio l'accertamento del credito insoddisfatto, sia pure nell'ottica processuale che mira alla partecipazione al concorso e al soddisfacimento in sede di riparto...»: pertanto, «oggetto del decisum deve essere proprio il credito, anche se in funzione della partecipazione al giudizio esecutivo cui l'accertamento è finalizzato», e non «il diritto al concorso», il quale «altro non è che la manifestazione processuale del diritto sostanziale di credito, il quale, in sé, non può non comprendere, fra le altre, la facoltà di utilizzare lo strumento processuale specificamente previsto dal legislatore per il suo riconoscimento nell'ambito del concorso»; Lanfranchi, 389; Pellegrino, 23, per cui «il provvedimento emesso dal giudice delegato in sede di verifica dei crediti ha natura giurisdizionale perché risolve delle controversie in ordine a diritti fatti valere e contiene un accertamento, positivo o negativo, in ordine all'esistenza, all'ammontare ed alla natura del credito stesso e del privilegio», e 27 ss., 54 ss.. Dopo la riforma: De Santis, 367 ss., 380-381, dove evidenzia come «il decreto che rende esecutivo lo stato passivo... — per le parti non impugnate ai sensi dell'art. 99 l.fall. – consente il consolidarsi del giudicato endofallimentare intorno al credito (ovvero al diritto mobiliare o immobiliare) ammesso o escluso». Cavallini, 703, per il diritto oggetto del procedimento è il diritto di credito tout court considerato, idoneo, una volta individuato, ad interrompere la prescrizione e ad impedire la decadenza, al pari di ogni situazione giuridica soggettiva fatta valere in un giudizio cognitivo destinato all'irrevocabilità della decisione, sia pur ai limitati fini del concorso, e 707 e nt. 13; in senso contrario, per l'idea, cioè, che l'oggetto del giudizio di verificazione non è la pretesa creditoria vantata, sul piano sostanziale, dal creditore, nei confronti del debitore poi fallito, bensì il c.d. diritto al concorso, ossia una situazione giuridica soggettiva, di natura processuale, tipica e peculiare del giudizio in esame, corrispondente al diritto per il creditore medesimo di essere tenuto in considerazione in sede di riparto, v., prima della riforma: Ricci, 51 ss., per il quale l'oggetto del giudizio di verifica è, invece, non il diritto di credito ma il diritto soggettivo, di carattere sostanziale, al concorso, vale a dire il diritto di partecipare alla ripartizione del ricavato della liquidazione fallimentare del quale il credito costituisce solo un elemento della fattispecie, per cui la questione della sua sussistenza o meno riveste carattere pregiudiziale ed è oggetto di cognitio incidenter tantum. Bonfatti, 1997, 278 ss., per cui «... l'oggetto della decisione (del giudice delegato) resa sulla domanda di insinuazione al passivo fallimentare è... individuato nel diritto al concorso: intendendo come tale una situazione giuridica che postula la sussistenza del credito (o del diritto di prelazione) fatto valere, ma non si esaurisce in essa, comprendendo anche il necessario accertamento di requisiti (di opponibilità; di efficacia; ecc.) ulteriori e diversi... che attengono non al rapporto sostanziale tra creditore e debitore (fallito), bensì al rapporto tra ogni singolo creditore e quel curatore fallimentare...», per cui, «nelle fattispecie, nelle quali il provvedimento reso sulla domanda di ammissione al passivo postuli anche un accertamento sulla sussistenza del rapporto sostanziale di credito tra l'insinuante ed il debitore fallito, deve attribuirsi alla cognizione intervenuta su tale tema un carattere meramente incidentale, come quello assegnato dall'art. 34 cod. proc. alle situazioni giuridiche pregiudiziali». Fabiani, 1997, 1084 ss., p. 1093, per cui «'oggetto dell'accertamento del passivo è l'accertamento del diritto al concorso, mentre l'accertamento del credito costituisce solo una questione pregiudiziale da risolvere senza effetto di giudicato secondo quanto disposto dall'art. 34 codice di procedura civile». Dopo la riforma: Guglielmucci, 215, per cui «oggetto dell'accertamento è... il diritto di partecipare al riparto, rispetto al quale l'accertamento del credito costituisce oggetto di cognitio incidenter tantum». Fabiani, 2010, 329 ss., per il quale «l'oggetto del processo è una porzione più ampia del diritto di credito, è il diritto di credito assistito dal requisito della concorsualità». Fabiani, 2011, 1093 ss., 1097 ss. e 1102, dove parla di diritto di credito nella sua porzione concorsuale quale sorta di «diritto a tempo, cioè un diritto che viene affermato per un limitato spazio temporale, quello di apertura della procedura di fallimento». Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria, 1392 ss., 1395 ss., dove rileva come «...il diritto di partecipare al riparto, nel fallimento, è la conseguenza delle caratteristiche che il credito deve avere, per essere opponibile alla massa dei creditori: talora il credito ne è accompagnato, talora ne è privo. E quando questo succede, la domanda di ammissione al passivo viene respinta anche se il credito in realtà esiste, perché mancano alcuni elementi che giocano come fatti costitutivi del petitum del creditore: l'anteriorità del credito rispetto all'apertura del fallimento, salvo quanto dispone l'art. 111-bis l.fall.; l'opponibilità al ceto creditorio; la non revocabilità del titolo da cui il credito discende. Per converso, l'esistenza del credito è condizione necessaria per l'insinuazione, ma non è condizione sufficiente, se il credito non ha attitudine a concorrere nella procedura concorsuale»: in tale prospettiva, quindi, «se il diritto azionato ex art. 93 l.fall. è l'attitudine del credito a concorrere nel fallimento (e dunque il diritto al concorso), l'esistenza del credito è, allora, già essa, questione pregiudiziale rispetto all'oggetto dell'accertamento compiuto dal giudice delegato e, con essa, è questione pregiudiziale... ogni questione che riguardi la validità e l'efficacia del titolo da cui quel credito discende...». «Il diritto al concorso altro non è che la proiezione, in seno alla procedura fallimentare, del diritto di credito e della sua attitudine a partecipare alla distribuzione del ricavato: e perciò quest'ultimo, e i fatti-diritti che ne compongono la fattispecie costitutiva (con le onnesse questioni di validità, efficacia e revocabilità del titolo), sono necessariamente fatti valere col primo...» e, come tali, investiti dall'efficacia preclusiva, sia pur solo endoconcorsuale, del decreto di esecutività, che, una volta definitivo, esclude la possibilità di riproporre ogni questione concernente l'esistenza del credito, la sua entità, l'effiacia del titolo da cui deriva, l'esistenza di cause di prelazione. Guizzi, 277. In giurisprudenza, Cass. n. 7774/2012 ha ritenuto che «in tema di effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, il giudicato formatosi tra il fallito ed un creditore sulla validità dell'atto a titolo gratuito compiuto nel biennio anteriore alla dichiarazione di fallimento non preclude al curatore di farne valere l'inefficacia nei confronti della massa, ai sensi dell'art. 64 l.fall., in quanto tale conseguenza, derivante dal proprio fallimento e quindi non deducibile prima, non incide sull'accertamento contenuto nel giudicato (alla stregua di fatto impeditivo, estintivo o modificativo del credito), ma soltanto su detta opponibilità; inoltre, dal momento che la declaratoria di inefficacia ex art. 64 l.fall., a differenza di quella ex art. 67 l.fall., non esige una pronuncia costitutiva, il curatore può dedurre l'inefficacia dell'atto a titolo gratuito, anziché con apposita domanda, anche con un'eccezione riconvenzionale, diretta semplicemente a paralizzare la pretesa del creditore». La motivazione della sentenza è interessante: «Secondo la giurisprudenza costante e consolidata di questa Corte... l'efficacia del giudicato si estende, oltre a quanto dedotto dalle parti (c.d. giudicato esplicito), anche alle ragioni di fatto o di diritto che si presentano come un antecedente logico necessario della pronuncia (c.d. giudicato implicito) e che pertanto non possono essere fatte valere in un successivo giudizio per contrastare il diritto definitivamente accertato (cfr., fra tante, Cass. n. 3434/2011, Cass. n. 8650/2010, Cass. n. 18791/09, Cass. n. 15343/2009). È tuttavia altrettanto consolidato il principio (che può, del resto, ricavarsi a contrario dalle medesime pronunce richiamate dalla ricorrente) che non sono coperti dal giudicato i fatti e le situazioni nuove o che, quantomeno, non erano deducibili nel giudizio in cui il giudicato medesimo si è formato (Cass. n. 15807/2009, Cass. n. 21069/2004). Fra i fatti anteriormente non deducibili certamente rientra la questione concernente l'inefficacia, nei confronti della massa, del credito consacrato nel titolo giudiziale, in quanto nascente da un atto a titolo gratuito compiuto dal fallito nel biennio anteriore alla sentenza dichiarativa: la sanzione di inefficacia di cui alla l.fall., art. 64, discende infatti direttamente dalla dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che l'unico soggetto legittimato a farla valere è il curatore. La questione non può pertanto ritenersi preclusa dal precedente giudicato formatosi fra il creditore e il fallito, che abbia definitivamente accertato la sussistenza e la validità del titolo azionato dal primo nei confronti del secondo. La declaratoria di inefficacia, d'altro canto, non costituisce fatto impeditivo, estintivo o modificativo del credito, ma, limitandosi a rendere inopponibile al fallimento il titolo che ne costituisce la fonte, non incide in alcun modo su detto accertamento (cfr. Cass. n. 1180/1978)». La Corte, quindi, parlando di «questione concernente l'inefficacia, nei confronti della massa, del credito consacrato nel titolo giudiziale», sembra non aderire al concetto di diritto al concorso, facendo propria, piuttosto, la tesi che individua quale oggetto del procedimento di verifica del passivo il diritto sostanziale di credito vantato nei confronti del fallito, «per quanto non valutato solamente quoad existentiam ma anche nella sua opponibilità al fallimento, ovvero, come si è parimenti detto, nella sua capacità di partecipare al concorso»). Le implicazioni, sul piano dei limiti oggettivi del giudicato, sono evidenti. Se, infatti, l'oggetto del giudizio è il diritto al concorso, il giudicato o, se si vuole, il suo effetto preclusivo, riguarderà solo tale situazione soggettiva e non anche (almeno il via diretta) il credito sottostante che, della stessa, costituisce solo uno dei fatti-diritto costitutivi, vale a dire una mera questione pregiudiziale in senso tecnico ex art. 34 c.p.c. (Fabiani, 1997, 1084 ss., 1093, per cui «oggetto dell'accertamento del passivo è l'accertamento del diritto al concorso, mentre l'accertamento del credito costituisce solo una questione pregiudiziale da risolvere senza effetto di giudicato secondo quanto disposto dall'art. 34 codice di procedura civile»), a meno di non configurare le questioni relative alla sua esistenza come questioni pregiudiziali in senso logico del diritto al concorso e, come tali, investite sempre dal giudicato (Pagni, Accertamento del passivo e revocatoria, 1397, dove rileva che «se il diritto azionato ex art. 93 l.fall. è l'attitudine del credito a concorrere nel fallimento (e dunque il diritto al concorso), l'esistenza del credito è, allora, già essa, questione pregiudiziale rispetto all'oggetto dell'accertamento compiuto dal giudice delegato. E, con essa, è questione pregiudiziale, come del resto affermano le Sezioni Unite, ogni questione che riguardi la validità e l'efficacia del titolo da cui quel credito discende, nonché, per tornare al caso di specie, l'accertamento del controcredito dedotto in compensazione. Intendere in modo ampio i limiti oggettivi del giudicato, in presenza di ipotesi di pregiudizialità logica, significa, con riferimento all'ipotesi che ci occupa, ritenere che, nonostante l'assenza di una esplicita domanda di parte, la portata della decisione assunta nel giudizio di verifica si estenda alle questioni che abbiamo menzionato, trattandosi di presupposti del diritto al concorso e non di rapporti distinti rispetto ad esso. Il diritto al concorso altro non è che la proiezione, in seno alla procedura fallimentare, del diritto di credito e della sua attitudine a partecipare alla distribuzione del ricavato: e perciò quest'ultimo, e i fatti-diritti che ne compongono la fattispecie costitutiva (con le connesse questioni di validità, efficacia e revocabilità del titolo), sono necessariamente fatti valere col primo...». La diversità del credito e l'ammissione tardivaL'art. 101 l.fall., nel testo originario, prevede che «anche dopo il decreto previsto dall'articolo 97, fino a che non siano esaurite tutte le ripartizioni dell'attivo fallimentare, i creditori possono chiedere con ricorso al giudice delegato l'ammissione al passivo». La norma, richiamata dall'art. 103 l.fall. per le domande di rivendicazione, restituzione e separazione di cose mobili possedute dal fallito, prevede, quindi, che sono tardive tutte le domande di ammissione e/o di rivendica/restituzione (mobiliare) presentate dopo il decreto di esecutività dello stato passivo. La domanda è proposta con ricorso al giudice delegato ed è definita con decreto di accoglimento ovvero, in caso di contestazione del curatore ovvero dello stesso giudice delegato, con sentenza del tribunale all'esito di un giudizio ordinario. A seguito della riforma, il nuovo testo dell'art. 101 l.fall., così come modificato dalla riforma del 2006, prevede, invece, che sono «considerate» tardive le domande di ammissione al passivo di un credito e/o le domande di restituzione o rivendicazione di beni mobili o immobili proposto oltre il termine di trenta giorni prima dell'udienza fissata per la verifica del passivo e non oltre quello di dodici/diciotto mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo: le domande proposte oltre quest'ultimo termine e fino all'esaurimento delle ripartizioni dell'attivo, sono ammissibili solo se l'istante prova che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile. Trovano, inoltre, applicazione le norme previste per l'esame delle domande tempestive, così come previste dagli artt. da 93 a 97 l.fall., ivi compresa, quindi, l'efficacia della pronuncia sulla domanda tardiva ai soli fini del concorso e la sua impugnabilità con i rimedi previsti dall'art. 98 l.fall. Sul piano sostanziale, l'insinuazione tardiva può avere ad oggetto solo l'accertamento di diritti di credito (ovvero di diritti restitutori) diversi, per petitum e/o causa petendi, da quelli che siano già stati azionati con domanda tempestiva (ovvero, a seguito della riforma, con precedente domanda tardiva), quale che ne sia stato l'esito. In tal senso, in effetti, depone sia il testo dell'art. 101 l.fall., nella sua versione originaria, dove, al terzo comma, espressamente richiede(va) che la domanda di ammissione tardiva abbia ad oggetto un «nuovo credito» (Ragusa Maggiore, 222; dopo la riforma, Ferraro, 1285), sia, a ben vedere, l'efficacia, come sopra illustrata, del decreto di esecutività dello stato passivo tempestivo (ed, a seguito della riforma, del decreto di esecutività di un precedente stato passivo tardivo ovvero, prima della riforma, di un decreto o di una sentenza di ammissione tardiva) pronunciato dal giudice delegato: questo, infatti, ove non impugnato, impedendo la successiva proposizione, tra le stesse parti (e cioè, come visto, il creditore ed il curatore), di giudizi aventi ad oggetto l'accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza dello stesso diritto (petitum) e sul fondamento (causa petendi) degli stessi fatti già dedotti come suoi fatti costitutivi, evidentemente preclude al creditore, che ha proposto una domanda tempestiva (ovvero una precedente domanda tardiva) di ammissione di un credito, di richiedere, in via tardiva (o in via ulteriormente tardiva), l'ammissione al passivo dello stesso credito. Nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. n. 20534/2011, per cui, «... costituisce ius receptum nella giurisprudenza della Corte il principio secondo cui «l'ammissione ordinaria e quella tardiva al passivo fallimentare sono altrettante fasi di uno stesso accertamento giurisdizionale, sicché, rispetto alla decisione concernente una insinuazione tardiva di credito, le pregresse decisioni, riguardanti la insinuazione ordinaria, hanno valore di giudicato interno e quindi un credito, per potere essere insinuato tardivamente, deve essere diverso, in base ai criteri del petitum e della causa petendi, da quello fatto valere nella insinuazione ordinaria»; Cass. n. 4282/2012, per cui «... l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, a tenore del quale, poiché l'insinuazione ordinaria e quella tardiva costituiscono altrettante fasi di uno stesso accertamento giurisdizionale, le pregresse decisioni riguardanti l'ammissione in via ordinaria hanno valore di giudicato interno rispetto alla decisione concernente l'ammissione tardiva di un credito, con la conseguenza che quest'ultimo, per poter essere insinuato tardivamente, dev'essere diverso da quello fatto valere con l'insinuazione ordinaria, sotto il duplice profilo del petitum e della causa petendi...». Cass. n. 9317/2013, in motiv., per cui «... l'ammissione ordinaria e quella tardiva al passivo fallimentare sono altrettante fasi di uno stesso accertamento giurisdizionale, con la conseguenza che, rispetto alla decisione concernente un'insinuazione tardiva di credito, le pregresse decisioni riguardanti l'insinuazione ordinaria hanno valore di giudicato interno, con la conseguenza, ancora, che un credito, per poter essere insinuato tardivamente, deve essere diverso (in base ai criteri del «petitum» e della «causa petendi») da quello fatto valere nell'insinuazione ordinaria, fermo restando che, ad integrare la diversità della domanda, non è sufficiente il mero dato quantitativo e neanche una diversa connotazione del medesimo credito«. Nella giurisprudenza di merito, Trib. Roma 12 aprile 2001, per cui «in base al principio, secondo cui oggetto dell'insinuazione tardiva di credito può essere soltanto un credito nuovo e diverso da quello che è stato in precedenza insinuato in sede di verifica e che la domanda originariamento copre il dedotto ed il deducibile, non è ammissibile far valere un credito fondato sullo stesso titolo obbligatorio fatto valere tempestivamente». Trib. Milano 18 settembre 2000, per cui «l'ammissione tempestiva dei crediti e quella tardiva costituiscono fasi di uno stesso accertamento giurisdizionale, con la conseguenza che le decizioni assunte in sede di verifica svolgono effetti di giudicato interno nel giudizio di insinuazione tardiva. Pertanto il credito, perché possa essere insinuato in via tardiva deve essere diverso da quello fatto valere in via tempestiva e tale non è quello che presenta un differente dato quantitativo, oppure un'altra qualificazione giuridica». Tra la pronuncia (definitiva) sulla domanda tempestiva (o, a seguito della riforma, sulla domanda tardiva) e la successiva proposizione di (altra) domanda tardiva, sussiste, in definitiva, una relazione che va risolta in applicazione dei principi della preclusione pro iudicato, per cui è precluso il ricorso all'insinuazione tardiva per quei crediti che sono stati comunque già sottoposti al giudizio del giudice delegato, qualunque ne sia stato l'esito. In definitiva, l'insinuazione tardiva è ammissibile esclusivamente: per i creditori che non hanno proposto alcuna domanda di ammissione tempestiva; per i creditori che hanno proposto la domanda di ammissione tempestiva ma vi abbiano rinunciato; per i creditori che hanno proposto una domanda di ammissione tempestiva ma per crediti diversi da quelli già azionati (e sempre che sugli stessi il giudice delegato non abbia esplicitamente o implicitamente provveduto). Il creditore che ha proposto la domanda tempestiva, invece, non può proporre, quale che ne sia stato l'esito, la domanda tardiva per lo stesso credito: il creditore escluso in tutto o in parte, relativamente al credito già azionato (ovvero per la parte non ammessa), può solo proporre l'opposizione allo stato passivo (Bonfatti, 1981, 299 ss., 310 ss. Pellegrino, 367 ss. Dopo la riforma, v. Ferraro, 1285, 1286). La preclusione, però, deriva solo dalla pronuncia («definitiva», e cioè non più impugnabile: in caso di pendenza del giudizio di impugnazione e/o di opposizione, si porrebbe al più un problema di litispendenza con la successiva domanda tardiva avente ad oggetto il medesimo credito) del giudice delegato (di accertamento dell'esistenza o dell'inesistenza, in tutto o in parte) del credito azionato in via tempestiva. Nessuna preclusione alla domanda tardiva, invece, consegue ad un decreto che sanzioni la domanda tempestiva già proposta per il medesimo credito, per difetto di requisiti formali o di legittimazione ad causam, con l'inammissibilità: tant'è che, a seguito della riforma, è stato espressamente stabilito che l'inammissibilità della domanda non ne impedisce la riproposizione (Pellegrino, 370 ss. Russo, 265, 266. Montanari, 889 ss., 894. Provinciali, 1501. Bonfatti, 299 ss., 318 ss.). Ove ciò non accada, la domanda tardiva è sanzionata con l'inammissibilità, rilevabile d'ufficio (a prescindere, quindi, dalla formale costituzione in giudizio del curatore): e ciò, si noti, secondo i principi generali in matera di giudicato, come sopra illustrati, pur se il fatto storico già fatto valere con la domanda di insinuazione tempestiva sia stato diversamente qualificato sul piano giuridico. In dottrina, sui rapporti generali tra insinuazione tempestiva ed insinuazione tardiva e la conseguente necessità della novità del credito Bozza-Schiavon, 91, per cui «... il creditore che abbia visto accolta la propria domanda in sede di verifica, non può richiedere un'ammissione tardiva se il credito oggetto della nuova domanda non sia diverso per petitum e causa petendi, stante l'effetto preclusivo derivante dal primo provvedimento non opposto, che copre sia il dedotto (quanto cioè ha costituito oggetto esplicito del giudizio), sia il deducibile (cioè l'insieme delle ragioni giuridiche che, pur non essendo state fatte valere in causa in modo specifico, avrebbe potuto o dovuto essere prospettato e delle questioni comprese nella sfera logico-giuridica della decisione o con essa non compatibili)». Bonfatti, 1981, 299 ss., 311 ss., per cui «l'insinuazione del credito nel passivo fallimentare... — e se il confronto riguarda più spesso domande tardive e domande tempestive, analogo conflitto può sorgere tra domande egualmente proposte dopo il decreto di esecutività dello stato passivo... — produce una sorta di «consumazione» dei mezzi a disposizione del creditore per partecipare al concorso sui beni del fallito, vuoi che l'insinuazione sia stata accolta, vuoi che sia stata respinta. Nella seconda ipotesi, infatti, il ricorrente può solamente proseguire sulla via dell'opposizione prevista dall'art. 98 l.fall.... Oltretutto, si ritiene che l'effetto preclusivo derivante dalla decisione resa su di una domanda, rispetto alla proponibilità di altre domande ad essa connesse sotto il profilo oggettivo, si possa estendere a di là del «dedotto» (e cioè di quanto ha costituito l'oggetto esplicito del giudizio), sino a ricomprendere anche il «deducibile»; intendendosi con questa espressione l'insieme delle ragioni giuridiche che pur non essendo state fatte valere in causa in modo specifico, tuttavia avrebbero potuto – o dovuto – esserlo, in via di azione o di eccezione»; Didone, 1991, 29 ss., per cui «il problema dei rapporti fra dichiarazione tardiva e la precedente fase della verifica tempestiva va... affrontato e risolto... semplicemente mediante applicazione dei principi in materia di giudicato, trattandosi in ogni caso di rapporti fra domanda presentata tempestivamente e domanda presentata tardivamente, posto che le pronunce definitive emesse sulla prima sono suscettibili di produrre gli effetti di cui agli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c. col risultato che la seconda, soggetta all'exceptio iudicati, non può che essere respinta», con la conseguente applicazione dei principi in materia di individuazione dei limiti oggettivi del giudicato, compreso quello per cui il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, sicché la definitività dello stato passivo del fallimento spiega i suoi effetti vincolanti anche con riguardo al quantum dei crediti ammessi, talché non è consentita la successiva proposizione di istanza di ammissione tardiva per pretendere maggiori importi che si assumano discendenti dallo stesso titolo già fatto valere con la precedente domanda di ammissione, come, ad esempio, ulteriori spettanze per indennità di fine rapporto, così come al creditore che abbia chiesto l'ammissione al passivo di un credito in via chirografaria e l'abbia ottenuta conformemente alla sua domanda, non è consentito chiedere tardivamente, ex art. 101 l.fall., l'accertamento di un diritto di prelazione giacché un tale diritto, non incluso nella domanda di ammissione al passivo, non può esser fatto valere in un momento successivo della procedura fallimentare, stante il carattere accessorio della prelazione, che l'art. 93 l.fall. impone di indicare nella domanda. Dopo la riforma, v. Guglielmucci, 222, per cui «la dichiarazione tempestiva e quella tardiva aprono differenti fasi di uno stesso accertamento giurisdizionale, con la conseguenza che, rispetto alla decisione concernente un'insinuazione tardiva di credito, le pregresse decisioni riguardanti l'insinuazione ordinaria hanno valore di giudicato interno e quindi un credito, per poter essere insinuato tardivamente, deve essere diverso (in base ai criteri del petitum e della causa petendi) da quello fatto valere nell'insinuazione ordinaria». De Simone, 309 ss., 313, 314, per cui, «... al momento del vaglio delle domande di ammissione tardive le precedenti decisioni, riguardanti le insinuazioni tempestive o altre tardive devono considerarsi definitive, hanno valore di giudicato interno, ed in seno alla procedura fallimentare spiegano un effetto preclusivo sia del decotto che del deducibile. Costituisce, pertanto, domanda nuova solo quella che risulti fondata su presupposti di fatto e situazioni giuridiche non prospettate in precedenza, così da importare il mutamento dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio... in modo da porre in essere una pretesa diversa, nella sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in precedenza... occorre indagare se la proposizione di nuovi elementi fattuali consenta di considerare differente la situazione sostanziale dedotta e quindi ritenerla azionabile separatamente o se i nuovi elementi prospettati siano comunque riconducibili ad un rapporto da valutarsi come unitario e corrispondente ad un interesse omogeneo ed inscindibile del creditore...». Pofi, 452 ss., per cui, considerato che il giudicato endofallimentare copre sia il dedotto che il deducibile, la domanda tardiva può riguardare un credito del tutto diverso – sia per petitum sia per causa petendi – da quello già richiesto ed ammesso nella precedente fase del procedimento. Il presupposto della novità del credito è interpretato con estremo rigore, impedendo, ad esempio, che possa essere richiesta l'ammissione tardiva di un privilegio relativo ad una pretesa già insinuata in sede tempestiva in collocazione chirografaria (Pellegrino, 373 ss., sul rilievo, tra l'altro, che il creditore, a norma dell'art. 93 l.fall., deve indicare, oltre al credito, il titolo da cui deriva anche la causa di prelazione, e che il provvedimento del giudice delegato ha efficacia di giudicato o comunque preclusiva nell'ambito della procedura fallimentare e copre il dedotto ed il deducibile; Trisorio Liuzzi, 2012 434-435, per cui «...l'accertamento della qualità del credito è strettamente connesso all'accertamento dell'esistenza dello stesso credito, sì da costituirne una unità inscindibile; l'accertamento dell'esistenza della prededuzione o di una causa di prelazione non potrebbe costituire oggetto di una autonoma indagine e decisione una volta dichiarato esecutivo lo stato passivo. Ai sensi dell'art. 2745 c.c. il privilegio «è accordato dalla legge in considerazione della causa del credito»; ne consegue che il privilegio è strettamente connesso con il credito, nel senso che è difficile ipotizzare una tutela giurisdizionale autonoma del privilegio, separata dal credito. Indubbiamente è possibile che, ammessa l'esistenza di un determinato credito, sorga controversia in ordine alla natura privilegiata o no del credito stesso; ma non è possibile pensare ad una controversia astratta sulla sola esistenza di una causa di prelazione, indipendentemente dalla sussistenza del credito. Ne consegue che se il creditore non chiede che il proprio credito venga ammesso in via privilegiata, il giudice delegato deve ammettere il credito in chirografo ed è preclusa la strada dell'insinuazione tardiva per conseguire il riconoscimento della prelazione...». In senso favorevole, invece, Provinciali, 1502, sul rilievo che il giudicato, implicito o esplicito, riguarda solo l'accertamento dell'esistenza e dell'entità del credito, e non anche, quindi, la diversa questione dell'esistenza o meno della causa di prelazione, che, pertanto, è suscettibile di essere dedotto con domanda di ammissione tardiva. In giurisprudenza, Cass. n. 2438/1979: «al creditore, il quale abbia chiesto ed ottenuto l'ammissione al passivo fallimentare di un credito in via chirografaria, resta precluso di instare tardivamente, nelle forme di cui all'art. 101 l.fall., per far accertare un diritto di prelazione (nella specie, pegno) che assista in tutto od in parte la pretesa già ammessa...»; Cass. n. 4312/1993, per la quale «è preclusa — una volta che sia stata proposta ed accolta la domanda di ammissione al passivo di un credito in via privilegiata e non impugnato lo stato passivo — la successiva domanda di ammissione tardiva, ai sensi dell'art. 101 l.fall., del medesimo credito (relativo, nella specie, all'indennità di anzianità) con riconoscimento della sua prededucibilità ai sensi dell'art. 111 n. 1) della stessa legge»; Cass. n. 11286/1996: «l'accoglimento (così come anche il rigetto), da parte del Giudice delegato, di una domanda tardiva di ammissione di un credito esaurisce, ove manchino opposizioni, il potere decisionale del medesimo giudice e, giusta l'applicazione della regola generale del «ne bis in idem», non consente, conseguentemente, il successivo riesame dello stesso credito con riferimento ad una causa di prelazione precedentemente non prospettata». Il principio per cui non è possibile insinuare tardivamente un credito già insinuato in via tempestiva non è, peraltro, assoluto. Esistono, infatti, alcune eccezioni, a fronte delle quali viene meno la preclusione pro iudicato conseguente al decreto sulla domanda tempestiva. In particolare, si è ritenuto che si possa proporre domanda di ammissione tardiva dello stesso credito (per intero ovvero per una sua parte ulteriore o per una diversa collocazione) insinuato tempestivamente per effetto di: fatti sopravvenuti (e come tali neppure deducibili in sede di verifica tempestiva), come la successiva emersione di danni da illecito extracontrattuale quando la relativa pretesa risarcitoria sia stata respinta per accertata insussistenza di quei medesimi danni (Montanari, 889 ss., 892); superamento di un originario impedimento di fatto (come l'indisponibilità delle restanti cambiali rispetto a quelle utilizzate per la domanda tempestiva; non può, invece, considerarsi come un impedimento rilevante, ai fini in esame e, precisamente, per la collocazione ipotecaria o privilegiata di un credito già ammesso al chirografo in sede tempestiva, la sopravvenuta acquisizione alla massa attiva fallimentare del bene vincolato: il creditore, infatti, avrebbe ben potuto (e quindi dovuto, per evitare la preclusione) chiedere sin dalla domanda tempestiva l'ammissione al passivo in collocazione ipotecaria o privilegiata, a nulla rilevando, ad es., che, in quel momento, il bene non è acquisito alla procedura, formulando la richiesta di ammissione con privilegio sul bene sotto la condizione sospensiva (art. 55, comma 3, l.fall.) che gli stessi in un modo o nell'altro siano recuperati all'attivo fallimentare: Cass. n. 4565/2003) o di diritto (per effetto di ius supervenies ovvero di una sentenza della Corte costituzionale: Zanichelli, 99 ss; Ragusa Maggiore, 222. Bonfatti, 1981, 359, 360 361, 362; in giurisprudenza di legittimità, Cass. n. 10783/1999, per cui «... l'insinuazione tardiva ha per oggetto esclusivamente i crediti per i quali non sia stata richiesta tempestivamente l'ammissione al passivo, attraverso la quale, con l'eventuale fase della opposizione, si determina una preclusione alla riproponibilità della domanda; è pertanto necessario, a pena di inammissibilità, che la domanda tardivamente proposta sia nuova, salvo che il «petitum» esigibile non sia stato richiesto per intero con l'insinuazione tempestiva, per un impedimento giuridico o di fatto, nel qual caso non è configurabile la formazione di un giudicato interno impeditivo della insinuazione tardiva per la parte non richiesta originariamente). La preclusione conseguente al decreto di ammissione del credito impedisce, invece, la possibilità di insinuare in via tardiva una prelazione conseguente ad una sentenza della Corte costituzionale (come, ad esempio, quella relativa agli interessi sui crediti privilegiati a seguito della sentenza della Corte cost. n. 162/2001, cfr., in tal senso, Minutoli, 701 ss., 703 ss., sul rilievo che l'efficacia dele sentenze di incostituzionalità non si estende ai rapporti esauriti in amniera definitiva ed irrevocabile; Celentano, 1128 ss., 1136, 1137, per cui «nei casi in cui... l'effetto della dichiarazione dell'illegittimità costituzionale di una norma sia costituito dall'attribuzione di un privilegio ad una determinata categoria di crediti in precedenza considerati dalla legge come meramente chirografari, il credito appartenente a tale categoria in precedenza definitivamente ammesso al passivo come chirografario rimarrà tale, l'efficacia retroattiva di una siffatta dichiarazione trovando un insuperabile limite nella preclusione derivante dal giudicato endofallimentare sull'inesistenza di una ragione di prelazione. Il medesimo discorso vale per i casi in cui la dichiarazione dell'illegittimita` costituzionale di una norma importi la degradazione a meramente chirografario di un credito in precedenza privilegiato e come tale definitivamente ammesso al passivo fallimentare»). Può essere, invece, insinuata in via tardiva la prelazione introdotta da una normativa sostanziale sopravvenuta (esplicitamente o implicitamente) retroattiva (nella giurisprudenza di legittimità, v.: Cass. n. 235/1980, per la quale «la disciplina transitoria dettata dall'art. 15 della legge 29 luglio 1975 n. 426, recante modificazioni al codice civile ed alla legge 30 aprile 1969 n. 153 in materia di privilegi, comporta che i nuovi privilegi attribuiti dalla legge medesima (nella specie, in favore di credito di cooperativa per la vendita di manufatti, ai sensi dell'art. 2751-bis n. 5 c.c.) assistono anche i crediti sorti anteriormente alla sua entrata in vigore, a prescindere dal tempo in cui siano stati azionati in sede concorsuale, e, quindi, anche i crediti prima chirografari, e come tali ammessi al passivo fallimentare, con la conseguenza che i privilegi medesimi possono essere esercitati, pure dopo l'approvazione dello stato passivo e fino a quando il riparto non sia divenuto definitivo, anche con le forme dell'insinuazione tardiva, prevista dall'art. 101 della legge fallimentare, in deroga al principio altrimenti operante, sulla non utilizzabilità di quest'ultima per il riconoscimento di un privilegio per credito gia ammesso al passivo in via chirografaria». Sui limiti e i presupposti affinché una legge possa essere retroattiva, cfr., in tema di nuovo privilegio artigiano, così come previsto dall'art. 2751-bis n. 5 c.c., nel testo riscritto dall'art. 36 del d.l. n. 5/2012, conv. con la l. n. 35/2012, v. Cass. n. 11154/2012, la quale ha ritenuto che «va escluso... che la nuova disposizione abbia natura interpretativa (e conseguente valenza retroattiva), non solo perché priva di un'espressa previsione a riguardo, ma anche in ragione dell'assenza di quei presupposti (situazioni di incertezza o significativi contrasti giurisprudenziali nell'applicazione del precedente testo, necessità di ristabilire un'interpretazione più aderente all'originaria volontà del legislatore) che, a tutela del valore della certezza del diritto e del principio costituzionale di uguaglianza, consentono il superamento del divieto di irretroattività della legge, sancito dall'art. 11 preleggi, il quale, come ripetutamente ricordato dalla Corte costituzionale, rappresenta una regola essenziale del sistema, cui il legislatore deve ragionevolmente attenersi, salvo un'effettiva causa giustificatrice (Corte costituzionale nn. 78/2012, 209/2010, 311/2009, 155/90)»; in dottrina, Trisorio Liuzzi, 2011, 1044 ss., 1045, 1046, dove mostra di condividere l'indirizzo giurisprudenziale «... che riconosce al creditore, già ammesso in chirografo, di presentare domanda in via tardiva per conseguire l'ammissione in privilegio, allorché il privilegio sia stato istituito da una legge successiva. In tal ipotesi, infatti, la causa di prelazione viene ad esistenza dopo la presentazione della domanda, sicché non puo` derivare alcuna preclusione a carico del creditore. In caso contrario sorgerebbero seri dubbi di legittimità costituzionale, causa il differente trattamento di situazioni identiche...». Celentano, 1128 ss., 1136, 1137), salva, però, la necessità di verificare la legittimità costituzionale delle nuove norme che, in quest'ultima ipotesi, ledano l'intangibilità del giudicato (cfr. Corte cost. n. 170/2013). Altra questione dibattuta riguarda la possibilità di insinuare, in via tardiva, una pretesa conseguente ad un rapporto giuridico complesso, come un contratto a prestazioni corrispettive, specie di durata (come il lavoro subordinato, il mutuo, la locazione, ecc.), nel caso in cui lo stesso sia già stato dedotto in giudizio, in sede tempestiva, quale fondamento di altra pretesa del medesimo rapporto ovvero di una pretesa relativa a differenti segmenti o frazioni dello stesso. La soluzione è senz'altro positiva: salvo, infatti, l'effetto di giudicato relativamente alle questioni comuni, l'ammissione tempestiva di una pretesa non impedisce, almeno sotto il profilo della preclusione pro iudicato, l'ammissione tardiva di un diverso credito conseguente al medesimo rapporto, come, ad esempio, le retribuzioni maturate in un ambito temporale differente rispetto a quello già dedotto, ovvero fondate su fatti ulteriori rispetto a quelli già invocati, come il lavoro straordinario, ovvero le rate già scadute di un contratto di mutuo ovvero i canoni scaduti di una locazione. Ed infatti, nei rapporti di durata, caratterizzati dal prodursi nel corso del tempo di distinte (ancorché omogenee) posizioni di credito e debito, la statuizione definitiva di merito, inerente alla domanda relativa ad una di dette posizioni, assume autorità di giudicato, nella successiva causa fra le stesse parti che abbia ad oggetto un diverso credito, limitatamente alle questioni comuni, quali l'esistenza, la validità e l'efficacia del rapporto stesso, senza estendere la propria portata agli effetti prodottisi nei singoli periodi del suo svolgimento. L'unicità del rapporto instauratosi tra le parti non è, dunque, sufficiente a giustificare l'affermazione dell'identità della causa pretendi, non risultando indifferenti, ai fini dell'individuazione di quest'ultima, né i fatti costitutivi posti a fondamento della singola voce di credito né il dato temporale; si deve, pertanto, escludere che da una precedente ammissione al passivo di crediti derivanti da un rapporto contrattuale di durata, discenda una preclusione da giudicato per l'ammissione di ulteriori crediti derivanti dallo stesso rapporto ma fondati su fatti costitutivi diversi, quanto meno sotto il profilo temporale. In conclusione, il «deducibile» coperto dal giudicato non corrisponde a quanto l'attore avrebbe potuto dedurre in forma di domanda, ma a quanto costituisce necessaria premessa ovvero presupposto logico e indefettibile del decisum. Il creditore, quindi, può proporre una domanda tardiva per crediti che non siano stati oggetto della domanda tempestiva di ammissione al passivo, anche quando siano fondati sul medesimo rapporto, se si tratta di crediti fondati su differenti elementi costitutivi (in giurisprudenza di legittimità, in tal senso, specie con riguardo al rapporto di lavoro subordinato: Cass. n. 9317/2013), salvo il divieto di indebito frazionamento delle pretese (se ed in quanto già sorte). Si è già detto (v. sub art. 93), infine, che, in difetto di preclusione pro iudicato, sono ammissibili in via tardiva gli interessi su credito già ammesso per capitale, salvo che non si tratti di una mera componente della pretesa già ammessa al passivo, come in caso di responsabilità extracontrattuale (Cass. S.U., n. 6060/2015). I tempi di svolgimento della verificaLa legge non prevede un termine finale per concludere le operazioni di verifica ma consente al tribunale, in sede di sentenza dichiarativa del fallimento, di fissare l'udienza nel termine di centoventi o, nei casi di maggiore complessità, di centottanta giorni dalla pronuncia (art. 16, comma 1, n. 4, l.fall.). Tale termine, come detto, è soggetto a sospensione feriale (Cass. n. 12960/2012). L'udienza, poi, se le operazioni non sono concluse, può essere rinviata a non più di otto giorni senza altro avviso per gli intervenuti e per gli assenti (art. 96, comma 4, l.fall.). Si tratta di un termine meramente ordinatorio, la cui violazione non determina alcuna conseguenza sulle attività processuali compiute oltre la sua scadenza. La norma, evidentemente, muove dal presupposto che, di regola, le attività di verifica possano completarsi in una sola udienza, tanto da considerare come eccezionale il rinvio, che deve essere contenuto in un termine strettissimo. Si tratta, però, di un presupposto del tutto erroneo, essendo evidente che il tempo necessario per lo svolgimento delle operazioni di verifica dipende dalla complessità della procedura, dalle disponibilità di tempo del giudice e dalla diligenza del curatore nella preparazione del progetto di stato passivo. Con la riforma, del resto, il giudice delegato prende contatto con le domande, almeno formalmente, solo in udienza, ove, per il rafforzamento del contraddittorio incrociato e per la struttura del nuovo procedimento, non solo vi è una maggiore partecipazione degli interessati, ma possono sorgere, anche per la prima volta, questioni talvolta complesse su cui il giudice deve pronunciarsi. In ogni caso, deve escludersi che il rinvio dell'udienza comporti la riapertura del termine per la presentazione delle domande tempestive (Spiotta, 2016, 2022) La riserva della definitiva formazione dello stato passivoLa norma introdotta dalla riforma non ha riprodotto la disposizione dell'ultimo comma dell'art. 96, che, nella sua versione anteriore, consentiva al giudice di «riservarsi la definitiva formazione dello stato passivo fino a quindici giorni dopo che l'adunanza dei creditori ha esaurito le sue operazioni», ma, con il nuovo comma quarto, impone che «terminato l'esame di tutte le domande, il giudice delegato forma lo stato passivo e lo rende esecutivo con decreto depositato in cancelleria». Non è chiaro se, nel sistema introdotto dalla riforma, il giudice delegato possa riservarsi la definitiva formazione dello stato passivo, modificandolo rispetto a quanto stabilito in sede di adunanza. In una prima impostazione (Trib. Milano 17 gennaio 2008) si è ritenuto che solo il decreto di esecutività ha natura di provvedimento giurisdizionale decisorio e definitivo sulla domanda del creditore, con la conseguenza che le decisioni prese dal giudice nel corso dell'udienza di verifica non sono destinate a rimanere intangibili, se non fino a quando la potenziale idoneità ad assumere natura giurisdizionale decisoria acquisti piena efficacia giuridica con l'adozione del decreto di esecutività: il giudice delegato, quindi, fino a quel momento può modificare la decisione presa, anche in assenza dei creditori, senza che il contraddittorio tra le parti possa ritenersi violato. In altra impostazione, invece, questo orientamento non è convincente (Bozza, 2011, 1080 ss., 1082): la libertà di cui godeva il giudice delegato anche nella fase conclusiva del procedimento di verifica si spiegava in un meccanismo processuale privo di un contraddittorio in senso tecnico e in cui al giudice erano attribuiti poteri inquisitori, sicché l'art. 96, comma 4, nel concedere al giudice la possibilità di riservarsi la definitiva formazione dello stato passivo, non faceva altro che estendere ulteriormente i poteri che al giudice già competevano: nel nuovo procedimento di accertamento, invece, improntato sul contraddittorio tra le parti, è da escludere che il giudice possa, al di fuori di tale contraddittorio, rivedere o integrare una decisone già presa, e questo spiega perché il nuovo legislatore non abbia riprodotto il testo precedente dell'art. 96, ma abbia chiaramente imposto la formazione dello stato passivo al termine dell'esame di tutte le domande, richiedendo contestualmente la dichiarazione di esecutività (conf. Ferri, 1265 ss.; Nardone, 1239). Del resto, come evidenziato anche dalla Relazione, solo la pronuncia all'esito dell'esame di tutte le domande consente «ai creditori ammessi di procedere alle operazioni di voto per la richiesta di sostituzione del curatore o dei componenti del comitato dei creditori ai sensi dell'art. 37 bis». La comunicazione dello stato passivoL'art. 97, infine, nel testo successivo alle modifiche apportate con il d.l. n. 179/2012, conv. con l. n. 221/2012, prevede che il curatore, immediatamente dopo la dichia-razione di esecutività dello stato passivo, ne dà comunicazione, trasmettendo una copia a tutti i ricorrenti ed informandoli del diritto di proporre opposizione in caso di mancato accoglimento della domanda. La norma, quindi, impone al curatore, da un lato, di trasmettere una copia dello stato passiso a tutti i ricorrenti e, dall'altro, di avvertire i destinatari della possibilità di proporre opposizione nel caso in cui la loro domanda non sia stata accolto, in tutto o in parte. La ricezione della comunicazione segna, infatti, il momento a partire dal quale decorre, a norma dell'art. 99, comma 1, l.fall., il termine di trenta giorni per la proposizione delle impugnazioni previste dall'art. 98 l.fall. Nel caso di omessa comunicazione al creditore che ha chiesto l’insinuazione parzialmente totalmente respinta l’opposizione può essere proposta entro sei mesi dal deposito del decreto che dichiara esecutivo lo stato passivo, in applicazione analogica dell’art. 327 c.p.c. BibliografiaBonfatti, Le procedure concorsuali. 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