Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 147 - Società con soci a responsabilità illimitata 1 2 3 .
La sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile, produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili. Il fallimento dei soci di cui al comma primo non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati. La dichiarazione di fallimento è possibile solo se l'insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata. Il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell'articolo 15. Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi. Allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l'impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile. Contro la sentenza del tribunale è ammesso reclamo a norma dell'articolo 184. In caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l'istante può proporre reclamo alla corte d'appello a norma dell'articolo 22. [1] Articolo sostituito dall'articolo 131 del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5. [2] La Corte costituzionale, con sentenza 16 luglio 1970, n. 142, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, del primo comma, nel testo precedente la sostituzione, nelle parti in cui: a) non consentiva ai soci illimitatamente responsabili l'esercizio del diritto di difesa nei limiti compatibili con la natura del procedimento di camera di consiglio prescritto per la dichiarazione di fallimento; b) negava al creditore interessato la legittimazione a proporre istanza di dichiarazione di fallimento di altri soci illimitatamente responsabili nelle forme dell' art. 6 del presente decreto. Successivamente, con sentenza 22 luglio 2000, n. 319, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, del presente comma, nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilita' illimitata di societa' fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilita' illimitata. [3] La Corte costituzionale, con sentenza 27 giugno 1972, n. 110, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo comma, nel testo precedente la sostituzione, nella parte in cui non prevede che il tribunale debba ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, perchè detti soci possano esercitare il diritto di difesa. Successivamente, con sentenza 28 maggio 1975, n. 127, dichiara l'illegittimità costituzionale del presente comma, nella parte in cui nega al fallito la legittimazione a chiedere la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili; Dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale dell'art. 22 della legge fallimentare, nella parte in cui nega al fallito la legittimazione a proporre reclamo contro la pronuncia del tribunale che ha respinto l'istanza per la dichiarazione di fallimento di socio illimitatamente responsabile. [4] Comma modificato dall'articolo 11 del D.Lgs. 12 settembre 2007 n.169, con la decorrenza indicata nell'articolo 22 del medesimo D.Lgs. 169/2007. InquadramentoL'art. 147 l.fall., nel testo conseguente alle modifiche apportate dalla riforma del 2006, ha inteso, per un verso, risolvere alcune delle questioni che, nella versione precedentemente in vigore, erano state dibattute in dottrina e giurisprudenza, e, per altro verso, adeguare la disciplina del fallimento dei soci illimitatamente responsabili alle pronunce della Corte costituzionale che, nel regime anteriore, avevano profondamente inciso sulla norma. Il fallimento personale dei soci illimitatamente responsabiliL'art. 147, comma 1, l.fall. conferma il principio per cui il fallimento della società comporta automaticamente il fallimento personale dei soci illimitatamente responsabili. Rispetto al testo previgente, tuttavia, la nuova norma contiene due importanti innovazioni: la prima è che limita il suo ambito di operatività ai soli soci illimitatamente responsabili delle società in nome collettivo (artt. 2291 e 2304 c.c.), società in accomandita semplice (artt. 2313 e 2318 c.c.) e società in accomandita per azioni (art. 2452 c.c.); la seconda è che il socio illimitatamente responsabile di tali tipi sociali fallisce personalmente, in caso di fallimento della società, indipendentemente dal fatto che si tratti di persona fisica o persona giuridica. Il fallimento dei soci illimitatamente responsabili di s.n.c., s.a.s., s.a.p.a.Quanto al primo profilo, la norma ha testualmente stabilito che «la sentenza che dichiara il fallimento di una società... produce anche il fallimento dei soci..., illimitatamente responsabili» se la società fallita appartiene «ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile», vale a dire sia una società in nome collettivo, una società in accomandita semplice ovvero una società in accomandita per azioni. Ciò significa, in concreto, che: il fallimento della società in nome collettivo (anche se non iscritta nel registro delle imprese: art. 2297 c.c.) determina il fallimento di tutti i suoi soci (cfr. l'art. 2291 c.c., a norma del quale «nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente ed illimitatamente per le obbligazioni sociali»); il fallimento della società in accomandita semplice determina il fallimento dei soci accomandatari (cfr. l'art. 2313 c.c., a norma del quale «nella società in accomandita semplice i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali...»); il fallimento della società in accomandita per azioni determina il fallimento dei soci accomandatari (cfr. l'art. 2452 c.c., a norma del quale «nella società in accomandita per azioni i soci accomandatari rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali...»). Il fallimento coinvolge, quindi, tutti i soci illimitatamente responsabili al momento della dichiarazione di fallimento della società, indipendentemente dal fatto che fossero già soci nel momento in cui le obbligazioni sociali rimaste inadempiute erano già state assunte o siano divenuti tali solo in un momento successivo (Amatucci, 111): anche chi entra a far parte di una società già costituita risponde con gli altri soci per le obbligazioni sociali anteriori all'acquisto della qualità di socio (art. 2269 c.c.). Il fallimento personale dei soci illimitatamente responsabili costituisce un effetto automatico ed ufficioso della dichiarazione di fallimento della società, sottratto, quindi, alla necessità dei presupposti normalmente richiesti per l'assoggettamento al fallimento dagli artt. 1, 5 e 7 l.fall., vale a dire l'esercizio di un'attività d'impresa commerciale (art. 1, comma 1, l.fall.) che presenti determinati requisiti dimensionali (art. 1, comma 2, l.fall.), la sussistenza dello stato di insolvenza (art. 5 l.fall.) e la domanda del creditore o la richiesta del pubblico ministero (art. 7 l.fall.). Il fallimento (automatico, ex lege) dei soci illimitatamente responsabili prescinde, quindi, dalla loro insolvenza personale, derivando unicamente dalla loro qualità di soci (Cass. n. 1095/2016; Amatucci, 101). La norma, come visto, fa espresso ed esclusivo riferimento al caso in cui la società fallita appartenga «ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile», vale a dire sia una società in nome collettivo, una società in accomandita semplice ovvero una società in accomandita per azioni. Si ritiene, tuttavia, che la norma trovi applicazione anche alla società semplice tutte le volte in la stessa, sia pur indebitamente (cfr. l'art. 2249, comma 1, c.c.), abbia esercitato un'attività commerciale, con la conseguenza che anche in tal caso il fallimento della società determina il fallimento di tutti i suoi soci (art. 2267 c.c.). Il fallimento personale dei soci non è escluso né impedito dal fatto che la società sia in stato di scioglimento. Lo scioglimento della società non comporta, infatti, l'estinzione della società stessa, la quale continua ad esistere, sia pure sostituendo lo scopo liquidatorio a quello lucrativo Cass. n. 18964/2013; Cass. n. 7972/2000; Cass. n. 6078/2001; Cass. n. 8853/1998; Cass. n. 2869/1998; Cass. n. 6597/1998), e neppure la cessazione della responsabilità illimitata dei soci illimitatamente responsabili, pur quando non siano nominati liquidatori, e non esclude, pertanto, che siano dichiarati personalmente falliti per effetto del fallimento della società (Cass. n. 20671/2016). Verificatosi lo scioglimento di una società per il venir meno, a causa della morte di uno dei due soci, della pluralità (non ricostituita) degli stessi, il socio superstite conserva, pertanto, tale qualità (senza che rilevi in contrario la circostanza che gli sia inibito il recesso) ed è, pertanto, assoggettabile a fallimento unitamente alla società (Cass. n. 12553/2004; Cass. n. 19736/2008). Lo stesso accade quando, dopo che la società si sia sciolta ex art. 2272, n. 4, c.c. ma non sia ancora estinta, il socio superstite abbia continuato l'impresa già sociale come imprenditore individuale: la dichiarazione di fallimento di quest'ultimo implica la dichiarazione di fallimento della società (Cass. n. 2263/2015). Il socio illimitatamente responsabile fallisce anche se è cittadino straniero, sia esso persona fisica o giuridica. Lo straniero, anche persona giuridica, potendo assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile di una società italiana, soggiace, infatti, a tutte le implicazioni proprie di siffatta qualità, tra cui il fallimento in via di estensione della società italiana, dichiarato dal competente tribunale fallimentare italiano. Sotto tale profilo, la giurisdizione italiana è una mera conseguenza del meccanismo regolato dall'art. 147 l.fall., restando perciò inapplicabile — ove il socio straniero sia una persona giuridica — la normativa di conflitto dettata, per le società e gli altri enti, dall'art. 25 della l. 31 maggio 1995, n. 218, recante la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, alla stregua del quale è disciplinata dalla legge regolatrice dell'ente, tra l'altro, la responsabilità per le obbligazioni dell'ente stesso (Cass. S.U. n. 14196/2005). Non è facile rinvenire la ratio dell'automatica estensione del fallimento sociale ai soci illimitatamente responsabili, che non sono imprenditori commerciali e personalmente insolventi. Probabilmente, la norma si spiega solo per ragioni di opportunità, finalizzata a costringere i soci a pagare i debiti sociali prima della dichiarazione di fallimento della società ed al fine di evitarne il fallimento (Galgano, 1988, 45). Anche la giurisprudenza recente si è allineata a quest'ultima interpretazione, affermando che il significato dell'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili va ricercato nella volontà di potenziare la garanzia generale delle obbligazioni contratte dalla società attraverso il patrimonio individuale dei soci (Cass. n. 27013/2008). I soci cessati o che hanno perduto la responsabilità illimitata per le obbligazioni socialiNella normativa anteriore alla riforma, tanto la giurisprudenza (Cass. n. 7385/1993), quanto la dottrina (Vigo, 764 ss.; in senso contrario, Andrioli, 309), ammettevano che il fallimento potesse essere esteso ai soci illimitatamente responsabili receduti, esclusi o defunti, così come era ammesso che il fallimento potesse essere dichiarato anche nei confronti di soci che avessero perso la propria responsabilità personale ed illimitata in conseguenza di trasformazione (Cass. n. 6925/1997) o di fusione (Cass. n. 2921/1996). L'unica condizione richiesta era che l'insolvenza della società, pur successivamente verificatasi, riguardasse, anche solo in parte, obbligazioni sociali anteriori: delle quali, pertanto, il socio, pur avendo perso la responsabilità illimitata, perché receduto, escluso, ecc., continuasse personalmente a rispondere (Cass. n. 6541/2000). Si escludeva, invece, che, ai fini dell'estensione di fallimento al socio cessato ovvero al socio che avesse cessato di rispondere illimitatamente delle obbligazioni sociali, potesse trovare applicazione il limite temporale dell'anno stabilito dagli artt. 10 e 11 l.fall.. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 66/1999, tuttavia, dopo aver rilevato che «la giurisprudenza è univocamente orientata nel senso che la dichiarazione di fallimento del singolo socio discende dal fallimento della società e prescinde dalla sussistenza in capo a costui dei presupposti di cui agli art. 1 e 5 della stessa legge, che vanno accertati solo nei confronti della società» e che «il fallimento della società comporti il fallimento anche degli ex soci sempreché l'insolvenza della società si riferisca ad obbligazioni da questa contratte prima dello scioglimento del rapporto sociale», ha ritenuto che «l'ammissibilità del fallimento dell'ex socio deve essere tuttavia circoscritta entro un rigoroso limite temporale proprio al fine di non pregiudicare, come si è detto precedentemente, l'interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche» e che «tale limite, non risultando fissato dall'art. 147, deve essere rinvenuto all'interno del sistema della stessa legge fallimentare e precisamente nella norma dettata dagli art. 10 e 11 che, in considerazione della sua ratio, assume una portata generale, ed è, in quanto tale, applicabile anche al fallimento degli ex soci», affermando, quindi, che la disposizione dell'art. 147 l.fall. «va interpretata nel senso che, a seguito del fallimento della società commerciale di persone, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque venuta meno l'appartenenza alla compagine sociale può essere dichiarato solo entro il termine fissato dagli art. 10 e 11 della legge fallimentare, di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale». In questo stesso senso, ma più radicamente, si è, in seguito, pronunciata la sentenza n. 319/2000 con la quale la stessa Corte costituzionale, dopo aver rilevato che «la giurisprudenza dei giudici ordinari, successiva alla citata sentenza, ha tuttavia mostrato un'evidente contrarietà ad abbandonare l'interpretazione restrittiva da lungo tempo consolidata in sede di legittimita» ha, tra l'altro, ribadito che «il generale principio di certezza delle situazioni giuridiche — in considerazione delle conseguenze che dalla declaratoria di fallimento discendono, non solo per chi ne è colpito ma anche per i terzi che con lui siano entrati in rapporto — impone che l'ammissibilità del fallimento dell'ex socio sia ristretta entro un congruo limite temporale», ed ha, per l'effetto, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, comma 1, l.fall., nella parte in cui prevedeva che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita potesse essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata. La Corte di cassazione si è, in seguito, adeguata alle conclusioni della Corte costituzionale, affermando che l'estensione del fallimento della società commerciale di persone al socio illimitatamente responsabile è ammissibile solo se operata entro il limite temporale di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale previsto dagli art. 10 e 11 della l.fall., realizzandosi in caso contrario, e cioè se si ritenesse legittima l'estensione oltre detto limite temporale alla sola condizione che l'insolvenza della società riguardi anche obbligazioni contratte prima del suo recesso, una inaccettabile disparità di trattamento rispetto all'imprenditore individuale defunto o che abbia cessato la sua attività (Cass. n. 5379/2001). L'art. 147, comma 2, l.fall., nel testo successivo alla riforma, ha tenuto conto di tali assunti (Vassalli, 1932), prevedendo, appunto, che il fallimento dei soci illimitatamente responsabili «non può essere dichiarato decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per rendere noti ai terzi i fatti indicati» e che «la dichiarazione di fallimento è possibile solo se l'insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata». La norma, quindi, per un verso, ribadisce che il fallimento del soci illimitatamente responsabili può essere dichiarato anche se questi hanno perduto – per effetto dello scioglimento nei loro confronti del rapporto sociale per morte (art. 2284 c.c.), recesso (art. 2285 c.c.) o esclusione (art. 2286 c.c.) o cessione della quota di partecipazione sociale a terzi ovvero della cessazione della responsabilità illimitata per trasformazione (artt. 2498 ss. c.c.), fusione (artt. 2501 ss c.c.) o scissione (artt. 2506 ss c.c.) della società (o – si è aggiunto — per la perdita della qualità di accomandatario e l'assunzione di quella di accomandante: Caridi, 903) — la qualità di soci illimitatamente responsabili, sia pur alla condizione che l'insolvenza della società, a prescindere dalla sua manifestazione (che può anche essere successiva), riguardi, anche solo in parte, obbligazioni sociali già sorte alla data della cessazione della responsabilità ilimitata dei soci (Nigro, 2006, 2179; Vassalli, 1932; Abete, 2016, 1371; Amatucci, 114); per altro verso, però, limita tale possibilità fino alla scadenza del termine di un anno dalla data di cessazione della responsabilità illimitata, sempre che, relativamente ai fatti che l'hanno determinata, siano state eseguite le formalità necessarie per renderli noti ai terzi. La nuova norma, quindi, conformemente alle conclusioni espresse sul punto dalla Corte costituzionale, ha ribadito il limite temporale di un anno ma ne ha previsto la decorrenza (non dal momento in cui si è verificato il fatto che ha determinato lo scioglimento del vincolo sociale o la perdita della responsabilità illimitata ma solo) dalla data in cui sono state adottate «le formalità», di volta in volta richiesta dalla legge, necessarie per rendere noti ai terzi (e, quindi, opponibilil nei loro confronti) i fatti che hanno determinato la cessazione della qualità di socio (recesso, esclusione, ecc.) o della sua responsabilità illimitata (trasformazione, fusione, ecc.). Nel caso delle società regolari (per quelle irregolari, v. in seguito), trattandosi di atti o fatti modificativi del contratto sociale (artt. 2300 e 2193, comma 2, c.c., in relazione a quanto previsto dagli artt. 2295, n. 1, e 2316 c.c.), tali formalità consistono nella loro iscrizione Registro delle imprese (Abete, 2016, 1370). Il fatto che ha determinato la cessazione per qualsiasi causa dell'appartenenza alla compagine sociale del socio di società di persone, ove non iscritto nel Registro delle imprese, non è, infatti, opponibile ai terzi, poiché non produce effetti al di fuori dell'ambito societario, e non è, quindi, idoneo ad escludere l'estensione del fallimento del socio, ai sensi dell'art. 147, comma 2, l.fall. Del resto, il principio di certezza delle situazioni giuridiche — la cui generale attuazione la Corte Costituzionale ha inteso assicurare con la pronuncia di incostituzionalità del citato art. 147, comma 1, nella parte in cui non prevedeva l'applicazione del limite del termine annuale dalla perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile (sentenza n. 319/2000 cit.) — impone che la decorrenza di detto termine non possa farsi risalire alla data del recesso del socio né, tanto meno, a quella della dichiarazione di fallimento della società, che pure è iscritta nel Registro delle imprese (art. 16, ult. comma, l.fall.), poiché l'evento fallimentare non scioglie il vincolo societario. Il recesso del socio, quindi, ove non sia stato iscritto nel registro delle imprese, ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., non è opponibile ai terzi e non è idoneo ad escludere l'estensione del fallimento al socio ai sensi dell'art. 147 l.fall. (Cass. n. 4865/2010; Cass. n. 1046/2015). Non può escludersi, peraltro, che i fatti che hanno determinato la cessazione della responsabilità illimitata siano opponibili ai terzi, pur se non iscritti nel Registro delle imprese, ove portati a conoscenza dei terzi, sempre che ciò avvenga con mezzi effettivi ed adeguati (cfr. gli art. 2193, comma 1, e 2290, comma 2, c.c.). In particolare, non costituisce mezzo idoneo a portare il predetto recesso a conoscenza dei terzi il mero mutamento della ragione sociale della società di persone, con la eliminazione da essa del nome del socio receduto, potendo tale mutamento giustificarsi con altre ragioni (Cass. n. 4865/2010). Nello stesso modo, in riferimento alla adeguatezza del mezzo pubblicitario adottato per portare i terzi a conoscenza dell'avvenuto recesso, la Corte di cassazione ha ritenuto che non costituisce mezzo idoneo la cancellazione del socio dagli elenchi della Camera di commercio e l'avvenuta registrazione della scrittura privata di recesso dalla società (Cass. 2639/2001; Cass. n. 4865/2010). Anche lo scioglimento del singolo rapporto sociale per alienazione della partecipazione del socio, di cui non sia stata data adeguata pubblicità ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., mediante iscrizione nel Registro delle imprese, è inopponibile ai terzi, producendo i suoi effetti solo in ambito societario, né preclude l'estensione del fallimento al socio stesso, ai sensi dell'art. 147 l.fall., malgrado l'essere avvenuta la vendita della quota oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento deve considerarsi ancora in essere (Cass. n. 19797/2015; conf. Cass. n. 1046/2015). In caso di esclusione del socio, Cass. n. 17098/2013 ha ritenuto che il dies a quo del termine annuale va identificato nella data di iscrizione della delibera che determina l'esclusione del socio dalla società fallita e non dalla data della relativa assunzione. Lo stesso è a dirsi per ciò che riguarda la trasformazione di una società di persone in una società di capitali (art. 2500-sexies c.c.): decorso un anno dall'iscrizione della trasformazione nel registro delle imprese, non può più essere dichiarato il fallimento del socio già illimitatamente responsabile, anche qualora non sia stato liberato, in mancanza del consenso esplicito o presunto dei creditori (art. 2500-quinquies c.c.), dalle obbligazioni sociali contratte anteriormente alla trasformazione (Cass. n. 25846/2013; Abete, 2016, 1373). Nello stesso modo, in caso di annullamento in sede giurisdizionale della delibera di trasformazione di una società a responsabilità limitata in società in nome collettivo, la reviviscenza della società di capitali, che si verifica in forza dell'efficacia retroattiva dell'annullamento, non fa venir meno, nei rapporti con i terzi creditori e agli effetti (anche) della dichiarazione di fallimento ai sensi dell'art. 147 l.fall., quella realtà economica e giuridica cui ha dato luogo l'operare in concreto e l'esternarsi, anche attraverso le forme di pubblicità previste dall'ordinamento per le delibere societarie (artt. 2188 e ss. c.c., in genere, e specificamente, per le modificazioni dell'atto costitutivo, artt. 2436 e 2300 dello stesso codice), della società come personale nella sua attività di impresa commerciale. Ne consegue che, sopravvenuta l'insolvenza della società e dichiarato il fallimento della stessa quale società a responsabilità limitata (per la reviviscenza di tale forma anteriore alla caducata trasformazione), ben può dichiararsi il fallimento, ai sensi dell'art. 147 l.fall., di quei soci che, in relazione al periodo di tempo e alle obbligazioni societarie cui l'insolvenza si riferisce, avevano assunto la responsabilità solidale e illimitata (Cass. n. 26258/2005). La tutela dell'affidamento dei terzi ha orientato anche Cass. n. 16169/2014, la quale ha ritenuto che la risoluzione del contratto di cessione di quote sociali di una società in nome collettivo ha effetto retroattivo tra le parti contrattuali ma non consente di considerare il cedente come socio di quest'ultima anche nel periodo di tempo in cui le quote sono rimaste di fatto nella disponibilità del cessionario, atteso che, giusta la pubblicità di quel contratto effettuata sul registro delle imprese, i terzi che vengono in contatto con la società non potrebbero individuare come socio altri che il cessionario, così confidando sulla garanzia costituita dal suo patrimonio personale. Ne consegue che, a seguito della suddetta risoluzione, il cedente non è soggetto a fallimento a norma degli artt. 10 e 147 l.fall. qualora non faccia più parte della società da oltre un anno ed abbia riacquistato la qualità di socio esclusivamente in conseguenza degli effetti retroattivi di una sentenza posteriore, dovendosi ritenere che una diversa soluzione sarebbe incompatibile con le esigenze di certezza sottese all'art. 10 l.fall. e, comunque, potenzialmente idonea a determinare conseguenze paradossali, quali la contemporanea dichiarazione di fallimento di cessionario e cedente. La norma, infine, ha testualmente stabilito che il termine annuale decorra dal momento in cui lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad uno socio è iscritto nel registro delle imprese anche nel caso in cui tale effetto sia stato determinato dalla morte del socio, laddove, nella normativa anteriore, la giurisprudenza aveva ritenuto che la morte del socio determinasse automaticamente lo scioglimento del rapporto sociale al momento del verificarsi dell'evento indipendentemente da ogni cognizione o conoscibilita del fatto da parte dei terzi (Cass. n. 2987/1978; conf. Trib. Genova 17 febbraio 2015, in Fall. 2015, 615). Il termine annuale, entro cui deve essere dichiarato il fallimento del socio illimitatamente responsabile cessato, ai sensi dell'art. 147, comma 2, l.fall., non è assimilabile alla prescrizione, in quanto trova giustificazione nell'interesse alla certezza delle situazioni giuridiche, che verrebbe frustrato ove fosse sufficiente, entro l'anno, la mera presentazione dell'istanza: pertanto, il deposito del ricorso per la dichiarazione di fallimento e la pendenza del relativo procedimento non ne interrompono il decorso, risultando inapplicabili gli artt. 2943 e 2945 c.c. (Cass. n. 24199/2013). Il fallimento del socio cessato non deve avvenire necessariamente con la procedura di estensione prevista dall'art. 147, comma 2, l.fall., poiché, quando la sua esistenza è già nota prima della dichiarazione di fallimento della società, questo, ai sensi del primo comma, produce il fallimento di tutti i soci illimitatamente responsabili: in tal caso, peraltro, non si tratta dell'esercizio di un potere d'impulso d'ufficio da parte del giudice, con accertamenti in fatto eccedenti l'oggetto della domanda, né è compromessa la terzietà del giudice il quale, invece, accogliendo l'istanza volta alla dichiarazione di fallimento della società, si limita a stabilire le conseguenze che ad essa la legge ricollega, tra cui anche il fallimento del socio illimitatamente responsabile (Cass. n. 6003/2011). Il socio unico di società per azioni e di società a responsabilità limitataL'art. 147 l.fall., nella parte in cui prevede l'estensione del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili, si applica alla duplice condizione che il socio sia illimitatamente responsabile e che l'ente sia costituito nelle forme e con i caratteri della società con soci a responsabilità illimitata: la norma, quindi, fa esclusivo riferimento alle società che, in base al tipo legale, sono strutturalmente conformate in modo tale da comportare, nonostante l'autonomia patrimoniale — o addirittura, la personalità giuridica, come nella società in accomandita per azioni — la responsabilità solidale illimitata dei soci o di una categoria di essi per tutte le obbligazioni sociali, e non è, quindi, applicabile ai soci occasionalmente responsabili delle obbligazioni contratte per accadimenti specifici e storicamente delimitabili, come nel caso del socio unico di società per azioni e di società a responsabilità limitata. Si tratta, del resto, di una conclusione che la giurisprudenza aveva adottato già nel vigore della normativa previgente alla tipizzazione legale delle predette società in forma istituzionalmente unipersonale. L'art. 2362 c.c., che, prima della riforma del diritto societario, sanciva per l'unico azionista la perdita del beneficio della limitazione della responsabilità, veniva, infatti, configurato come una norma eccezionale, impositiva di una responsabilità lato sensu fideiussoria ex lege, per il periodo in cui era venuta meno la pluralità dei soci. L'inapplicabilità dell'art. 147 l.fall. discendeva, in siffatta ipotesi, dal fatto che la perdita del beneficio era solo temporanea, e cioè ristretta al periodo di concentrazione del capitale nelle mani di un solo socio: con la conseguente dissonanza tra la responsabilità della società per tutte le obbligazioni e quella del socio unico, limitata alle sole obbligazioni ratione temporis solidali. D'altra parte, l'insolvenza della società poteva essere maturata in epoca antecedente alla sopravvenuta unipersonalità, così come potevano perfino mancare obbligazioni sociali la cui genesi sia ascrivibile al periodo di esposizione a responsabilità del socio unico: con la conseguenza, ritenuta paradossale, di una fallibilità in estensione del socio unico pur a fronte della carenza, in concreto, dei presupposti di fatto per l'operatività dell'art. 2362 c.c. La dichiarazione di fallimento, in quest'ottica, avrebbe finito per acquisire una valenza esclusivamente sanzionatoria, della quale, però, non v'è traccia nella lettera e nella ratio della norma. Di qui la conclusione per cui l'art 147 della l.fall., nel testo anteriore alle modifiche apportate dalla riforma della legge fallimentare, nella parte in cui comminava l'estensione del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili, non trovasse applicazione nei confronti del socio unico di società per azioni. L'art. 2362 c.c., nel testo anteriore alla riforma del diritto societario, del resto, collegando l'illimitata responsabilità del socio all'insolvenza della società, mostrava abbastanza chiaramente come la sanzione per l'unico azionista non fosse l'estensione al socio del fallimento della società (che pure era qualificata insolvente), ma solo l'obbligo di pagamento, in solido con la società, di quella unica parte delle obbligazioni sorte nel periodo in cui tutte le azioni erano concentrate nelle sue mani. Anche la previsione del codice civile, quindi, e non solo quella della legge fallimentare, sottraeva al fallimento l'unico socio, sia pure addossandogli l'onere di adempiere alle obbligazioni sorte in capo alla società nel periodo in cui egli fosse stato l'unico azionista (Platania, 2009, 1399 ss.). Si consideri, peraltro, che la posizione di unico quotista di una società a responsabilità limitata espone costui al rischio di dover rispondere di persona ed illimitatamente per le obbligazioni sociali nate nel periodo in cui egli si è trovato in tale situazione, se la società è insolvente, ma non per questo legittima il curatore del fallimento della stessa società ad agire, nell'interesse della massa, al fine di far valere l'indicata responsabilità del socio unico. La relativa azione, infatti, al pari di quella derivante dall'analoga previsione dell'art. 2362 c.c. per il caso dell'unico azionista di una società per azioni, non rientra nel novero delle azioni che originariamente avrebbe potuto esercitare la società fallita, e che dunque competono al curatore, bensì è attribuita esclusivamente ed individualmente a ciascun singolo creditore, legittimato ad esercitarla nei confronti di un soggetto (unico azionista o quotista) che non è stato dichiarato personalmente fallito e la cui responsabilità, per le obbligazioni sociali inadempiute, si affianca a quella della società fallita, senza che per questo egli si identifichi con la società stessa (Cass. n. 4701/1997). L'art. 147 l.fall., nel testo successivo alle modifiche apportate dalla riforma del diritto fallimentare, facendo esplicito riferimento alle sole società che istituzionalmente prevedono la presenza di soci con responsabilità illimitata, ha definitivamente dissipato, in senso negativo, i dubbi relativi alla fallibilità del socio unico di società per azioni e di società a responsabilità limitata, pur nei casi in cui, ai sensi degli artt. 2325, comma 2, e 2462, comma 2, c.c., questi risponda illimitatamente delle obbligazioni sociali (Platania, 1929; Blatti, 1119 ss.; Abete, 2017, 169 ss.; Montagnani, 252; Amatucci, 108 ss). Resta, tuttavia, fermo il fatto (sul quale si ritornerà in seguito) che il socio unico della società di capitali, esercitando sulla stessa un'attività di direzione e coordinamento, sia qualicabile come un imprenditore commerciale, suscettibile, come tale, in caso di insolvenza, di essere dichiarato fallito (Fimmanò, 2009, 89 ss.). Gli altri casi in cui la norma non trova applicazioneLa nuova norma esclude anche il fallimento del liquidatore non socio (e, quindi, nominato dal tribunale: dovendo la nomina, in tutti gli altri casi, cadere su un socio illimitatamente responsabili) di società di persone che, contravvenendo al divieto (art. 2279 c.c.), abbia compiuto nuove operazioni, assumendo, ma solo relativamente ad esse (e non con riferimento a tutte le obbligazioni sociali), una responsabilità personale ed illimitata (Platania, 2009, 1399 ss.; Spiotta, 2010, 886). Anche chi abbia agito per le società di capitali prima dell'iscrizione, così come il socio unico fondatore ovvero i soci che hanno consentito il compimento delle operazioni prima del conseguimento della personalità giuridica (art. 2331 c.c.), pur assumendo una responsabilità patrimoniale parallela a quella della società fallita, non subiscono l'estensione nei loro confronti della procedura concorsuale (Platania, 2009, 1399 ss; Montagnani, 252). Il nuovo testo esclude, poi, l'estensione del fallimento dell'associazione non riconosciuta insolvente, che abbia svolto attività commerciale, a coloro che, per avere agito per conto della stessa, abbiano assunto, a norma dell'art. 38 c.c., una responsabilità illimitata per le obbligazioni dell'ente (Platania, 2009, 1399 ss). Prima della riforma, la giurisprudenza ha ritenuto possibile l'estensione del fallimento ai soggetti che avevano assunto, ai sensi dell'art. 38 c.c., l'illimitata responsabilità per le obbligazioni dell'associazione: il fallimento di una associazione non riconosciuta avente lo status di imprenditore commerciale non comporta né che gli associati siano imprenditori commerciali, né che il fallimento dell'ente produca il fallimento di tutti gli associati, poiché tale effetto si produce solo nei riguardi degli associati che siano illimitatamente responsabili secondo la disciplina propria delle associazioni non riconosciute, ossia, a norma dell'art. 38 c.c., per le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione (Cass. n. 9589/1993; Trib. Roma 6 aprile 1995, in Dir. Fall. 1995, II, 719 ss). Il nuovo testo dell'art. 147 l.fall., nella parte in cui prevede la possibilità di dichiarare il fallimento dei soli soci illimitatamente responsabili di società in nome collettivo, accomandita semplice ed accomandita per azioni, ha definitivamente escluso che la norma possa trovare applicazione al di fuori del fallimento delle predette società campo societario (Platania, 1399 ss). Per le stesse ragioni, infine, la norma sembra definitivamente escludere la possibilità di dichiarare il fallimento del socio sovrano e del socio tiranno (Caridi, 897 ss), laddove il socio «sovrano» è il socio che, in quanto possessore della quota di capitale necessaria per il controllo, ne diviene arbitro incontrastato, mentre il socio «tiranno» è il socio che, in forza della posizione di dominio, si serva della struttura societaria, quale mero schermo formale, onde svolgere una propria attività d'impresa, in modo da confondere il proprio personale patrimonio con quello sociale (Piscitello, 112; Abete, 2017, 169 ss; prima della riforma della legge fallimentare, la Suprema Corte ha costantemente escluso l'assoggettabilità a fallimento e del socio «sovrano» e del socio «tiranno»: Cass. S.U., n. 1088/1986; Cass. n. 2879/1985; Cass. n. 5143/1982). Anche in tal caso, peraltro, resta salvo il caso in cui il socio sovrano o il socio tiranno della società di capitali, esercitando sulla stessa un'attività di direzione e coordinamento, sia qualicabile come un imprenditore commerciale, suscettibile, come tale, in caso di insolvenza, di essere dichiarato fallito. Il socio accomandante ingerito nell'amministrazione della societàIn linea di principio, nella società in accomandita semplice, il socio accomandante è responsabile per le obbligazioni sociali solo nei limiti della quota conferita (art. 2313 c.c.), nel senso che, per un verso, egli è obbligato ad eseguire il conferimento nei confronti della società (e solo ad essa) e, per altro verso, il creditore è privo di azione diretta nei suoi confronti (Cass. n. 6017/2014). La legge, tuttavia, individua due casi nei quali l'accomandante è personalmente ed illimitatamente responsabile per le obbligazioni della società: vale a dire quando viola il dovere di ingerenza nell'amministrazione della società, previsto dall'art. 2320, comma 1, c.c., e quando acconsente che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, come stabilito dall'art. 2314, comma 2, c.c.. L'art. 2320, comma 1, c.c. prevede che il socio accomandante non può compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari. Se contravviene a tale divieto, il socio accomandante assume la responsabilità illimitata e solidale verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali. La norma, nel vietare al socio accomandante di ingerirsi nella gestione della società, individua, in via alternativa, due serie di attività: 1) il compimento di atti di amministrazione; 2) la trattazione e la conclusione di affari per conto della società. L'identificazione degli atti vietati è condizionata dalla ratio sottesa alla norma dell'art. 2320 c.c.. Secondo la Corte di Cassazione, «...la disposizione contenuta nell'art. 2320 c.c. applica il principio di tipicità posto dall'art. 2249 c.c., mirando ad impedire che la società in accomandita semplice perda i suoi connotati essenziali, primo tra i quali la conferibilità soltanto ai soci accomandatari dell'amministrazione della società (art. 2318 c.c., comma 2), presupposto e, al medesimo tempo, effetto della loro responsabilità solidale ed illimitata per le obbligazioni sociali (art. 2313 c.c., comma 1)...» (Cass. 29794/2008; conf., Cass. n. 2854/1998). In forza di tale rilievo, il divieto posto dalla norma si applica sia agli atti interni, che a quelli esterni (Cass. n. 11250/2016). L'art. 2320, comma 1, c.c. sancisce il divieto d'ingerenza dell'accomandante nella gestione degli affari sociali senza porre, cioè, alcuna distinzione tra atti di gestione interni o esterni, bensì riferendo indistintamente l'assunzione della responsabilità illimitata e solidale al mero svolgimento dell'attività d'amministrazione tipica dell'altra categoria di soci, a meno che non agiscano in forza di procura speciale e per singoli affari. Il tenore della disposizione è, invero, tale che risultano compresi nel divieto sia gli atti di gestione interna, sia quelli che hanno riflessi esterni, a meno che non rinvengano la fonte della propria legittimità in apposita procura. Il divieto di compiere atti di amministrazione e di trattare o concludere affari in nome della società, se non in forza di procura speciale per singoli affari, deve, quindi, intendersi nel senso che all'accomandante è precluso il compimento di tutti gli atti di gestione, sia interni, che esterni (tranne quelli indicati): non può, cioè, né decidere (atto interno) né compiere, anche a livello di mera trattativa (Cass. n. 4019/1994, in motiv., che ha anche escluso la rilevanza di una volontà contraria dell'accomandante), attività pertinente all'oggetto sociale (atti esterni) (Cass. n. 29794/2008), sempre che siano espressione del potere di direzione degli affari sociali, in quanto implicanti una scelta che è propria del titolare dell'impresa (Cass. n. 11250/2016) ed abbiano un contenuto non meramente esecutivo ma decisorio ed autonomamente orientato (Cass. 15600/2014). Per quanto attiene agli atti esterni, la violazione del divieto in esame richiede la necessaria esteriorizzazione della qualifica del socio («Quest'ultima categoria appare ovviamente oggetto di necessaria esteriorizzazione della qualifica di socio il quale, in quanto tratti con i terzi e vincoli giuridicamente la società, detta condotta non può svolgere se non manifestando la sua qualità sociale»: Cass. n. 508/1991) ed un'attività che concerne il momento genetico del rapporto, che si concreta nella direzione degli affari sociali ed implica, quindi, scelte proprie del titolare dell'impresa, e non il compimento di atti riguardanti solo il momento esecutivo dei rapporti obbligatori: «per aversi ingerenza dell'accomandante nell'amministrazione della società in accomandita semplice — vietata dall'art. 2320 c.c. — non è sufficiente il compimento, da parte dell'accomandante, di atti riguardanti il momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società, ma è necessario che l'accomandante svolga una attività gestoria che si concreti nella direzione degli affari sociali, implicante una scelta che è propria del titolare della impresa» (Cass. 19736/2008; Cass n. 21891/2004; Cass. n. 13468/2010). In contrapposizione agli atti esterni, peraltro, sussistono sullo stesso piano, e con le stesse conseguenze sulla posizione del socio accomandante, gli atti di amministrazione che, in quanto tali, possono costituire atti meramente interni ed in base ai quali si può asserire che il socio accomandante diventi illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali in quanto contribuisca alla determinazione della vita sociale anche con atti di amministrazione meramente interna, in base ai quali l'esteriorizzazione della sua posizione nella società non è necessaria. La decadenza dalla limitazione di responsabilità non postula, invero, che gli atti di gestione compiuti dall'accomandante, non importa se sua sponte o in forza di delega illimitata o indeterminata, esplichino necessariamente effetti destinati ad interferire nella sfera giuridica dei terzi nella conclusione dell'affare (cfr. Cass. n. 7554/2000, che ha confermato la decisione di merito che aveva respinto l'opposizione alla dichiarazione di fallimento di soci accomandanti, i quali, in forza di clausola dell'atto costitutivo dichiarata nulla ex officio, avevano previamente autorizzato il compimento di un atto di amministrazione). Come detto, la portata effettiva del divieto di compiere atti d'amministrazione o di trattare o concludere affari in nome della società se in forza di procura speciale per singoli affari deve, infatti, intendersi nel senso che all'accomandante è precluso il compimento di tutti gli atti, tanto esterni, quanto interni, sicché non può né compiere attività pertinente all'oggetto sociale (atti esterni) né deciderne l'assunzione (atto interno). Gli atti di amministrazione, anche interna, peraltro, dalla cui realizzazione ad opera dell'accomandante deriva la perdita della sua limitazione della responsabilità, debbono essere intesi, non come atti di mero ordine, ma come atti di norma riferiti alla competenza dell'organo amministrativo e che, in quanto tali, qualificano il socio accomandatario ed amministratore come socio illimitatamente responsabile per le obbligazioni sociali (Cass. n. 508/1991). Gli atti di amministrazione interna, anche a carattere gestorio, non determinano peraltro la perdita del beneficio della limitazione della responsabilità se integrano un'opera di collaborazione nel quadro del rapporto di subordinazione dell'accomandante all'accomandatario, così come gli sono consentiti gli atti di gestione esterna, purché nell'ambito di una procura speciale dell'accomandatario — amministratore (Cass. n. 508/1991). La disposizione dettata dalla dall'art. 2320 c.c. esclude l'assunzione della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali da parte del socio accomandante, anche se questi abbia compiuto un atto di gestione, solo se abbia agito in forza di procura speciale rilasciatagli per singolo affare dal socio accomandatario. La «ratio legis» è chiara: il rilascio della procura esprime pur sempre una scelta gestionale dell'organo cui tale potere è istituzionalmente attribuito. Se invece, la procura conferisce, al di là della sua espressa denominazione, un ventaglio di attribuzioni, anche indeterminate, che implicano un astratto potere di scelta, rimette al delegato il potere decisionale, tassativamente spettante all'accomandatario consentendogli un'ingerenza indiscriminata nell'amministrazione, l'accomandante è esposto alla responsabilità illimitata e solidale con l'altro socio. Essa, infatti, esprime in tal caso un preciso accordo fra i soci, che immette l'accomandante nella gestione della società, consentendogli di partecipare alle scelte dell'organo deputatovi ex lege, il tutto a prescindere dalla qualificazione attribuitagli nell'atto costitutivo e nello statuto, non potendo suddetta sfera d'intervento indiscriminato identificarsi col «singolo affare», che ex art. 2320 c.c., il socio accomandante può compiere in forza di procura speciale. Se il socio accomandante non può né compiere atti di amministrazione, né trattare o concludere affari, il carattere di specialità della procura conferita dall'accomandatario deve perciò essere necessariamente rapportato alla predeterminazione degli atti che, in virtù di essa, gli sono conferiti; se tali atti sono illimitati e privi di collegamento al singolo determinato «affare», egli acquisisce un potere che non gli spetta; e se effettivamente lo esplica, merita lo stesso trattamento riservato all'accomandatario. In definitiva, il socio accomandante che, avvalendosi di procura conferente ampio ventaglio di poteri, compie atti di amministrazione, interna od esterna, ovvero tratta o conclude affari della gestione sociale, incorre, a norma dell'art. 2320 c.c., nella decadenza dalla limitazione di responsabilità, come nel caso dell'accomandante cui siano state conferite due procure, denominate speciali ma talmente ampie da consentire la effettiva sostituzione all'amministratore nella sfera delle delibere di competenza di questi (Cass. n. 29794/2008). L'accomandante ingeritosi nella gestione sociale è responsabile per tutte le obbligazioni sociali, anche di quelle sorte anteriormente al suo ingresso o al suo mutamento di ruolo nella compagine sociale (Cass. n. 15252/2015). La casistica degli atti che comportano la perdita della responsabilità limitata è estremamente vasta ed articolata. In effetti, se appare del tutto ovvio che costituisce violazione del divieto di ingerenza il comportamento del socio accomandante che, una volta entrato nella compagine sociale, inizi «ad occuparsi di tutto: chiamare i fornitori presentandosi come dipendente dell'ufficio commerciale... effettuare ordinativi e ritirare merce senza presentare il conto della gestione o depositare gli incassi ecc... sino a giungere ad eliminare la documentazione attestante gli ordini ricevuti e fornire false generalità alla clientela» (Trib. Mantova 11 ottobre 2007, Soc. 2008, 735 ss), esistono fattispecie nelle quali la sussistenza, o meno, di tale violazione non è altrettanto semplice. Quanto alla delega bancaria, in particolare, si è ritenuto in giurisprudenza (Cass. n. 2854/1998) come il legislatore abbia imposto angusti limiti alla procura speciale per singoli affari e che occorre perciò dimostrare che l'operazione bancaria delegata, o quella concretamente posta in essere, non integri un atto gestorio: ed ivi si menziona l'ipotesi in cui sia, nel rispetto del divieto di immistione dell'accomandante, al medesimo rilasciata non già una procura o delega ad operare sul conto, ma una semplice «delega di cassa» per il compimento di atti esecutivi per definizione. Più di recente, si è bensì confermata la valutazione del giudice di merito di assenza di immistione, ma in quanto non erano stati spesi i poteri di delega bancaria e sussistevano documenti idonei a circoscrivere i minori poteri invece spesi dall'accomandante (Cass. n. 15600/2014). Il divieto di immistione non risulta violato neppure nell'ipotesi in cui l'accomandante abbia prestato garanzie e sostegno finanziario alla società o effettuato illeciti prelievi di denaro dalle casse sociali (Cass. n. 13468/2010): il socio, infatti, nel primo caso spende il proprio nome ed effettua finanziamenti con proprio denaro mentre, nel secondo, si appropria indebitamente di fondi della società, onde si è del tutto fuori da un'attività di gestione degli affari sociali. Invece, il socio accomandante, il quale emetta assegni bancari tratti sul conto della società all'ordine di terzi, apponendovi la propria firma sotto il nome della società e per conto della stessa, in difetto della prova della sussistenza di una mera delega di cassa, assume solidale ed illimitata responsabilità ai sensi dell'art. 2320 c.c. per tutte le obbligazioni sociali e, in caso di fallimento della società, è assoggettabile al fallimento in proprio (Cass. n. 23651/2014). La stessa conclusione è stata tratta per il caso in cui l'accomandante abbia pagato i debiti sociali scegliendo i creditori da soddisfare e le modalità di pagamento (Cass. n. 172/1987). Non è, invece, di per sé rilevante la mera presenza nella rivendita commerciale della socia accomandante (Cass. n. 11250/2016). È discusso se la perdita della responsabilità limitata consegue anche al compimento da parte del socio accomandante di un singolo atto gestorio. Secondo la giurisprudenza di legittimità, la violazione del divieto previsto dall'art. 2320 c.c. non richiede, infatti, che l'ingerenza sia reiterata, continua e sistematica (Cass. n. 7554/2000). Parte della giurisprudenza di merito, invece, ha richiesto la sistematicità e la continuità nell'intromissione degli affari sociali (Trib. Nocera Inferiore 29 gennaio 2006, Juris Data; Trib. Milano 18 febbraio 2004, Fall. 2004, 708). L'accomandante perde il beneficio della responsabilità limitata anche nel caso previsto dall'art. 2314, comma 2, c.c.: l'accomandante che consenta che il suo nome sia compreso nella ragione sociale, infatti, risponde di fronte ai terzi illimitatamente e solidalmente con i soci accomandatari delle obbligazioni sociali. Il presupposto di tale responsabilità è la prestazione preventiva del consenso all'inserimento del proprio nome nella ragione sociale. In proposito si ritiene che la semplice indicazione del nome costituisca soltanto presunzione del consenso da parte dell'accomandante, ma che è possibile che l'accomandante provi l'insussistenza del suo preventivo consenso dimostrando la sua inconsapevolezza o addirittura la sua contraria volontà (Ronco, 1279 ss). Si è discusso se l'art. 147, comma 1, l.fall., nel testo successivo alla riforma della legge fallimentare, consente, o meno, di dichiarare il fallimento del socio accomandante che si sia ingerito della gestione sociale o che abbia consentito l'inserimento del suo nome nella ragione sociale. Nel testo anteriore alla riforma, si è ritenuto che l'art. 147 l.fall., in tema di estensione del fallimento della società ai soci illimitatamente responsabili, si riferisce non soltanto ai soci illimitatamente responsabili per contratto sociale, ma anche a quegli altri soci che, pur non essendo tenuti per contratto sociale a rispondere illimitatamente, abbiano assunto responsabilità illimitata e solidale verso i terzi in tutte le obbligazioni sociali. Ne consegue che il fallimento della società in accomandita semplice va esteso anche all'accomandante che si sia ingerito nell'amministrazione della società stessa (Cass. n. 4270/1999). Nel testo introdotto dalla riforma, non è mancato chi ha ritenuto che, in realtà, la nuova norma, facendo riferimento solo alle società in cui i soci hanno assunto istituzionalmente, per tipologia societaria, la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, non possa trovare applicazione per l'accomandante che, seppur ingeritosi nella gestione della società, resta un socio tipicamente privo della responsabilità per le obbligazioni delle società (Nigro, 2006, 2172; conf., Vassalli, 1930; Caridi, 898 ss.; dubitativamente, Abete, 2008, 95; Piscitello, 110). Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, tuttavia, la formula legislativa impiegata con la riforma del 2006, la quale prevede per le sole società in nome collettivo e per quelle in accomandita (semplice o per azioni) l'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile, recepisce un insegnamento della giurisprudenza di legittimità precedente alla novella, che aveva costantemente affermato l'incompatibilità del fallimento del socio con il principio, connaturato alle società di capitale, della limitazione della sua responsabilità, anche con riferimento ai casi in cui, per vicende particolari, la limitazione possa venir meno, ma non implica, invece, l'esclusione della fallibilità del socio accomandante che si sia ingerito nell'amministrazione della società (Cass. n. 22256/2012). La norma, infatti, prevede il fallimento del socio alla doppia condizione che la società sia costituita nelle forme e con i caratteri della società con soci a responsabilità illimitata, in cui a rispondere non è il suo patrimonio, ma anche quello dei soci, al di là dei conferimenti, e che il socio sia illimitatamente responsabile, con esclusione, quindi, dell'accomandante, il quale, infatti, in linea di principio, non risponde per le obbligazioni sociali se non nei limiti della quota conferita (art. 2313, in fine, c.c.). Tali condizioni sono senz'altro sussistenti nell'ipotesi di socio accomandante che si sia ingerito nella gestione o che abbia accettato che il suo nome compaia nella ragione sociale. Intanto, la società in accomandita semplice è espressamente contemplata nel nuovo testo dell'art. 147 l.fall.. Il socio accomandante, che viola il divieto del compimento di atti di gestione, diviene, inoltre, illimitatamente responsabile per tutte le obbligazioni della società, senza alcuna esclusione (Platania, 2009, 1399 ss.). In definitiva, il socio accomandante che, in assenza di una procura speciale per i singoli atti e al di fuori di un rapporto di subordinazione diretto con il socio accomandatario, si sia ingerito nella gestione della società, così violando il divieto previsto dall'art. 2320, comma 1, c.c., risponde solidalmente ed illimitatamente per tutte le obbligazioni sociali, e non per quelle sole derivanti dalle operazioni nelle quali ebbe ad ingerirsi, indipendentemente dall'intensità e dalla continuità della sua indebita ingerenza, ed è assoggettabile a fallimento ai sensi dell'art. 147 l.fall. (Cass. 23651/2014; Cass. n. 5069/2017; conf., Signorelli, 152 ss.; Amatucci, 111). L'estensione del fallimento della società in accomandita semplice al socio accomandante non è soggetta ad altro termine di decadenza che non sia l'anno dalla iscrizione nel registro delle imprese di una vicenda, personale (ad esempio, il recesso) o societaria (ad esempio, la trasformazione della società), che abbia comportato il venir meno della sua responsabilità illimitata, escludendosi, invece, la possibilità di ancorare la decorrenza di detto termine alla mera cessazione dell'ingerenza nella amministrazione (Cass. n. 22256/2012). Né rileva il decorso di un anno dalla dichiarazione di falimento della società, che non comporta il venir meno della responsabilità per estinzione della società o per scioglimento del singolo rapporto sociale (Cass. 23651/2014; Cass. 24112/2015). L'accomandante che, ingerendosi nella gestione della società, perda il beneficio della limitazione della sua responsabilità alla quota conferita rimane dunque socio illimitatamente responsabile della società, sino a quando non intervenga una causa di estinzione del rapporto sociale. Solo da quella data, e anzi dalla data della relativa iscrizione nel registro delle imprese, decorre il termine annuale di decadenza per la dichiarazione di fallimento (Cass. n. 22256/2012). Ne consegue che, a norma dell'art. 147 l.fall., l'estensione del fallimento della società in accomandita semplice al socio accomandante, che si sia ingerito nell'amministrazione della società, non è soggetto ad altro termine di decadenza che non sia l'anno dall'iscrizione nel registro delle imprese dello scioglimento del rapporto sociale o della trasformazione che comporti la perdita per i soci della responsabilità illimitata (Cass. n. 22256/2012). Il socio occulto di società in accomandita sempliceDeve escludersi, in linea di principio, che la semplice qualifica di socio occulto di società in accomandita semplice faccia presumere la sua illimitata responsabilità. La Suprema Corte (Cass. n. 508/1991), nell'esaminare la posizione che può assumere il socio occulto di una società in accomandita semplice, ha, infatti, espressamente affermato i seguenti principi: 1) la semplice qualifica di socio occulto di società in accomandita semplice regolare non costituisce situazione significativa atta di per sé a fare presumere la sua illimitata responsabilità; 2) è ipotizzabile l'illimitata responsabilità del socio occulto di una società in accomandita semplice, in virtù dell'esercizio di attività amministrativa interna, purché di natura gestoria. «La regola del tipo sociale — ha affermato la Corte — tratta ex art. 2313 c.c. è l'esistenza di due categorie di soci: una di soci illimitatamente responsabili, altra di soci responsabili nei limiti dei conferimenti», applicabile tanto nell'accomandita non iscritta quanto in quella regolare: «da ciò si deduce che, sulla base del diritto positivo, la... presunta presunzione di illimitata responsabilità del socio occulto di accomandita semplice non ha alcun fondamento». «Né si ritiene che, in ordine al socio occulto di società in accomandita semplice palese, la disciplina dell'art. 2317, secondo comma, c.c. debba essere letta con l'integrazione derivante dall'art. 2267 c.c. È pur vero, infatti, che il primo comma dell'art. 2317 c.c., relativo all'accomandita semplice, richiama per le situazioni irregolari l'art. 2297 c.c. in materia di società collettiva irregolare, il quale a sua volta richiama il regime giuridico della società semplice, secondo cui il patto di limitazione della responsabilità del socio, non portato a conoscenza dei terzi, non è opponibile a coloro che non ne avevano avuto conoscenza, gravando quindi il socio occulto della prova della conoscenza da parte dei terzi della sua limitazione di responsabilità. È altresì vero, però, che, specificamente per la accomandita semplice, il secondo comma dell'art. 2317 c.c. introduce con un ‘tuttavia' una disciplina derogante per i soci accomandanti dell'accomandita irregolare, i quali rispondono comunque nei soli limiti della loro quota, in quanto non abbiano partecipato ad operazioni sociali. In sostanza, con l'enunciazione del tipo di società, viene nella specie già sufficientemente rispettato il requisito della pubblicità di fatto, essendo ben noto ai terzi che una società in accomandita semplice ha una duplice categoria di soci in ordine alle situazioni di responsabilità, e non vi è ragione di negare al socio accomandante della irregolare, il beneficio della limitazione di responsabilità derivantegli dal contratto, quando egli non si sia intromessa nella gestione. Se ciò è vero per la società in accomandita irregolare, a maggior ragione le stesse ragioni militano a favore del socio occulto (in quindi in posizione irregolare) di una società in accomandita regolare e palese». La più rilevante conseguenza di tali principi, anche sul piano probatorio, è l'inesistenza di una presunzione che il socio occulto di una società in accomandita semplice sia un «accomandatario» e che, pertanto, incombe sul «curatore procedente l'onere della prova che i soci cui si intende estendere la procedura concorsuale erano, per l'appunto, responsabili senza limiti», e cioè, precisamente, che lo stesso, in violazione del divieto previsto dall'art. 2330 c.c., ha compiuto atti di ingerenza nell'amministrazione della società (così anche Fimmanò, 1996, 1246 ss.). In definitiva, la situazione di socio occulto di una società in accomandita semplice — la quale è caratterizzata dall'esistenza di due categorie di soci, che si diversificano a seconda del livello di responsabilità — non è idonea, anche qualora una tale società sia irregolare, a far presumere la qualità di accomandatario, essendo all'uopo necessario accertare, di volta in volta, la posizione in concreto assunta dal socio, il quale, pertanto, assume responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ai sensi dell'art. 2320 c.c., solo ove contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione o di trattare o concludere affari in nome della società, dovendosi così escludere una responsabilità illimitata per un socio accomandante occulto di una siffatta società (Cass. n. 23211/2012; Abete, 2016, 1376). L'estensione di fallimento: il socio occulto di società palese ed il socio occulto di società occultaPrima della riforma del diritto societario e di quella del diritto fallimentare, la giurisprudenza applicava analogicamente alla figura della società occulta la disposizione relativa alla partecipazione occulta in società palese, di cui al precedente testo dell'art. 147, comma 2, l.fall., a norma del quale, «se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi dopo averli sentiti in camera di consiglio». Si riteneva, infatti, che, «se dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, risulti che egli era socio di una società di fatto, anche se occulta, esercitante la stessa impresa, deve essere dichiarato il fallimento della società e degli altri soci occulti, senza che sia necessario provare l'insolvenza di questi ultimi (...). Tale principio emerge dall'art. 147, secondo comma, legge fallimentare (...); e detta norma comprende, oltre alla ipotesi letteralmente prevista della scoperta di nuovi soci successivamente al fallimento sociale, anche la scoperta dell'esistenza di soci successivamente alla dichiarazione del fallimento dell'imprenditore individuale, attesa la totale analogia di posizioni» (Cass. n. 2700/1997; conf. Cass. n. 2975/2006; in dottrina, Bigiavi, 1 ss.; Galgano, 1972, 337 ss). La disposizione di cui all'art. 147, comma 2, l.fall., nel testo precedente alla riforma, concernente espressamente l'ipotesi della partecipazione occulta in società palese, non costituiva – si affermava (Cass. n. 1106/1995; più di recente, Cass. n. 2975/2006) – una norma eccezionale (perché applica — in sede fallimentare — il principio che è immanente nelle società con soci a responsabilità illimitata: quello sancito dall'art. 2291 c.c. e dell'art. 2297 c.c., che lo conferma per le società non iscritte: la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci) ed è, pertanto, suscettibile di interpretazione analogica, applicandosi, quindi, oltre che al caso previsto («socio occulto di società palese»), anche all'ipotesi (non prevista) in cui, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore apparentemente individuale, fosse risultato che egli era socio occulto di società occulta. L'art. 147, commi 4 e 5, l.fall., nel testo introdotto dalla riforma della legge fallimentare, adeguandosi a tale orientamento giurisprudenziale (Amatucci, 124), ha previsto che, «se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito, dichiara il fallimento dei medesimi», e che «allo stesso modo si procede, qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l'impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile». La norma, quindi, consente espressamente non solo il fallimento del socio o dei soci occulti di una società palese (comma 4°) ma anche – così codificando le conclusioni cui la giurisprudenza di legittimità era pervenuta prima delle riforme — il fallimento del socio o dei soci occulti di una società occulta (comma 5). Non può, invece, pretendersi, senza negarne la stessa configurabilità, la spendita del nome della società occulta. La conseguenza deriva ineluttabilmente dai patti sociali della società occulta, che si concretano, fra l'altro, proprio nell'autorizzare il socio (apparente imprenditore individuale) a non spendere il nome della suddetta società, agendo solo per suo conto. Nondimeno, per gli atti compiuti dal socio che ha agito in proprio nome, ma per conto della società occulta, gli altri soci, in deroga all'art. 1705 c.c., assumono una responsabilità personale ed illimitata per le conseguenti obbligazioni. In altri termini, la necessità di dare attuazione prioritaria al principio (che non può essere derogato nei confronti dei terzi: v. art. 2291, comma 2, c.c.) della responsabilità personale illimitata dei soci, stabilito dall'art. 2291 comma 1, c.c., deroga, quindi, all'esigenza della spendita del nome (art. 2266 c.c.), ferma restando, però, l'esigenza che le obbligazioni riguardino l'attività sociale, e siano cioè assunte nell'interesse sociale. Da questo punto di vista, il fallimento della società occulta costituisce vicenda che collide con il diffuso convincimento per cui, nel nostro ordinamento, l'imputazione degli atti giuridici e dei relativi effetti si fonda non già sul criterio sostanziale della titolarità dell'interesse ma sul criterio formale della spendita del nome, per cui la qualità di imprenditore è acquistata solo dal soggetto che spende il proprio nome nell'esercizio dell'attività d'impresa o il cui nome è legittimamente speso nell'esercizio della stessa attività (cfr., Campobasso, 62 ss., secondo cui «nel caso di società occulta... l'attività d'impresa non è svolta in nome della società; gli atti di impresa non sono ad essa formalmente imputabili. Chi opera nei confronti dei terzi agisce in nome proprio, sia pure nell'interesse e per conto di una società di cui è eventualmente socio; agisce cioè come mandatario senza rappresentanza della società occulta. E non vi è dubbio che a lui e non alla società sono formalmente imputabili gli atti di impresa ed i relativi effetti (art. 1705 c.c.).... A diversa conclusione si potrebbe giungere solo ammettendo che, ai fini dell'imputazione della responsabilità per debiti d'impresa, vale non solo il criterio formale della spendita del nome, ma anche il criterio sostanziale della titolarità dell'interesse»; Di Sabato, 84 ss.; Vassalli, 1934, per il quale, infatti, è necessaria l'esteriorizzazione del vincolo sociale). L'estensione di fallimento alla società occulta è, quindi, subordinata a tre condizioni, e cioè che: il soggetto già dichiarato fallito sia solo apparentemente un imprenditore individuale, essendo, in realtà, socio di una società di fatto con altri; l'impresa (e gli atti, negoziali o meno, che ne sono l'esplicazione), apparentemente esercitata in nome proprio dal soggetto (apparente imprenditore individuale) già dichiarato fallito (ed in possesso dei requisiti soggettivi previsti dall'art. 1, comma 2, l.fall., che non devono, quindi, essere nuovamente verificati), è, in realtà, imputabile (in deroga all'art. 1705 c.c.) a tale società; l'insolvenza (rilevante: artt. 15, ult. comma, e 5 l.fall.), già accertata con la prima sentenza di fallimento, è, in realtà, riferibile ad obbligazioni che, in quanto assunte dal socio (apparente imprenditore individuale) nell'esercizio della predetta impresa e, quindi, per conto della società, sono, appunto, imputabili a quest'ultima quali debiti della società (artt. 2297 e 2267 c.c.): la società occulta, o di fatto, è, in effetti, una società in nome collettivo irregolare (Cass. n. 1095/2016), assoggettata, come tale (art. 2297 c.c.), alle norme dettate in tema di società semplice in ordine alla responsabilità illimitata dei soci per le obbligazioni sociali (art. 2267 c.c.) ed alla norma per cui ciascun socio che abbia agito e contratto obbligazioni per la società ne ha la rappresentanza nei confronti dei terzi (art. 2297 c.c.). Naturalmente, l'impresa gestita dal socio (apparente imprenditore individuale) e quella imputabile alla società devono essere identiche o, quanto, meno tra loro complementari (Panzani, 1995, 923), vertendosi, altrimenti, nella diversa ipotesi in cui l'imprenditore gestisca una sua impresa individuale, per la quale è stato dichiarato fallto perché insolvente, e sia, poi, anche socio, se del caso occulto, di una società (art. 149 l.fall.). La mancanza della prova scritta del contratto di costituzione di una società di fatto o irregolare (non richiesta dalla legge ai fini della sua validità) non impedisce al giudice del merito l'accertamento aliunde, mediante ogni mezzo di prova previsto dall'ordinamento, ivi comprese le testimonianze e le presunzioni semplici, dell'esistenza di una struttura societaria (Cass. n. 8981/2016) La prova del rapporto sociale occulto può essere, pertanto, oltre che diretta, anche indiziaria (Bassi, 2796 ss). In particolare, la prova diretta del rapporto sociale (art. 2247 c.c.) consiste nella dimostrazione, in punto di fatto, dei seguenti elementi costitutivi: il conferimento di beni o servizi per la formazione di un patrimonio o fondo comune; la partecipazione agli utili ed alle perdite; l'intenzione di vincolarsi e collaborare per conseguire risultati patrimoniali attraverso lo svolgimento in comune di un'attività economica (c.d. affectio societatis). La prova di tali elementi, tuttavia, può essere fornita anche mediante presunzioni, purché ne sussistano i requisiti, nel senso cioè che dai fatti esteriori devono scaturire elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti (art. 2729 c.c.), nel senso cioè che la sussistenza del rapporto sociale può essere dedotta dalle manifestazioni esteriori del gruppo (Cass. n. 8981/2016), fra le quali particolare significatività può riconoscersi ai rapporti di finanziamento e di garanzia, che, pur essendo di per sé inidonei a fornire la prova del contratto sociale (Cass. n. 8154/1990), sono nondimeno configurabili come un strumento di apporto di capitale alla società se costituiti in modo sistematico e con esclusione del diritto di regresso (Cass. n. 7624/1997; Cass. n. 9030/1997). Infatti, se è vero che il fideiussore ed il finanziatore si pongono come terzi creditori in conseguenza del diritto di regresso, è anche vero, però, che la sistematicità e la generalizzazione delle garanzie e/o dei finanziamenti sono indicativi di un interesse verso l'attività di impresa del debitore garantito o finanziato incompatibile con l'esercizio verso quest'ultimo del diritto di regresso, dimostrandone, sul piano della prova logica, la rinunzia (Cass. 7624/1997) — che, liberando il finanziato o il garantito dal debito di regresso, viene indirettamente a porsi come strumento di apporto di capitale alla società (Cass. n. 3163/1999) — e quindi la partecipazione al perseguimento e conseguimento degli scopi sociali (Cass. n. 6087/1986; Cass. n. 84/1991), specie se ciò avviene in presenza di elementi concreti idonei ad evidenziare una costante opera di sostegno dell'attività dell'impresa, quali, ad es., il conferimento temporaneo del valore d'uso di un immobile (Cass. n. 102/1993; Cass. n. 7624/1997) ovvero l'eventuale mancata previsione di interessi convenzionali nell'ambito del rapporto di finanziamento (Cass. n. 4827/1988). In definitiva, se i finanziamenti, le fideiussioni e la prestazione di altre garanzie di per sé non sono indici di esistenza del rapporto sociale fra l'imprenditore sovvenuto e il finanziatore o garante, specie se questi sono legati da rapporto di coniugio o di parentela, tuttavia anche in questa ipotesi detti interventi possono assumere quel significato quando, per essere numerosi, continuativi e di vario tipo (fideiussioni, avalli, mutui ecc.), realizzano una sistematica opera di sostegno dell'attività d'impresa, qualificabile come collaborazione del socio al raggiungimento dello scopo della società (Cass. n. 11562/2008; Cass. n. 13468/2010; Cass. n. 6299/2007, per cui «l'esistenza del rapporto sociale, anche al fine della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile a norma dell'art. 147 l.fall., può risultare da indici rivelatori quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore dell'imprenditore, allorquando essi – ancorché riguardanti il solo momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società – siano, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività di impresa, qualificabile come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali»; conf. Cass. n. 3271/2007, la quale, peraltro, dopo aver evidenziato che l'esistenza del rapporto sociale, anche ai fini della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile a norma dell'art. 147 l.fall., può risultare da indici rivelatori quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore dell'imprenditore, allorquando essi, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività di impresa, qualificabile come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali, ha precisato che tale sistematicità non deve essere intesa in senso meramente quantitativo, potendo pochi interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie costituire un idoneo indice rivelatore del rapporto societario in presenza di altre circostanze come, ad esempio, l'effettuazione in momenti decisivi per lo sviluppo dell'impresa o per evitarne la crisi: nella fattispecie, relativa a socio occulto che aveva rilasciato una sola fideiussione, la S.C. ha confermato la decisione di merito, che aveva desunto la sussitenza del rapporto societario non solo da quell'unica fideiussione, bensì dall'accertamento del complesso progetto economico in cui essa si iscriveva come elemento determinante per l'inizio dell'attività imprenditoriale; Cass. n. 2200/2003; Cass. n. 7624/1997). Tale conclusione vale — si è ulteriormente osservato — anche per finanziamenti e garanzie di scarsa entità, che, se effettuati in momenti particolari della vita aziendale o in presenza di altre circostanze particolari (es. per assicurarne lo sviluppo o per evitarne la crisi), sono indicativi di un rapporto societario di fatto (Cass. n. 2985/1994, per cui «la «sistematicità» della prestazione di garanzie, quale elemento probatorio da cui è possibile inferire l'esistenza di un rapporto societario, non può e non deve essere intesa nell'unico senso di parametro meramente quantitativo, bensì come uno dei criteri che, nel contesto delle concrete circostanze, è idoneo a far rilevare la sussistenza di una società; di tal che, anche un numero assai limitato di interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie può costituire un idoneo indice rivelatore del rapporto societario in presenza di altre, contestuali circostanze il cui senso sia compatibile con l'esistenza del rapporto stesso (si pensi, ad es., ad interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie in pochi momenti decisivi per lo sviluppo dell'impresa o per evitare la sua crisi)»). Nel caso in cui tra i presunti soci della dedotta società di fatto esistano rapporti di parentela o di coniugio, la prova del vincolo sociale deve essere particolarmente rigorosa, e ciò in quanto trai i coniugi o gli stretti familiari lo stesso atto o comportamento può essere (spesso) alternativamente spiegato tanto in chiave di vincolo matrimoniale o di parentela tra loro esistente (cd. affectio coniugalis ovvero familiaris) quanto in funzione di un presunto rapporto sociale (cd. affectio societatis). Gli atti compiuti dal coniuge o dal familiare a sostegno dell'impresa dell'altro coniuge o familiare (es. prestazioni di garanzie e fideiussioni, finanziamenti, pagamenti a creditori sociali, direzione dell'azienda, sottoscrizione di cambiali, ecc.), pur se ripetuti e consistenti, non possono, pertanto, configurarsi di per sé come atti di conferimento sociale, trattandosi di atti neutri, alternativamente spiegabili anche in chiave di solidarietà familiare (Cass. n. 6770/1996; Cass. n. 3520/2000; Trib. Cassino 14 giugno 1995, in Fall. 1996, 293), fatto salvo, naturalmente, il caso in cui sussistano, nella fattispecie concreta, indizi gravi, concordanti ed univoci di segno contrario, idonei a dimostrare la compartecipazione dell'uno all'attività commerciale gestita dall'altro, e quindi la sussistenza del rapporto di società (Cass. n. 3163/1999; conf. Cass. n. 11562/2008, la quale, dopo aver osservato che i finanziamenti, le fideiussioni e la prestazione di altre garanzie di per sé non sono indici di esistenza del rapporto sociale fra l'imprenditore sovvenuto e il finanziatore o garante, specie se questi sono legati da rapporto di coniugio o di parentela, ha, nondimeno, rilecato come anche in questa ipotesi detti interventi possono assumere quel significato quando, per essere numerosi, continuativi e di vario tipo (fideiussioni, avalli, mutui ecc.), realizzano una sistematica opera di sostegno dell'attività d'impresa, qualificabile come collaborazione del socio al raggiungimento dello scopo della società). In definitiva, nell'ipotesi di dedotta società di fatto tra familiari, non esiste alcuna presunzione (relativa o assoluta) dell'esistenza dell'affectio societatis rispetto all'affectio familiaris o coniugalis: conformemente ai principi generali, pertanto, in caso di dubbio circa l'attribuzione ad un atto del significato di adempimento del contratto sociale ovvero del vincolo familiare o coniugale, il giudice dovrà rigettare la domanda di fallimento della dedotta società di fatto. In tal senso si espressa la giurisprudenza (Cass. n. 6770/1997), affermando che «nel caso di società di fatto che si assuma intercorrente fra consanguinei, la prova dell'esteriorizzazione del vincolo sociale deve essere particolarmente rigorosa, occorrendo che essa si basi elementi e circostanze concludenti, tali da escludere che l'intervento del familiare possa essere motivato dall'affectio familiaris e da deporre invece, in modo non equivoco, nel senso ulteriore di una sua compartecipazione all'attività commerciale del consanguineo» (conf., Cass. n. 15543/2008), quanto meno a livello di apparenza e di tutela dell'altrui affidamento (Cass. n. 3163/1999), posto che, nei rapporti verso i terzi (esterni), «per considerare esistente una società di fatto agli effetti della responsabilità delle persone e/o dell'ente, anche in sede fallimentare, non occorre necessariamente la prova della stipulazione del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento da parte dei soci tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci» (in senso conforme: Cass. n. 2243/2015; Cass. n. 11491/2004; Cass. n. 3163/1999; Cass. n. 11975/1997; Cass. n. 9030/1997; Cass. n. 20202/1993; Cass. n. 2311/1987; Cass. n. 3398/1985; Cass. n. 6422/1984). Infatti, «la società di fatto, ancorché non esistente nei rapporti tra i soci, può... apparire esistente di fronte ai terzi (c.d. società apparente), quando due o più persone operino nel mondo esterno in guisa da ingenerare l'opinione che esse agiscano come soci, di tal che i terzi, trattando con loro, siano indotti a fare legittimo affidamento sull'esistenza della società»: «in tale ipotesi, soccorre la tutela della buona fede dei terzi, per il principio dell'apparenza del diritto, in virtù del quale nonostante l'inesistenza dell'ente, coloro che si comportino esteriormente come soci vengono ad assumere in solido l'obbligazione come se la società esistesse» (in tal senso, la giurisprudenza di legittimità costante: Cass. n. 11975/1997; Cass. 2985/1994; Cass. n. 6438/1993; Cass. n. 2359/1990; Cass. n. 2095/2001, che ha confermato la sentenza di merito che aveva ravvisato l'esteriorizzazione del vincolo nelle fideiussioni prestate dalla moglie e dal figlio a favore dell'imprenditore, escludendo che fossero giustificabili come espressione di solidarietà familiare data la loro continuità e sistematicità; Cass. n. 11491/2004; Cass. n. 9250/2006; Cass. n. 4529/2008; più di recente, Cass. n. 2243/2015; Cass. n. 12120/2016, la quale ha sottolineato che, in tale fattispecie, «l'imputazione sostanziale di atti — e di atti qualificati siccome d'impresa collettiva — ad un soggetto non formalmente e realmente costituito secondo le regole generali poste a presidio di un modello astratto e tipico poggia su una effettività di condotte riconosciute all'esterno invece quali tipiche del contratto di società, dunque tali, se così percepite dai terzi, da imporsi alla stregua delle conseguenze di realtà relazionali giuridicamente tutelate rispetto alla realtà non contrattuale che abbia governato il diverso rapporto fra apparenti soci»; in senso contrario, Vassalli, 1935; Nigro, 2006, 2182; Amatucci, 124 ss; Campobasso, 63, 64). La sussistenza della società di fatto non è esclusa dalla formale costituzione di un'impresa familiare tutte le volte in cui i suoi componenti abbiano ingenerato nei terzi un affidamento sull'esistenza di un rapporto societario. L'art. 230-bis c.c., lì dove prevede «salvo che non sia configurabile un diverso rapporto», ammette chiaramente la costituzione tra l'imprenditore ed i suoi familiari di una diversa regolamentazione contrattuale, compresa una società di fatto laddove risulti che i componenti abbiano dato vita ad un rapporto societario. Il tratto che segna il discrimine tra le due figure va, precisamente, individuato nel comportamento mantenuto dai familiari componenti dell'impresa nell'assumere relazioni esterne alla componente familiare, nell'ottica della tutela dell'affidamento che tale comportamento abbia ingenerato incolpevolmente nei terzi con quali dette relazioni siano state intrattenute. In questa prospettiva, quindi, per escludere l'impresa familiare, ammettendo di contro la società di fatto, occorre che vi sia stata l'esteriorizzazione del vincolo sociale, dimostrabile attraverso la spendita espressa del nomen della società o quanto meno col fatto che si sia resa manifesta l'esistenza degli estremi del vincolo anzidetto sovrapposto al rapporto costituito ex art. 230-bis c.c.. Tale prova, tuttavia, non può esaurirsi nel solo atteggiarsi dei familiari verso l'esterno quali collaboratori dell'impresa familiare, trattandosi di un dato equivoco, ma deve riguardare gli elementi indefettibili della figura societaria, rappresentati quanto meno dal fondo comune e dall'affectio societatis, restando invece a margine la condivisione degli utili, in quanto tipica anche della gestione dell'impresa familiare. Ne consegue, in definitiva, che, ai fini dell'estensione del fallimento del titolare dell'impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell'effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l'esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all'impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del «nomen» della società o quanto meno l'esteriorizzazione del vincolo sociale, l'assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all'esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell'impresa familiare, né l'eventuale condivisione degli utili, trattandosi d'indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla «affectio societatis» (Cass. n. 14580/2010; conf., Cass. n. 3520/2000). La giurisprudenza ha, infine, escluso l'illegittimità costituzionale dell'art. 147, comma 2, l.fall., per violazione dell'art. 3, Cost., nella parte in cui, per la dichiarazione di fallimento di detto socio, non prevede un limite temporale, decorrente dalla data del recesso dalla società: sia in quanto, come affermato dalla Corte costituzionale (ord. n. 321 del 2002), le situazioni del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata e quella del socio occulto di una società irregolare non sono comparabili, sia in quanto il principio di certezza delle situazioni giuridiche —la cui generale attuazione la Corte costituzionale ha inteso assicurare con la pronuncia di incostituzionalità del primo comma dell'art. 147 legge fallim. nella parte in cui non prevede l'applicazione del limite del termine annuale dalla perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile (sentenza n. 319 del 2000)- impone di ritenere che la decorrenza di detto termine per il socio occulto receduto debba farsi risalire esclusivamente alla data in cui lo scioglimento del rapporto sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, con la conseguenza che occorre, in concreto, tenere conto della data della eventuale pubblicizzazione del recesso o di quella in cui i creditori ne abbiano avuto conoscenza o lo abbiano colpevolmente ignorato (Cass. n. 7075/2005). Non è chiaro se la l'estensione del fallimento alla società occulta ed al socio occulto sia, o meno, assoggettata ai termini di decadenza annuale stabiliti, rispettivamente, dall'art. 10 l.fall. e dall'art. 147, comma 2, l.fall. Quanto alla società occulta, il testo della relazione ministeriale all'art. 10, sul punto specifico afferma che «per le società non iscritte (società di fatto o irregolari), invece, appare preferibile non dettare una specifica disposizione, sicché esse continuano ad essere assoggettate a fallimento senza alcun limite temporale. La loro equiparazione all'imprenditore individuale, per il quale il termine inizia a decorrere dalla cessazione di fatto dell'attività, finirebbe per avvantaggiare le società non iscritte rispetto a quelle iscritte nel registro delle imprese, per le quali il termine comincia a decorrere solo dalla cancellazione, adempimento conclusivo della liquidazione. D'altra parte, la mancata iscrizione nel registro delle imprese dipende da una scelta dei soci, per cui l'impossibilità di usufruire del termine annuale dipende dalla loro volontà. La legge, infine, non può non sanzionare la violazione delle norme che impongono l'iscrizione nel registro». La soluzione più convincente sembra, tuttavia, quella di ritenere che il fallimento della società di fatto è possibile fino alla scadenza del termine annuale dal momento in cui la stessa sia cessata e tale cessazione sia portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei (Cass. n. 13070/2003). E così, in effetti, ha, anche di recente, giudicato la Corte di cassazione, affermando che il termine di un anno dalla cessazione dell'attività, prescritto dall'art. 10 l.fall. ai fini della dichiarazione di fallimento, decorre, tanto per gli imprenditori individuali quanto per quelli collettivi, dalla cancellazione dal registro delle imprese e si applica anche alle società non iscritte nel registro, nei confronti delle quali, tuttavia, il bilanciamento tra le opposte esigenze di tutela dei creditori e di certezza delle situazioni giuridiche, impone d'individuare il dies a quo nel momento in cui la cessazione dell'attività sia stata portata a conoscenza dei terzi con mezzi idonei o, comunque, sia stata dagli stessi conosciuta, anche in relazione ai segni esteriori attraverso i quali si è manifestata. L'onere di fornire la prova di tali circostanze spetta al resistente (Cass. n. 15346/2016; conf. Cass. n. 6199/2009; Cass. n. 18618/2006, che, in applicazione di tale principio, ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva rigettato l'istanza di fallimento proposta nei confronti di una società di fatto per intervenuta scadenza del termine di cui all'art. 10 cit., facendolo decorrere dalla data dell'atto notarile di trasferimento dell'azienda, da essa ritenuto idoneo a rendere manifesta la cessazione dell'attività). Piuttosto, si può discutere se, ai fini della decorrenza del termine annuale, rilevi ma mera cessazione dell'attività ovvero anche la sua completa liquidazione, quanto meno informale. La Corte di cassazione ha, in effetti, rilevato che è possibile che la società di fatto, dopo il suo scioglimento, venga liquidata direttamente dal socio superstite senza bisogno di una liquidazione formale e che detto socio possa poi, conclusa la liquidazione, continuare l'impresa a titolo individuale e che tale principio lascia chiaramente intendere che la prosecuzione dell'impresa a titolo individuale, in tanto può avvenire, in quanto il socio superstite abbia preventivamente compiuto la liquidazione della società e determinato poi l'estinzione di quest'ultima (Cass. n. 19736/2008). Se ne potrebbe, qundi, inferire, per un verso, che la continuazione a titolo individuale dell'impresa può, quindi, avvenire nella sola ipotesi in cui il socio superstite abbia già proceduto alla liquidazione informale della società (Cass. n. 2006/2001; Cass. n. 12553/2004) e, per altro verso, che, una volta conclusa, sia pur informalmente, la liquidazione della società, quest'ultima si estingue nello stesso modo in cui, nelle società regolari, opera la cancellazione dal registro delle imprese (art. 10 l.fall.): con la conseguenza che, da quel momento (che, naturalmente, spetta alla società stessa dedurre e provare), decorre il termine annuale per la dichiarazione di fallimeto. Ai fini della tempestività della dichiarazione di fallimento di una società di fatto, non assume, invece, alcun rilievo la circostanza che l'impresa apparentemente individuale, ad essa in realtà riferibile, sia stata cancellata dal registro delle imprese da oltre un anno, posto che la società, sia pur di fatto, assume un'identità soggettiva distinta da quella delle persone (fisiche e non) che la compongono (Cass. n. 3621/2016; in senso contrario, tuttavia, Cass. n. 16145/2013, secondo la quale, «... nei casi... nei quali per l'esercizio di un'impresa commerciale risultante iscritta nel Registro quale impresa individuale sia stata costituita una società di fatto, che per sua natura è priva di riscontri formali, la cessazione di tale impresa deve ritenersi opponibile ai terzi creditori — con conseguente inizio di decorrenza del termine annuale per la dichiarazione di fallimento — dalla data di cancellazione dal Registro della impresa individuale, ove non sia fornita prova che il vincolo sociale si sia sciolto in data anteriore e che tale circostanza sia stata portata a conoscenza dei terzi creditori con mezzi idonei»). Nello stesso modo, è irrilevante, ai fini della tempestività della dichiarazione del fallimento sociale, che l'imprenditore apparentemente individuale abbia cessato l'attività imprenditoriale, essendo la dichiarazione di fallimento dell'impresa apparentemente individuale superata dal successivo accertamento della natura sociale dell'impresa medesima: in altri termini, la seconda dichiarazione di fallimento ha esplicitato che l'impresa individuale, per la quale era stato dichiarato il primo fallimento, non era tale ma era un'impresa societaria di fatto e, di conseguenza, che la prima dichiarazione di fallimento ha riguardato un soggetto titolare di una impresa non individuale, come era stato formalmente dichiarato, ma societaria di fatto (Cass. n. 4529/2008). Quanto al socio occulto, già la Corte costituzionale, con le ordinanze n. 321/2002 e n. 36/2003, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 147, comma 2, l.fall., sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede un limite temporale, decorrente dalla data della sentenza dichiarativa del fallimento principale, per la dichiarazione di fallimento in estensione del socio occulto o apparente, illimitatamente responsabile. La Corte, in particolare, ha sottolineato che non possono in alcun modo essere poste a raffronto, ai fini della applicabilità del termine annuale entro il quale può essere dichiarato il fallimento personale del socio illimitatamente responsabile di una società personale, due situazioni fra loro del tutto diverse quali sono quella del socio receduto da una società regolarmente costituita e registrata, nel rispetto delle forme di pubblicità prescritte dalla legge, e quella del socio occulto di una società irregolare perché non iscritta nel registro delle imprese o addirittura, a sua volta del tutto occulta. Infatti, tutto il sistema normativo, ed in particolare le disposizioni del libro V del codice civile in tema di responsabilità personale del socio per le obbligazioni delle società di persone, è improntato a netta differenza tra società registrate e società irregolari o occulte, potendo essere opposte ai creditori (salvo che questi ne abbiano avuto ugualmente conoscenza) solo le vicende, societarie o personali, regolarmente iscritte nel registro delle imprese, secondo quanto prescrivono gli artt. 2193 e 2300 c.c. e le altre disposizioni connesse. Le stesse sentenze n. 66/1999 e n. 319/2000, in precedenza citate, considerano, appunto, esclusivamente le ipotesi nelle quali sia stata regolarmente cancellata una società dal registro delle imprese ovvero nelle quali sia regolarmente pubblicizzata la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile a seguito di vicende che siano state, a loro volta, debitamente portate a conoscenza dei terzi nelle forme prescritte. Ed è proprio la necessità di dare certezza alle situazioni giuridiche che consente al legislatore di prevedere una diversa disciplina per le società e i soci in regola con le disposizioni sulla pubblicità e per i soci e le società irregolari, se non occulti, essendo la mancata registrazione una scelta degli stessi associati, che in tal modo si espongono, per loro volontà, alle conseguenze di tale loro opzione. La diversa disciplina delle società e dei soci in regola con le disposizioni sulla pubblicità rispetto a quella applicabile ai soci delle società irregolari si giustifica, quindi, sulla base della considerazione che la mancata registrazione della società costituisce una scelta degli associati i quali, in tal modo, si espongono, per loro volontà, alle conseguenze di tale opzione; ciò che, d'altra parte, è in sintonia con gli interessi dei creditori rispetto ai quali la possibilità di richiedere il fallimento di colui che ha voluto occultare la propria qualità di socio costituisce un mezzo di rafforzamento della garanzia patrimoniale. Nel medesimo senso, del resto, depone anche l'art. 10 l.fall.: se l'imprenditore individuale o collettivo non può dare la prova di una diversa data di cessazione dell'attività rispetto a quella consacrata dalla cancellazione dal registro delle imprese, è del tutto coerente che il socio occulto di una società, privo di ogni riconoscimento nell'ambito del registro delle imprese, non possa fornire alcuna prova in ordine alla cessazione della propria qualità di socio illimitatamente responsabile, nel prevalente interesse della tutela dell'affidamento dei terzi, che ha indotto il legislatore a trattare l'interesse di detto socio come del tutto recessivo (Cass. n. 5533/2015; conf. Cass. n. 15488/2013). Il termine annuale per la dichiarazione di fallimento, previsto dall'art. 147, comma 2, l.fall., riguarda, pertanto, solo i soci illimitatamente responsabili di società regolare e non, invece, il socio occulto che risulti dopo la dichiarazione di un imprenditore individuale, avendo, in tal modo, il legislatore dato attuazione ai principi affermati dalla Corte costituzionale con le ordinanze n. 321/2002 e n. 36/2003 (Abete, 2008, 97). Il principio della certezza delle situazioni giuridiche, la cui attuazione la Corte costituzionale ha inteso tutelare con la dichiarazione di incostituzionalità del comma primo dell'art. 147, impone, in definitiva, di ritenere che la decorrenza del termine annuale per il socio occulto receduto non possa farsi risalire alla data del recesso (Cass. n. 11562/2008; Cass. n. 6199/2009; Cass. n. 7075/2005), né, tanto meno, a quella della dichiarazione di fallimento della società, che non scioglie il vincolo societario (Cass. n. 11562/2008; Cass. n. 5764/2011). Non è chiaro, tuttavia, se il socio occulto ha la possibilità di dimostrare di aver portato a conoscenza dei terzi lo scioglimento del rapporto sociale con mezzi idonei, a norma dell'art. 2290, comma 2, c.c., con conseguente decorrenza del termine annuale per la dichiarazione di fallimento. Nel vigore della legislazione fallimentare antecedente alla riforma, la Corte di cassazione, pur ritenendo il principio di certezza delle situazioni giuridiche imponesse che la decorrenza di detto termine per il socio occulto receduto non poteva farsi risalire alla data del suo recesso, aveva, nondimeno, ammesso che tale termine potesse decorrere da quella in cui lo scioglimento del rapporto fosse stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, di guisa che occorreva, in concreto, tener conto della data della eventuale pubblicizzazione del recesso o di quella in cui i creditori ne avessero avuto conoscenza o lo avessero colpevolmente ignorato (Cass. n. 5764/2011; Cass. n. 10268/2004; Cass. n. 22347/2004; Cass. n. 18927/2005). A seguito della riforma, mentre, secondo un'impostazione, il legislatore ha voluto che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento entro l'anno trovasse applicazione solo in riferimento alle società regolari ed ai soci regolari delle stesse (Cass. n. 15488/2013), in altra ricostruzione, invece, la norma dell'art. 147, comma 2, l.fall., nella parte in cui fa dispone che il termine annuale decorre dal momento in cui sono state osservate «le formalità per rendere noti ai terzi i fatti» che hanno determinato la perdita della responsabilità illimitata del socio, non fa, in realtà, riferimento solo all'iscrizione di tali fatti nel registro delle imprese, applicabile, ovviamente, solo in caso di società regolari, ma, più ampiamente, ai «mezzi idonei» a farli conoscere dai terzi, come previsto dall'art. 2290, comma 2, c.c., il quale, invece, trovando applicazione anche in caso di società non registrate (Montagnani, 257), consente al relativo socio, onde sottrarsi alla sentenza di fallimento, di dimostrare di aver portato a conoscenza dei terzi il proprio recesso, purché ciò sia avvenuto con mezzi idonei, e che, da quel momento, è decorso oltre un anno (Caridi, 904; Blatti, 1125). Nel caso di accertamento della sussistenza di una società occulta e di estensione del fallimento al socio occulto, previo accertamento che l'altro socio, erroneamente dichiarato fallito quale imprenditore individuale era in realtà socio della società occulta, vengono conservati tutti gli effetti del fallimento già dichiarato dell'altro socio, come implicitamente stabilisce la l'art. 147, comma 2, l.fall. Per effetto della seconda sentenza muta, infatti, soltanto il titolo in virtù del quale socio è stato dichiarato fallito: non già quale imprenditore individuale, ma quale socio illimitatamente responsabile della società occulta. La seconda sentenza di fallimento ha, dunque, un'efficacia ex tunc limitata, consistente nel solo mutamento del titolo del fallimento del socio già fallito, che resta fallito a diverso titolo (Cass. n. 3621/2016). Per il resto gli altri soggetti investiti dalla seconda sentenza, la società ed il socio la cui esistenza ha svelato la natura collettiva dell'impresa colpita dalla prima dichiarazione di fallimento, non possono fallire che dalla data della relativa pronuncia, posto che la deroga al principio dell'efficacia ex nunc delle sentenze costitutive è limitata ai casi previsti dalla legge (Cass. n. 13421/2008). Il passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento individuale, pertanto, fa soltanto venir meno tale mutamento del titolo, ma non determina alcun effetto sulla sentenza di estensione, la quale, quindi, acquisisce carattere originario quanto a presupposti e procedimento, con la conseguente necessità, nell'eventuale giudizio impugnatorio, di un nuovo accertamento dei requisiti soggettivi ed oggettivi di fallibilità della società occulta e dei suoi soci illimitatamente responsabili (Cass. n. 3621/2016). La dichiarazione di fallimento di una società di persone si estende automaticamente ai soci illimitatamente responsabili, ivi compresi i soci di fatto, sia palesi che occulti, senza, però, che sia a tal fine necessario che venga presentata un'apposita istanza di estensione ai sensi dell'art. 147, comma 4, l.fall., ove tale qualità venga accertata già nel corso del procedimento prefallimentare (Cass. n. 22594/2015; Cass. n. 12120/2016). La partecipazione della società di capitali ad una società di fatto e la sua fallibilitàL'art. 147 l.fall., nei commi 4 e 5, disciplina, come visto, due ipotesi: la prima riguarda l'estensione del fallimento di una società palese ad eventuali soci occulti della medesima; la seconda concerne l'estensione del fallimento di un imprenditore (apparentemente) individuale alla società occulta di cui il medesimo appaia socio insieme ad altri. La prima questione è se fattispecie di cui al quinto comma dell'art. 147 l.fall. possa applicarsi anche all'ipotesi in cui la dichiarazione di fallimento, da cui trae origine l'estensione alla società occulta, sia rappresentata dal fallimento di un imprendere non individuale, bensì collettivo. Non è chiaro, infatti, se la norma, facendo riferimento solo al caso dell'imprenditore individuale, sia applicabile anche al caso di società. La soluzione più diffusa ritiene che la norma si applichi anche al caso della società e poggia, in sostanza, su due rilievi: a) la fattispecie prevista dal quinto comma dell'art. 147 l.fall. deve intendersi comprensiva di tutte le ipotesi in cui, dopo il fallimento di un imprenditore (sia esso persona fisica o società), risulta che l'attività dallo stesso esercitata era, in realtà, riferibile ad una società; b) in ogni caso, la disposizione citata deve reputarsi analogicamente applicabile, ricorrendo l'identica ratio, anche all'ipotesi in cui, appunto, ad essere dichiarata falluta non è un'impresa individuale ma un'impresa collettiva. La soluzione positiva (sostenuta, tra gli altri, da Spiotta, 2008, 89 ss.) è senz'altro condivisibile. Intanto, va escluso che il carattere eccezionale della disposizione (che, secondo quanto si legge nella relazione ministeriale di accompagnamento al decreto legislativo di riforma della legge fallimentare, ha recepito l'orientamento giurisprudenziale in tema di fallibilità della cd. società occulta) ne impedisca un'applicazione più ampia di quella consentita dalla sua formulazione letterale: è stato infatti correttamente rilevato che il divieto di applicazione analogica delle leggi eccezionali, sancito dall'art. 14 disp. prel. c.c., non comporta anche il divieto di una loro interpretazione estensiva, volta ad individuare tutte le ipotesi in esse disciplinate e che ne sono fuori solo in apparenza, perché non esplicitamente menzionate. Il testo della norma, in effetti, deriva dal fatto che il dibattito intorno alla configurabilità di una società di fatto o occulta fra società di capitali, ed alla conseguente fallibilità di queste ultime quali soci illimitatamente responsabili, si è sviluppato solo dopo la riforma della legge fallimentare: appare, dunque, evidente che il legislatore della riforma ha codificato l'orientamento giurisprudenziale che ammetteva il fallimento delle società occulte tenendo conto che esso si era formato sul presupposto (dato per scontato) che le società in questione potessero essere costituite solo fra persone fisiche (in tal senso, Cass. S.U., n. 5636/1988; Cass. n. 7/1995; in senso conf., Ghidini, 93 ss.; in senso contrario, invece, Cottino, 1994, 34 ss.). In quel contesto, infatti, la società (di fatto) occulta era ristretta alle sole persone fisiche, cioè all'evenienza in cui una data persona fisica operasse all'esterno quale apparente imprenditore individuale e di seguito si svelasse che l'attività d'impresa posta in essere «a suo nome» era viceversa da imputare ad un organismo collettivo di cui il «terminale esterno» era — semplicemente — socio illimitatamente responsabile unitamente ad altra o ad altre persone fisiche del pari responsabili illimitatamente (per tale definizione, Abete, 2017, 169 ss.). Il riferimento all'imprenditore individuale, contenuto nell'art. 147, comma 5, l.fall., ha, quindi, valenza meramente indicativa dello «stato dell'arte» dell'epoca in cui la norma è stata concepita, che non può essere di ostacolo ad una sua interpretazione estensiva che, tenuto conto del mutato contesto nel quale essa deve attualmente trovare applicazione, ne adegui la portata in senso evolutivo, includendovi fattispecie non ancora prospettabili alla data della sua emanazione, in modo da ritenere che «la disposizione del quinto comma dell'art. 147 l.fall. è analogicamente applicabile, ricorrendo la identica ratio, anche all'ipotesi... in cui, dichiarato il fallimento di una società, risulti che l'attività d'impresa della società fallita fa parte è riconducibile ad una società di cui quella già fallita fa parte e delle cui obbligazioni risponde illimitatamente» (Trib. Forlì 9 febbraio 2008, Fall. 2008, 1328 ss; App. Caltanissetta 28 luglio 2014, ilcaso.it; in dottrina, Spiotta, 2008, 89; Murino, 934; in senso contrario, App. Bologna 11 giugno 2008, G.it. 2009, 652, per cui, invece, «non è consentito estendere... il fallimento iniziale di una società di capitali ad una società di fatto, sia essa formata solo da società di capitali o anche da persone fisiche», aggiungendo, in relazione alla norma del quinto comma dell'art. 147 l.fall., che «trattandosi di norma si sicura valenza eccezionale l'eventuale superamento interpretativo di tale ineludibile dato testuale deve, d'altra parte, tenere ben presente i limiti che separano tale operazione ermeneutica da una applicazione meramente analogica della norma in commento»; in quest'ultimo senso, in dottrina, Fimmanò, 2009, 89 ss; Fimmanò, 2016, 1189 ss., 1195; Sciuto, 443; Abete, 2017, 169 ss., per il quale, pur nel sistema fallimentare riformato, si deve reputare che il criterio formale d'imputazione alla stregua della spendita del nome permanga quale impregiudicata regola generale, sicché la disposizione di cui al comma 5 dell'art. 147 c.c. — cui è sotteso l'opposto il criterio sostanziale d'imputazione alla stregua della spendita dell'interesse — è norma che «fa eccezione a regola generale»; Restuccia, 1247 ss, 1253, 1254). La Corte di cassazione (Cass. n. 10507/2016) ha condiviso l'orientamento secondo cui un'interpretazione dell'art. 147, comma 5, l.fall. che conducesse all'affermazione dell'applicabilità della norma al solo caso (di fallimento dell'imprenditore individuale) in essa espressamente considerato, risulterebbe in contrasto col principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost.: non v'è, infatti, alcuna ragione che, nell'ipotesi disciplinata dal comma 5 — in cui l'esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci — possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo. Stabilito, dunque, che l'art. 147, comma 5, l.fall., trova applicazione, oltre che nel caso in cui il primo fallimento abbia riguardato un imprenditore individuale, anche al caso in cui tale fallimento abbia riguardato una società, si è posta, allora, la questione relativa alla possibilità di estendere tale fallimento quando si accerti che la società di capitali, già dichiarata fallita, sia (o sia stata) socia di una (super)società di fatto, cui l'impresa (apparentemente) gestita dalla prima è, in realtà, imputabile, rientrandosi, altrimenti, nella differente ipotesi del fallimento del socio, previsto dall'art. 149 l.fall.. La questione, peraltro, non si pone necessariamente in termini di estensione del fallimento già dichiarato. È chiaro, infatti, che, ove si ritenga che la norma dell'art. 147, comma 5, l.fall. trovi applicazione solo nel caso in cui il primo fallimento riguarda un imprenditore individuale, il tema del fallimento della società di fatto, di cui una società di capitali sia socia, si pone esclusivamente quale possibile esito di un ordinario procedimento prefallimentare, fondato sul previo accertamento, in via ascendente, della società di fatto e della sua insolvenza, che determina, in via discendente, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili ex art. 147, comma 1, l.fall. (Fimmanò, 2016, 1189 ss., 1195, 1196; Fimmanò, 2009, 89 ss.; Restuccia, 1254). Si tratta, in ogni caso, di verificare: 1) se sia ammissibile la partecipazione di una società di capitali ad una società di persone; 2) quale sia il contenuto dell'art. 2361, comma 2, c.c. in ordine alle prescrizioni, ivi contenute, sulla previa deliberazione assembleare e sulla indicazione della partecipazione nella nota integrativa al bilancio, ed agli effetti dell'inottemperanza; 3) se (come del resto suggerito dalla Corte costituzionale: cfr. Corte cost. n. 276/2014;Corte cost. n. 15/2016) le prescrizioni di cui all'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per la società per azioni, possano trovare applicazione anche alle società a responsabilità limitata; 4) se, infine, il fallimento della società di fatto insolvente possa essere esteso, a norma dell'art. 147 l.fall., alla società di capitali quale suo socio illimitatamente responsabile. La prima questione (e cioè se sia ammissibile la partecipazione, anche di fatto, di una società di capitali ad una società di persone: cd. supersocietà) è stata risolta in senso affermativo dalla riforma del diritto societario, a mezzo degli artt. 2361 c.c. e 111-duodecies disp. att. c.c., i quali ammettono espressamente che una società di capitali possano assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile, tra l'altro, di una società in nome collettivo, ivi compresa, dunque, la società in nome collettivo irregolare, tra cui, in defintiva, la società di fatto (art. 2297 c.c.). L'art. 2361 c.c., infatti, stabilisce che la «partecipazione in altre imprese» da parte di una società di capitali (arg. ex art. 111-duodecies disp. att. c.c.), ove comporti la «responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime», deve essere deliberata dall'assemblea, aggiungendo che di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio. L'art. 111-duodecies disp. att. c.c., poi, precisa che «qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili, di cui all'art. 2361, comma secondo, del codice, siano società per azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata, le società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per le società per azioni», facendo così intendere che il legislatore della riforma non ha inteso limitare alle sole società per azioni la possibilità di partecipare a società di persone, ma ha attribuito alla norma dettata nell'art. 2361, comma 2, c.c. la portata di principio applicabile a tutte le società di capitali, ivi comprese, dunque, le società a responsabilità limitata (Cass. n. 1095/2016). Nel medesimo senso, del resto, depone l'art. 147, comma 1, l.fall., nel testo successivo alla riforma della legge fallimentare, il quale, in coerenza con la predetta opzione normativa, dispone che «la sentenza che dichiara il fallimento di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile (e cioè di una società in nome collettivo, di una società in accomandata semplice o di una società in accomandita per azioni) produce anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili», in tal modo ribadendo la possibilità che le società di persone, anche se di mero fatto (cd. «supersocietà» di fatto), possono avere, tra i propri soci illimitatamente responsabili, altre società, anche di capitali (Abete, 2017, 169 ss., per il quale, in effetti, al di là delle previsioni del comma 2 dell'art. 2361 c.c. e dell'art. 111-duodecies disp. att. c.c., la supersocietà di fatto è consentita tout court dal comma 1 dell'art. 147 l.fall.: il capo III del titolo V del libro V — esplicitamente richiamato nel testo del comma 1 dell'art. 147 l.fall. — contempla anche, all'art. 2297 c.c., il modello della collettiva irregolare, alla cui disciplina si ricollega a mò di mera variante la società di fatto esercente attività d'impresa commerciale, sicché la possibilità, che lo stesso art. 147, comma 1, l.fall. prospetta, che soci illimitatamente responsabili siano pur persone non fisiche, va riferita sia al modello sia alla sua pura e semplice variante). In definitiva, la nuova disciplina della materia consente che una società di capitali partecipi, anche nella qualità di socio illimitatamente responsabile, ad una società di persone, pur nella variamente della società di fatto (Cass. n. 1095/2016). La seconda questione riguarda la corretta interpretazione dell'art. 2361, comma 2, c.c., nel testo introdotto dalla riforma del diritto societario. Tale norma stabilisce che la «partecipazione in altre imprese» da parte di una società per azioni, ove comporti la «responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime», deve essere deliberata dall'assemblea, aggiungendo che di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa del bilancio. La norma, come detto, ammette che la società per azioni partecipi ad una società di persone, anche di fatto (cd. supersocietà di fatto), configurandosi come una società in nome collettivo irregolare, assoggettata, come tale, al regime desunto dall'art. 2297 c.c., con la conseguente responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci. In tal caso, però, il legislatore, a differenza che nel comma 1 — che, nel suo nucleo precettivo essenziale, preesiste alla riforma del diritto societario ed era, all'epoca, interpretato nel senso di precludere, con la sanzione della nullità, la partecipazione di una società di capitali ad una società di persone (Cass. S.U., n. 5636/1988), anche ai fini concorsuali (Cass. n. 7/1995) — non ha posto un divieto, limitandosi, piuttosto, a prevedere, in caso di partecipazione della società di capitali «in altre imprese» che comporti la «responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime», solo due adempimenti formali: che l'assunzione della partecipazione sia «deliberata dall'assemblea» e che riceva una «specifica informazione nella nota integrativa del bilancio». Il problema, quindi, si pone nel caso in cui una o entrambe le condizioni non sussistano, come quando gli amministratori, senza aver chiamato i soci a decidere, abbiano acquisito tale partecipazione o svolgano in concreto attività d'impresa con altri soggetti, individuali o collettivi, mediante una società di fatto, ed, in aggiunta o indipendentemente dal primo inadempimento, omettano di rendere la dovuta informazione in bilancio. Non è chiaro se, in tale ipotesi, la partecipazione, sia essa formale o sostanziale, nell'altra impresa sia, oltre che valida (perché come è stata voluta dalla normativa introdotta dalla riforma), anche efficace e, come tale, opponibile alla società medesima, al punto da esporla, in caso di fallimento della società partecipata, al fallimento per ripercussione, ovvero sia, al contrario, inefficace e tale inefficacia sia opponibile ai terzi, quali i creditori della società partecipata e della società di capitali socia di quest'ultima. Una prima ricostruzione sostiene che, mentre l'incoerenza con l'oggetto sociale e l'eventuale violazione dei limiti statutari al potere di rappresentanza degli amministratori sono del tutto inopponibili ai terzi, per cui non possono incidere sulla validità ed efficacia degli atti compiuti dagli amministratori, altrettanto non vale per i limiti del potere di rappresentanza posti, come quello stabilito dall'art. 2361, comma 2, c.c., direttamente dalla legge: trattandosi di limiti che derivano direttamente dall'ordinamento, non v'è alcun motivo di tutela per l'affidamento di coloro che hanno trattato con gli amministratori fidando nell'ampiezza dei loro poteri e deve darsi prevalenza alle esigenze proprie dell'organizzazione societaria, che sono sottese alle limitazioni legali, ritenendo sempre opponibili ai terzi le violazioni di tali limitazioni. D'altra parte, il fatto che l'attuale testo degli artt. 2384 e 2475-bis c.c. non richiami i limiti del potere di rappresentanza derivanti dalla legge può ben considerarsi il frutto di una tecnica di redazione tendente ad evitare l'uso di proposizioni superflue, essendo ovvio che non può considerarsi consentito agli amministratori (in base alla norma generale che disciplina i loro poteri) ciò che una norma speciale (come l'art. 2361, comma 2, c.c.) impedisce loro di fare senza la previa autorizzazione dell'assemblea. Depone in tal senso anche il secondo comma dell'art. 2384 c.c. (cui corrisponde il secondo comma dell'art. 2475-bis c.c.), il quale dispone che «le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate...» laddove, al contrario, le limitazioni che derivano direttamente dalla legge (che non hanno ovviamente bisogno di esser pubblicate e si presumono note a tutti) sono opponibili ai terzi ed incidono, quindi, sull'efficacia verso la società degli atti posti in essere dagli amministratori in loro violazione (App. Torino 30 luglio 2007, Giur. it. 2007, 2219 ss., per cui «la prescrizione che l'atto (di competenza degli amministratori) di assunzione di partecipazione comportante illimitata responsabilità della s.p.a. sia preceduto da delibera assembleare (art. 2361 cit.), costituisce... un condizionamento ai poteri gestori dell'organo amministrativo direttamente imposto dalla legge, sicché il superamento di detti limiti non può che comportare l'inefficacia dell'atto suddetto»). Del resto, e più radicamente, la norma attribuisce all'assemblea, più che il potere di autorizzare gli gli amministratori all'acquisto della partecipazione, il potere gestorio di decidere l'atto: Bartalena, 108 ss., 111, secondo cui l'assenza della delibera si traduce in una carenza del potere di gestione, prima ancora che di quello rappresentativo. A sostegno di tale conclusione si è, poi, affermato che l'acquisizione o l'assunzione da parte di una società di capitali della partecipazione ad una società di persone (anche di fatto) richiede, quale presupposto (quanto meno) per l'opponibilità (alla società) degli atti o dei comportamenti a tal fine compiuti dagli amministratori, la deliberazione autorizzativa dell'assemblea, onde evitare che l'attività di gestione degli amministratori possa esporre la società (pur se di per sé non insolvente) alle conseguenze dell'insolvenza della società partecipata (di diritto o anche in via di mero fatto), e cioè al fallimento a norma dell'art. 147, comma 1, l.fall., senza che i soci abbiano avuto modo di apprezzare tale rischio ed anche senza che i creditori abbiano potuto valutare, mediante l'informazione fornita nella nota integrativa del bilancio (art. 2361, comma 2, in fine, c.c.), l'affidabilità della società (anche) alla luce della partecipazione in esame e dei suoi riflessi sulla fallibilità della società loro debitrice (Trib. Torino 4 aprile 2007, Giur. it. 2007, 1442 ss., per cui la disciplina che esige la delibera dei soci e la notizia della partecipazione nella nota integrativa, se inosservata, «integrerebbe una violazione dei diritti dei soci e dei creditori della società, a tutela dei quali è preposta la normativa sulla veridicità dei dati del bilancio e della nota integrativa»). In definitiva, la partecipazione di una società per azioni ad una società di persone (anche di fatto) è, quindi, opponibile alla prima solo quando l'assemblea dei suoi soci l'abbia preventivamente deliberata (o, al più, abbia successivamente ratificato l'operato degli amministratori) — nelle forme procedimentali tipiche delle deliberazioni assembleari di cui all'art. 2479-bis c.c. (e, quindi, non in punto di mero fatto, come nel caso in cui i soci o la loro maggioranza coincidano, sul piano soggettivo, con gli amministratori), allo scopo, evidentemente, di assicurare al soci, o al terzo interessato, di poterla impugnare ex art. 2479-ter c.c. — ed a ciò faccia seguito l'esteriorizzazione della partecipazione con la specifica indicazione nella nota integrativa. Ne consegue che, in difetto di un'espressa deliberazione assembleare dei soci, l'assunzione da parte degli amministratori di una partecipazione ad una società di fatto, non è opponibile alla società (o, se si vuole, il difetto della delibera è dalla società opponibile ai terzi) ed esclude, quindi, la responsabilità illimitata della stessa per le obbligazioni contratte dalla società partecipata e, per l'effetto, la sua fallibilità a norma dell'art. 147, comma 5, l.fall. (in tal senso, in dottrina, Bassi, 2811; Vassalli, 1931, nt. 24; Cottino, 2007, 2223 ss.; Irrera, 1333; Mirone, 419 s., nt. 45; Fauceglia, 1222 ss, 1227 ss.; Amatucci, 131; in giurisprudenza, App. Napoli 5 giugno 2009, R.Soc. 2009, 1481; App. Bologna 11 giugno 2008, G.it. 2009, 652; App. Torino 30 luglio 2007, G.it. 2007, 2219; Trib. Torino 4 aprile 2007, cit.; App. Venezia 10 dicembre 2011; Trib. Como 7 maggio 2015, ilfallimentarista.it; Trib. Bergamo, 19 marzo 2015 ilcaso.it.: «si ritiene invero che la mancata formalizzazione della partecipazione, attraverso l'assunzione della necessaria delibera assembleare, sia tale da inibire la venuta ad esistenza del legame societario». Trib. Santa Maria C.V. 15 gennaio 2015, ilcaso.it; Trib. Mantova 30 aprile 2013, Giur.comm., 2014, II, 906 ss; Trib. Foggia 3 marzo 2015, Fall. 2015, 745). Il vizio di efficacia della partecipazione di una società di capitali in una società di persone è, peraltro, rilevabile d'ufficio dal giudice, trattandosi di presupposti per l'assoggettabilità a fallimento (cfr. App. Venezia 10 dicembre 2011, cit.; Trib. Santa Maria C.V. 15 gennaio 2015, cit.). Altra ricostruzione, invece, argomentando dal nuovo testo dell'art. 2384, comma 1, c.c. (al quale corrisponde, nelle società a responsabilità limitata, l'art. 2475-bis, comma 1, c.c.), che attribuisce agli amministratori il potere generale di rappresentanza della società, senza più collegarlo con l'oggetto sociale e senza più ricordare le limitazioni che derivano dalla legge o dall'atto costitutivo (come faceva il testo originario), nonché dall'eliminazione dell'art. 2384-bis c.c. (che disciplinava gli effetti del compimento di atti estranei all'oggetto sociale), sostiene che non sono opponibili ai terzi neppure i limiti del potere di rappresentanza che derivano dalla legge e che, quindi, salva la responsabilità degli amministratori verso la società ed i suoi creditori, l'acquisto di partecipazioni operato senza la previa deliberazione dell'assemblea è efficace ed è vincolante per la società, determinando, in particolare, l'assunzione da parte della società di capitale, anche in via di mero fatto, dello status di socio illimitatamente responsabile di una società di persone (anche di fatto o occulta), e la conseguente esposizione della stessa al fallimento quale automatica conseguenza dell'insolvenza della società partecipata. In tale impostazione, quindi, la mancanza dell'autorizzazione assembleare non costituisce un ostacolo al riconoscimento dell'ammissibilità della partecipazione di società di capitali a società di fatto (Trib. Forlì 9 febbraio 2008, Fall. 2008, 1328 ss; Trib. Santa Maria C.V. 8 luglio 2008, Fall. 2009, 89; Trib. Prato 12 novembre 2010, Foro. it. Merito extra, 2011.3, 8/9; Trib. Palermo 14 ottobre 2012, Soc. 2013, 392; Trib. Reggio Calabria 8 aprile 2013, Dir. fall., 2014, II, 63; Trib. Vibo Valentia 10 giugno 2011, Banca borsa tit. cred., 2013, II, 457; Trib. Nola 23 maggio 2013; App. Caltanissetta 28 luglio 2014; Trib. Brindisi 7 gennaio 2013, Giur. comm. 2014, II, 906 ss.; App. Catanzaro 30 luglio 2012; in dottrina, Fimmanò, 2009, 89 ss; Fimmanò, 2016, 1192; Abete, 2016, 1364 ss.; Platania, 2008, 1293 ss; Restuccia, 1252, 1253). La Corte di cassazione, con la sentenza n. 1095/2016, ha aderito a quest'ultima conclusione risolvendo in senso positivo la questione dell'ammissibilità di una società di fatto (occulta o comunque irregolare, ai sensi dell'art. 2297 c.c.) fra società di capitali, allorché la partecipazione sia assunta dall'amministratore in mancanza della previa deliberazione assembleare e della successiva indicazione nella nota integrativa al bilancio, richieste dall'art. 2361, secondo comma, c.c. Intanto — ha osservato la Corte — nessuna disposizione sancisce il divieto di assumere la partecipazione in una società che preveda la responsabilità illimitata della società azionaria, esistendo, al contrario, una norma di permesso, né commina, ai sensi dell'art. 1418 c.c., la nullità della partecipazione stessa, sol perché manchi la previa deliberazione assembleare o l'indicazione nella nota integrativa. Né tale conseguenza, in mancanza di espressa previsione contraria, può derivare dall'inadempimento successivo all'assunzione della partecipazione da parte degli amministratori all'obbligo di darne notizia nella nota integrativa al bilancio (in tal senso, in dottrina; Irrera, 1336; Cottino, 2007, 2223; in senso contrario, App. Torino 30 luglio 2007, cit., per cui la menzione della partecipazione nella nota integrativa del bilancio è, al pari dellla delibera assembleare, condizione di efficacia dell'atto verso i terzi). Quanto ai limiti legali al potere di rappresentanza degli amministratori, la Corte ha rilevato che l'art. 2384 c.c. attribuisce agli amministratori un potere di rappresentanza generale e le limitazioni ai loro poteri non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società. Il legislatore del 2003 ha inteso, così, modificare il regime dell'opponibilità dei limiti ai poteri dell'organo amministrativo nei confronti dei terzi in senso più restrittivo rispetto al testo previgente, nel senso che tutti gli atti degli amministratori, pur se compiuti in violazione dei limiti posti, sono efficaci nei confronti della società. In tal modo, il rischio delle violazioni commesse dagli amministratori, mediante il compimento di atti eccedenti i poteri loro conferiti, è stato trasferito sulla società, offrendo ai terzi la sicurezza che essa avrebbe fatto fronte agli atti posti in essere, nel suo nome, dagli amministratori, anche se in violazione dei limiti posti. D'altra parte – ha aggiunto la Corte — nel bilanciamento fra gli interessi dei creditori e dei soci partecipanti alla società azionaria (e dei loro creditori) e quelli esistenti in capo ai creditori della società di fatto, non è contrario ai principi del diritto societario riformato che prevalgano questi ultimi, a tutela della sicurezza dei traffici. Il soggetto che entra in contatto con la società personale, partecipata dalla società di capitali, infatti, ha modo di verificare da pubblici registri la previa deliberazione assembleare, posto che di essa non è prevista l'iscrizione ex art. 2193 e 2436 c.c. Il terzo sa solo, in caso di società registrata, che la controparte società personale è partecipata da una società di capitali, dato che potrà risultare dal registro delle imprese, ai sensi dell'art. 2300 c.c., mentre, ove si tratti di mera società irregolare o di fatto, il terzo sa ciò che vede, ossia l'esistenza del rapporto di svolgimento in comune di attività economica, in ipotesi, tra persone fisiche e giuridiche. In definitiva, le limitazioni al potere di rappresentanza degli amministratori non operano nei confronti dei terzi, salva la prova che essi abbiano intenzionalmente agito in danno della società: onde si esclude sia la sussistenza di un onere del terzo di accertarsi preventivamente dell'esistenza di tali limitazioni, sia la rilevanza della mera conoscenza delle stesse da parte del terzo. Il terzo deve poter confidare sull'efficace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza onere di accertare se, nel caso contingente, esistano i presupposti procedimentali «interni» previsti dalla legge: ciò in presenza di tutte quelle attività ed operazioni gestorie che gli amministratori, sia pure a certe condizioni (come appunto la previa deliberazione assembleare), potrebbero efficacemente realizzare con terzi. Non può in conseguenza ammettersi che la società di capitali, la quale abbia svolto attività di impresa operando in società di fatto con altri, possa in seguito sottrarsi alle eventuali conseguenze negative derivanti dal suo agire (ivi compreso il fallimento per ripercussione nel caso in cui sia accertata l'insolvenza della società di fatto) proprio in forza di una violazione di legge perpetrata dai suoi amministratori. La partecipazione acquisita dall'amministratore senza osservanza dei requisiti legali prescritti è, quindi, pienamente valida: l'inadempimento dell'organo gestorio ha una rilevanza meramente interna, giustificando l'adozione dei rimedi rispetto ad esso predisposti (azione sociale di responsabilità, revoca, denuncia al tribunale), ma non può determinare la nullità dell'acquisto compiuto o l'inefficacia dell'attività imprenditoriale di fatto svolta. Non può dirsi, in definitiva, che l'attività di partecipazione a società personale, anche di fatto, resti giuridicamente irrilevante in assenza di decisione assembleare: l'esplicita attribuzione agli amministratori della società per azioni di poteri di rappresentanza «generale», in una con la mancanza di diversa disposizione per il caso di limiti legali ed, al contrario, la costante tutela del mercato e dei terzi che colora tutta la riforma, inducono, infatti, a ritenere inopponibile l'assenza della deliberazione assembleare ai terzi, a meno che si provi che questi abbiano agito intenzionalmente a danno della società (anche collusi con l'amministratore). La stessa conclusione vale per la società a responsabilità limitata. Intanto, l'art. 111-duodecies disp. att. c.c. — che detta prescrizioni in tema di bilancio delle società in nome collettivo e in accomandita per azioni i cui soci illimitatamente responsabili siano unicamente società di capitali — si limita ad annoverare le società a responsabilità limitata fra le società che possono assumere partecipazioni in società di persone. Il riferimento contenuto nella norma all'art. 2361, comma 2, c.c. vale ad individuare la fattispecie (partecipazione in impresa comportante l'assunzione della responsabilità illimitata) da cui deriva l'obbligo di redazione del bilancio secondo la disciplina richiamata, ma non estende le prescrizioni formali di cui all'art. 2361 cit. alle società a responsabilità limitata (conf., in dottrina, Abete, 2017, 169 ss.; Fimmanò, 2009, 89 ss.; in senso contrario, Fauceglia, 1230, 1231, secondo cui «l'assunzione della partecipazione in società a responsabilità illimitata resta ancora una volta idonea ad incidere sulle condizioni di rischio fatte proprie dai soci, ciò implicando quanto meno una loro autorizzazione»). Va escluso, poi, che la partecipazione della società a responsabilità limitata ad una società di persone rientri nelle operazioni comportanti «una rilevante modificazione dei diritti dei soci» che, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., sono riservate alla competenza dell'assemblea: la modifica derivante dall'acquisto della partecipazione consiste, infatti, nell'assunzione da parte della società a responsabilità limitata, della responsabilità illimitata per le obbligazioni della partecipata, mentre non muta la posizione dei soci, che continuano ad essere vincolati nei limiti del conferimento (così anche Abete, 2017, 169 ss, il quale esclude anche che il comma 2 dell'art. 2361 c.c. possa essere applicato analogicamente alla società a responsabilità limitata, in mancanza di eadem ratio legis; Fimmanò, 2009, 89, per il quale, in assenza di prescrizioni normative, che l'assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle stesse, rappresenti un atto gestorio proprio degli amministratori, non rimesso alla competenza dei soci ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5 c.c.). L'operazione di acquisto potrebbe, piuttosto, rientrare fra quelle, sempre riservate alla competenza dell'assemblea dei soci ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., che comportano «una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale determinato nell'atto costitutivo», ma in questo caso occorrerebbe accertare che la partecipazione in una società personale sia così eterogenea rispetto ai fini sociali da modificare in concreto l'oggetto. Ma, al di là di tale ipotesi, l'acquisto della partecipazione in una società di persone resta dunque un atto gestorio riservato agli amministratori, efficace sino al limite dell'agire intenzionale dannoso dei terzi, di cui all'art. 2475-ter c.c. (in senso contrario, v. Ghionni Crivelli Visconti, 63 ss., per il quale l'assunzione di partecipazioni a rischio illimitato da parte della Società a responsabilità limitata richiede l'intervento dell'assemblea ex art. 2479, comma 2, n. 5), c.c., con il quorum previsto dall'art. 2479-bis, comma 3, c.c.). Di qui la conclusione secondo la quale la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per la società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede — almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale — la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c. (in senso conf., Cass. n. 10507/2016). E ciò vale non solo per la partecipazione formale ad una società formalmente costituita (iscritta o meno al registro delle imprese) ma anche per la partecipazione mediante comportamento concludente in un'impresa esercitata da società di fatto, della cui esistenza, piuttosto, è necessaria una prova rigorosa. Se, infatti, la società di fatto si caratterizza per l'esistenza di un patrimonio e di un'attività comune, dall'effettiva partecipazione ai profitti ed alle perdite dei soggetti interessati e dal vincolo di collaborazione tra i soci (con quote che si presumono uguali: artt. 2253 e 2263 c.c.), è, dunque, necessario accertare scrupolosamente e con uso prudente dello strumento specie indiziario l'esistenza di una società di fatto e la sua situazione di insolvenza (Cass. n. 10507/2016; Trib. Forlì 9 febbraio 2008, Fall., 2008, 1328; Trib. Santa Maria Capua Vetere 8 luglio 2008, Fall., 2009, 89 ss; Trib. Brindisi 7 gennaio 2013, Giur. comm., 2014, II, 906, che non ha riscontrato, nel caso esaminato, i presupposti previsti dall'art. 2247 c.c. per affermare l'esistenza di una supersocietà di fatto fra società di capitali, pur ammettendone in astratto la configurabilità; in dottrina, Palmieri, 87). Quanto, infine, al fallimento, la Corte ha osservato che «l'efficace assunzione della partecipazione ne comporta tutte le implicazioni, ivi compreso il possibile fallimento della società di fatto, cui quella di capitali abbia partecipato, e dei suoi soci illimitatamente responsabili», per cui, «accertata l'esistenza di una società di fatto e la sua insolvenza, i soci possono essere dichiarati falliti in estensione... di quello della società di fatto, che invece va accertata nei suoi elementi costitutivi e nello status di soggetto imprenditore insolvente», « ai sensi dell'art. 147, primo comma, l.f.» (Cass. n. 1095/2016; Cass. n. 12120/2016), anche a norma dell'art. 147, comma 5, l.fall. («una volta ammessa la configurabilità di una società di fatto partecipata da società di capitali e la conseguente sua fallibilità ai sensi del 1 comma dell'art. 147 I. fall., non v'è alcuna ragione che, nell'ipotesi disciplinata dal ridetto comma 5 — in cui l'esistenza della società emerga in data successiva al fallimento autonomamente dichiarato di uno solo dei soci — possa giustificarne un differenziato trattamento normativo, ammettendone o escludendone la fallibilità a seconda che il socio già fallito sia un imprenditore individuale o collettivo»: Cass. n. 10507/2016). Del resto – ha aggiunto Cass. n. 10507/2016 — pur a volere ritenere che il mancato rispetto delle prescrizioni di cui all'art. 2361, comma 2, c.c. comporta l'invalidità o l'inefficacia dell'assunzione della partecipazione o del vincolo associativo, il fenomeno non resterebbe irrilevante per l'ordinamento, in quanto non varrebbe a determinare la caducazione retroattiva dell'esistenza dell'ente, attesa la disciplina peculiare del contratto di società, espressa dall'art. 2332 c.c., ritenuto applicabile anche alle società di persone: trattandosi di un ente collettivo, per il quale vale il principio di effettività dell'attività di impresa svolta, ed il cui agire esula dall'orbita meramente negoziale ed assume una sua autonoma rilevanza, la patologia insanabile che affligge la società si converte in causa di scioglimento, con conseguente necessità di nomina dei liquidatori, ai sensi del quarto comma dell'art. 2332 c.c. cit., sicché, in definitiva, la declaratoria di nullità del contratto costitutivo di una società di persone è equiparabile, «quoad effectum», allo scioglimento della stessa (Cass. n. 9124/2015). La società di fatto nulla continua, dunque, ad esistere sino alla definizione dei rapporti giuridici pendenti, con la conseguenza che rimangono fermi i diritti acquisiti nei suoi confronti dai terzi creditori di buona fede e, soprattutto, che rimane ferma la sua soggezione al fallimento in caso che ne venga accertata l'insolvenza (conf., in dottrina, Abete, 2017, 169 ss.; Fimmanò, 2016 1192, 1193; Fimmanò, 2009 89 ss; Restuccia, 1253). Si tratta, insomma, — ha chiosato Cass. n. 12120/2016 — di una società nulla, e tuttavia considerata valida per il passato e, per il futuro, società valida nello (e per lo) stato di liquidazione, senza caducazione retroattiva della sua esistenza, in forza della peculiarità delle nullità societarie, applicabili anche alle società di persone, ai sensi della valenza generale del principio di cui all'art. 2332, commi 2 e 4, c.c. (conf., Ghionni Crivelli Visconti, per il quale, in applicazione del principio dettato in tema di contratti associativi dagli artt. 1420, 1446, 1459 e 1466 c.c. l'inefficacia della partecipazione assunta può portare a quella dell'intera società nell'ipotesi in cui la stessa debba considerarsi essenziale: in tale circostanza, tuttavia, ciò che può consentire di dichiarare ugualmente il fallimento della supersocietà è l'applicazione analogica dell'art. 2332 c.c. quanto agli effetti della nullità. Qualora, poi, l'inefficacia della singola partecipazione non sia essenziale, a maggior ragione potrà ammettersi il fallimento della supersocietà e, in ipotesi, anche quello in estensione della società di capitali partecipante, poiché anche l'invalidità della singola partecipazione (inessenziale) è destinata ad operare solo per il futuro), e, quindi, assoggettabile al fallimento, in caso di insolvenza Fimmanò, 2016, 1192, 1193). Deve, tuttavia, evitarsi il rischio che l'art. 147, comma 5, l.fall. possa essere utilizzato per aggirare le disposizioni dettate dagli artt. 2476, comma 7, e 2497 c.c. ed evitare l'esercizio di un'azione di responsabilità dai profili assai più complessi e dagli esiti incerti. La stessa Corte di cassazione, nella sentenza n. 10507/2016, in precedenza citata, rilevato che, «come è stato correttamente rilevato in dottrina, la norma non si presta..., all'estensione al dominus (società o persona fisica) dell'insolvenza del gruppo di società organizzate verticalmente e da questi utilizzate in via strumentale, ma piuttosto all'estensione ad un gruppo orizzontale di società, non soggetto ad attività di direzione e coordinamento, che partecipano, eventualmente anche insieme a persone fisiche, e controllano una società di persone (la c.d. supersocietà di fatto)» (nello stesso senso, Fimmanò, 2009, 89 ss. Fimmanò, 2016, 1196), a condizione, naturalmente, che sussista la relativa affectio. La prova della sussistenza di tale società deve essere, infatti, fornita attraverso la dimostrazione dei presupposti costituiti dall'esercizio in comune dell'attività economica, dall'esistenza di un fondo comune (da apporti o attivi patrimoniali) e dall'effettiva partecipazione ai profitti e alle perdite e, dunque, un agire nell'interesse (ancorché diversificato e non però contro l'interesse) dei soci (Cass. n. 12120/2016). La supersocietà, in effetti, non dovrebbe mai agire contro l'interesse dei propri soci (persone giuridiche) in violazione dei criteri di corretta gestione societaria ed imprenditoriale (Fimmanò, 2009, 89 ss. Fimmanò, 2016, 1196, 1197). Il fatto che le singole società perseguano, invece, l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, piuttosto, prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, prova a favore dell'esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti – come si vedrà meglio in prosieguo — il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'insolvenza a richiesta di un creditore (Cass. n. 10507/2016; Fimmanò, 2009, 89 ss. Fimmanò, 2016, 1197, 1198). Il fallimento della holding personale o societaria esercente attività di direzione e coordinamento sulla società fallitaL'efficace assunzione della partecipazione, da parte della società di capitali, in una società di persone, anche di fatto, ne comporta, quindi, tutte le implicazioni, ivi compreso il possibile fallimento, per estensione di quello già dichiarato, a norma dell'art. 147, comma 5, l.fall., tanto della supersocietà di fatto, cui quella di capitali abbia partecipato, quanto di tutti i suoi soci illimitatamente responsabili. L'art. 147, comma 5, l.fall., non consente, invece, di estendere, in via ascendente, il fallimento dalla società di capitali alla società, anche di fatto od occulta, che in ordine ad essa abbia esercitato l'attività di holding, richiedendo, in tal caso, in difetto di qualsivoglia rapporto sociale tra la prima e la seconda, un'autonoma dichiarazione di fallimento della società controllante, a norma dell'art. 147, comma 1, l.fall. (Fimmanò, 2009, 89 ss.), ove ne sussistano i presupposti, soggettivi (art. 1 l.fall.) ed oggettivi (art. 5 l.fall.). La domanda di fallimento, però, può essere proposta anche dal curatore del fallimento della società etero diretta, facendo valere, a norma dell'art. 6 l.fall., il credito risarcitorio conseguente all'eventuale abuso, da parte della controllante, della sua posizione di direzione e coordinamento. L'art. 2497, comma 1, c.c., infatti, prevede che la società la quale, nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui, esercita «attività di direzione e coordinamento di società», se agisce «in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale», e cioè per un interesse estraneo rispetto a quello della società o delle società eterodirette, è responsabile, oltre che verso i soci, anche nei confronti dei singoli creditori sociali della società eterodiretta, per la lesione conseguentemente cagionata all'integrità del relativo patrimonio, quanto meno nella misura in cui lo stesso è, per l'effetto, diventato insufficiente alla loro integrale soddisfazione (arg. ex art. 2497, comma 3 2394 c.c. e 100 c.p.c.). In caso di fallimento della società eterodiretta, l'azione spettante ai creditori è promossa dal curatore (art. 2497, comma 4, c.c.). L'azione di risarcimento dei danni subiti dalla società (eterodiretta), peraltro, deve essere riconosciuta, oltre che ai suoi soci e creditori, anche alla medesima società danneggiata (art. 24 Cost.), pur se tale legittimazione non è prevista espressamente dalla legge (Bianchi, 2757): in caso di fallimento della società, però, l'esercizio di tale azione spetta, come per tutti i crediti confluiti nel suo patrimonio, alla legittimazione esclusiva del curatore (artt. 42, comma 1, e 31 l.fall.). Il curatore del fallimento della società eterodiretta ha, quindi, la legittimazione a far valere il credito maturato in capo alla stessa ed ai suoi creditori ad ottenere il risarcimento dei danni arrecati al suo patrimonio, quanto meno nei limiti in cui lo stesso è stato reso insufficiente alla integrale soddisfazione dei debiti sociali, dalla società (anche di mero fatto, oltre che di chiunque abbia preso parte al fatto illecito lesivo) che, avendo svolto (anche) sulla società fallita attività di direzione e coordinamento, abbia violato le norme di corretta gestione societaria ed imprenditoriale. Si tratta, quindi, di verificare se la società fallita è stata effettivamente assoggettata ad attività di direzione e coordinamento della società di fatto asseritamente intercorsa tra i resistenti e se quest'ultima, ove mai veramente esistita o esistente, abbia effettivamente provocato al patrimonio della stessa, in violazione delle norme di corretta gestione imprenditoriale e societaria, per aver agito per un interesse diverso da quello della società fallita eterodiretta, un danno che ne ha leso l'integrità patrimoniale, quanto meno nel senso di renderlo insufficiente alla soddisfazione dei relativi creditori, in corrispondenza delle obbligazioni inadempiute di quest'ultima (ed ammesse al relativo stato passivo). In presenza di tali presupposti, peraltro, il curatore del fallimento della società eterodiretta, avendo (la legittimazione a far valere) il diritto al risarcimento dei danni arrecati alla società fallita (ed ai suoi creditori), può ritenersi, per la relativa somma (pari, ma solo nel quantum, all'ammontare delle obbligazioni inadempiute della società eterodiretta de, quindi, alla sua in capienza patrimoniale, come poi accertata in sede fallimentare: Cass. n. 15346/2016), creditore di tale società (che, infatti, nel sistema delineato dal legislatore, non risponde, in nome dell'interesse sostanziale d'impresa, delle obbligazioni delle società controllate ma, in applicazione dei criteri di imputazione previsti all'ordinamento, solo dei propri debiti, anche non contrattuali) ed è, come tale, legittimato ad agire in giudizio, a norma degli artt. 1, 5, 6, 15 e 147 l.fall., per fare dichiarare, in caso di insolvenza, il fallimento della società che ha esercitato attività di direzione e coordinamento (che, naturalmente, può assumere anche la veste della società di fatto, estendendosi, in tal caso, anche ai soci, in quanto illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali: artt. 2291 e 2297 c.c. e 147, comma 1, l.fall.), — ma, evidentemente, non perché risponde illimitatamente dei debiti della società eterodiretta, quanto — per l'insolvenza conseguente all'impossibilità di adempiere alle proprie obbligazioni, ivi compresa, evidentemente, l'obbligazione risarcitoria assunta, a norma dell'art. 2497 c.c., verso la società fallita ed i suoi creditori (cfr. in tal senso Trib. Vicenza 23 novembre 2006, Fall. 2007, 415 ss. per cui «se... si ritiene che esista una società di fatto svolgente attività d'impresa la quale abbia assunto, in virtù dell'art. 2497 c.c. obbligazioni risarcitorie quantomeno nei confronti dei creditori delle società fallite per i danni subiti, laddove sia dimostrata l'insolvenza, tale società è senz'altro fallibile»; App. Torino 30 luglio 2007, Giur. it. 2007, 2219 ss., per cui «trattasi... di una responsabilità ben diversa da quella, illimitata, rilevante agli effetti dell'art. 147 L.F., tanto è vero che, in caso di fallimento della società coordinata, l'art. 2497 ult. comma, c.c. prevede non già l'estensione del fallimento alla società che si è ingerita, ma l'esercizio da parte del Curatore della azione di responsabilità. Ne consegue che, qualora la società la quale abbia esercitato scorretta ingerenza nella gestione e sia perciò residualmente responsabile verso i creditori della società gestita, divenga per tale motivo insolvente, essa potrà essere autonomamente assoggettata a fallimento (ricorrendone i requisiti dimensionali) ai sensi dell'art. 5-6 l.f., ma non come automatico effetto estensivo ex art. 147 L.F.»; in dottrina, Caridi, 1895 e nt. 51, per il quale, a prescindere dalla natura contrattuale o extracontrattuale della responsabilità ex art. 2497 c.c., occorre tener conto che, «per espressa ed inequivoca previsione dell'art. 2497 c.c., chi abbia abusivamente esercitato attività di eterodirezione è responsabile nei confronti dei creditori della società eterodiretta non già dei debiti che gravano su quest'ultima, ma semplicemente della lesione dell'integrità del patrimonio della società eterodiretta che sia conseguita all'abusiva attività di eterodirezione. Sia essa contrattuale o extracontrattuale, dunque, quella contemplata dall'art. 2497 c.c. è in ogni caso una responsabilità alla quale consegue l'obbligo di risarcire un danno e non di estinguere un debito altrui. Né a qualificare come patrimoniale la responsabilità del dominus può valere la possibilità del suo fallimento, giacché quest'ultimo può essere pronunciato solo... per una insolvenza propria del dominus»; Fimmanò, 2006, 1194 e 1197; Penta, 1233 ss., 1246; Panzani, 2009, 1055 ss.; Bassi, 2822). L'art. 6 l.fall., del resto, laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l'altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l'esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all'esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell'istante e la conseguente insolvenza del debitore. Il procedimento per dichiarazione di fallimento non è, infatti, funzionale all'accertamento (o alla verifica) del credito della parte istante, ma all'accertamento dello stato d'insolvenza, sicché, riguardo al credito contestato, suppone — e consente — un'indagine solo incidenter tantum, per non trasformare l'oggetto del procedimento in guisa tale da farne un giudizio di cognizione sullo specifico credito posto a base dell'iniziativa di parte (Cass. n. 15346/2016). I presupposti di fatto dell'obbligazione risarcitoria prevista dall'art. 2497 c.c., infatti, sono: L'esercizio da parte di una società o di un ente, nell'interesse proprio o altrui, di attività di direzione e coordinamento di società; La violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della società eterodiretta; il pregiudizio (diretto) arrecato alla società eterodiretta, in termini di lesione all'integrità del suo patrimonio, e, di riflesso, ai suoi creditori, nella misura in cui il patrimonio della società debitrice è stato reso insufficiente alla loro integrale soddisfazione. La responsabilità della società o dell'ente che esercita attività di direzione e coordinamento prevista dall'art. 2497 c.c. è sussidiaria rispetto a quella che grava sulla società eterodiretta. Se, infatti, il creditore viene risarcito dalla società eterodiretta (ad es., perché fornita, su tempestiva e doverosa richiesta dei suoi amministratori, dalla stessa capogruppo delle risorse a tal fine necessarie), non può avanzare ulteriori pretese risarcitorie nei confronti della capogruppo. Ne consegue che il creditore della società eterodiretta, una volta verificatosi il danno, come sopra descritto, vale a dire l'incapienza del patrimonio della società debitrice, può rivolgere la sua pretesa risarcitoria nei confronti della società o dell'ente che esercita l'attività di direzione e coordinamento solo quando abbia infruttuosamente escusso o, quanto meno, richiesto (anche in via stragiudiziale) alla società debitrice eterodiretta l'adempimento dell'obbligazione assunta, e quest'ultima non abbia adempiuto, ovvero, e più radicalmente (e cioè senza ulteriori presupposti), quando la società eterodiretta sia diventata insolvente: in tal caso, però, come detto, a seguito della dichiarazione di fallimento, la relativa legittimazione spetta, in via esclusiva, al curatore (art. 2497, comma 4, c.c.). La responsabilità in esame è riconducibile alla violazione del dovere del neminem laedere (sotto il profilo del rispetto dell'integrità patrimoniale della società eterodiretta) ed ha, evidentemente, natura extracontrattuale (Cass. n. 15346/2016, per cui «chi esercita l'attività di direzione e coordinamento in modo illecito, approfittando e abusando dei poteri di direzione, ed eludendo per fini propri i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art. 2497, comma 1)risponde non di obbligazioni derivanti da un'agire negoziale, in questo senso contratte..., ma di obbligazioni appunto risarcitorie. E trattandosi di responsabilità di tipo esclusivamente risarcitotio (extracontrattuale) per i danni arrecati dall'attività di direzione abusiva (ai soci e) ai creditori delle società dirette e coordinate — suscettibile di esser fatta valere, in caso di sopravvenuto fallimento delle società figlie, dai rispettivi curatori»; Trib. Napoli 26 maggio 2008, Fall. 2008, 1435 ss; Trib. Pescara 2 febbraio 2009, Foro. it. 2009, I, 2830 ss): sia verso la società eterodiretta (la cui legittimazione non è, come detto, prevista dalla norma), sia verso i suoi creditori (art. 2497, comma 1, c.c.). A sostegno di tale ricostruzione milita, essenzialmente, il rilievo che, se la responsabilità contrattuale presuppone l'inadempimento di un rapporto obbligatorio preesistente tra debitore e creditore, risulta, invece, evidente come, nella fattispecie in esame, un rapporto di tale genere è ravvisabile solo tra la società (eterodiretta) debitrice ed il suo creditore ma non anche tra la società che esercita l'attività di dominio e la stessa società che vi è assoggettata (a meno che non sia specificamente dimostrato un accordo in tal senso: art. 2497-septies c.c.) e, tanto meno, tra la società dominante ed i terzi creditori di quella eterodiretta. Ciò che rileva, del resto, ai fini della natura contrattuale dell'inadempimento, è che il dovere violato, oltre a preesistere all'atto dell'inadempimento, abbia per oggetto il compimento di una prestazione direttamente satisfattiva dell'interesse del creditore che ne costituisce l'oggetto. Nel caso dell'obbligazione sociale, l'interesse del creditore è realizzato (e cioè soddisfatto in forma specifica) soltanto dalla prestazione dedotta in contratto ed eseguita dalla società debitrice: non, invece, dal comportamento (meramente strumentale) assunto dalla società che domina su quest'ultima in ordine alla conservazione dell'integrità del relativo patrimonio, tant'è che, se la prestazione viene eseguita, il creditore non può far valere la responsabilità della società dominante, pur se abbia leso l'integrità del patrimonio della società. Né di obbligazione contrattuale (avente ad oggetto la protezione dell'integrità del patrimonio della società assoggettata da parte della società dominante) può discorrersi — a meno che, appunto, non venga dedotto e dimostrato uno specifico accordo sul punto — in ordine al rapporto tra la società dominante e la società eterodiretta, per cui, in caso di violazione (e cioè di abuso), la responsabilità sarebbe, appunto, di natura contrattuale: il rapporto tra la controllante e la controllata è, infatti, di regola, una relazione di mero fatto, dettato dalla posizione di soggezione degli amministratori della controllata rispetto alla capogruppo, che ne decide la nomina, la conferma e la revoca, ed, in ogni caso, non ha certo ad oggetto, neppure quale mera prestazione accessoria, il dovere della società dominante di proteggere l'integrità del patrimonio della società assoggettata, quanto, al più, il dovere dell'una e dell'altra di perseguire l'interesse di gruppo, salvo i limiti costituiti dalla necessità di non danneggiare ingiustamente l'altrui integrità patrimoniale (e, segnatamente, quella della società eterodiretta). La responsabilità in esame, quindi, sia verso la società eterodiretta, sia verso i suoi creditori, ha natura extracontrattuale, trovando la sua origine esclusivamente nel dovere giuridico del neminem laedere previsto dall'art. 2043 c.c., che grava su tutti ed, a maggior ragione, nei confronti della società che esercita il dominio che, proprio in quanto tale, può, abusandone, illegittimamente danneggiare il patrimonio delle società dominate e, se del caso, renderlo insufficiente al pagamento dei relativi creditori. Ciò comporta, evidentemente, che, secondo le regole generali (art. 2697 c.c.), il (presunto) creditore (la società eterodiretta, per il pregiudizio arrecato al suo patrimonio, ed i suoi creditori, per il pregiudizio inferto al patrimonio della società debitrice nella misura in cui lo stesso sia stato reso insufficiente alla loro completa soddisfazione, ed, a seguito del fallimento della società danneggiata, il relativo curatore, che cumula, a norma, rispettivamente, degli artt. 31 e 42, comma 1, l.fall. e 2497, ult. comma, c.c., la legittimazione all'esercizio di entrambe le azioni) ha l'onere di dedurre e dimostrare in giudizio, oltre che l'esercizio dell'attività di direzione e coordinamento sulla società, anche il relativo abuso, e cioè gli atti compiuti con dolo ovvero con colpa consistita nella violazione delle norme di corretta gestione imprenditoriale e societaria, e nell'interesse di soggetti estranei alla società eterodiretta, ed il danno conseguentemente arrecato al relativo patrimonio e, di riflesso, ai suoi creditori, per un ammontare pari all'importo complessivo dei suoi debiti insoddisfatti. L'azione è proponibile, anche in sede fallimentare, nei confronti tanto di una holding personale, che si configura solo a condizione che «svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo ed il coordinamento delle società... non limitandosi, così, al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio. A tal fine è necessario che la suddetta attività, di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura) ovvero anche di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, fonte, quindi, di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo e le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima» (Cass. S.U. n. 25275/2006; senso contrario, tuttavia, Vassalli, 1936, nt. 61), quanto nei confronti di una società (holding societaria), la quale, come detto, può assumere, oltre che la forma di una società (di persone o di capitali) regolare, anche quella di una società di fatto, anche tra gli stessi soci della società di capitali eterodiretta fallita. È, infatti, noto che «... tra i soci di una società di capitali con personalità giuridica, è configurabile una società personale, collaterale, con attività autonoma la quale — pur quando esistono coincidenze di aree operative o sfruttamento di situazioni favorevoli di mercato realizzate dalla società, persona giuridica, o pur quando a quest'ultima la detta impresa presti o da essa riceva il supporto di indispensabili elementi — non cessa di essere un centro di imputazioni di atti e di attività distinto dalla società di capitali, con distinti elementi di rischio e distinte eventualità di dissesto, con la conseguenza che questo, ove si verifichi, può determinare il fallimento della società collaterale, in quanto dipenda dalla propria autonoma attività e dal passivo che ad essa si ricollega... » (Cass. n. 8154/1990, in motiv.; App. Bologna 23 maggio 2007, Soc. 2008, 316, che parla di «autonomia della holding, soggetto giuridico distinto dalla società fiancheggiata»), a condizione, però, che concorrano i seguenti presupposti: 1) l'esistenza di una propria, autonoma e stabile organizzazione, fatta di mezzi e persone, che sia funzionale all'esercizio dell'attività di holding, vale a dire, in via diretta, la direzione e coordinamento di società operative; 2) l'oggettiva attitudine di tale attività a produrre un risultato economico distinto rispetto a quello delle singole società ed imprese eterodiretta, non altrimenti realizzabile senza l'attività di direzione svolta dalla società capogruppo, e destinato alla distribuzione solo tra i soci di quest'ultima; 3) lo stato di insolvenza conseguente all'impossibilità di adempiere alle proprie obbligazioni, assunte per la spendita del nome della società, nel compimento dei relativi atti (negoziali o meno), da parte dei soci della holding societaria di fatto (cfr. Cass. n 1439/1990; Cass. n. 12113/2002; Cass. n. 3724/2003; Cass. n. 23344/2010; Trib. Messina 15 febbraio 1996, Fall. 1996, 792; App. Catania 18 gennaio 1997, Fall. 1997, 725; Trib. Padova 2 novembre 2001, Fall. 2002, 1218; Trib. Genova 26 settembre 2005, Fall. 2006, 424; Trib. Napoli 8 gennaio 2007, Fall. 2007, 407; Trib. Milano 11 aprile 2011, Fall. 2011, 1229 ss., sia pur con riguardo all'holding personale; Trib. Torre Annunziata 18 marzo 2013; App. Milano 22 marzo 2012, che, però, in ordine al requisito dell'organizzazione, afferma come «... nella specie per svolgere l'attività di impresa il reclamante si è avvalso delle risorse e beni materiali e personali delle «sue» società, utilizzate di volta in volta quali strumenti operativi dell'attività di impresa, secondo le necessità della attività di intermediazione esercitata, attività per il cui svolgimento non è comunque necessario disporre di un particolare apparato di beni e mezzi. Nella specie quest'ultimo requisito senz'altro ricorre e si identifica appunto nelle società succitate e, in particolare, nei beni, risorse e uffici di queste ultime di cui il reclamante si è liberamente avvalso, pur non rivestendo... alcun ruolo formale, per svolgere professionalmente l'attività di agente...»; in senso contrario, Trib. Padova 2 novembre 2001, Soc. 2002, 583, per cui il primo requisito non dovrebbe essere ritenuto necessario, poiché «almeno nella holding pura, l'imprenditore holder si avvale senza intermediazioni dei mezzi costituiti dalle imprese da lui dirette e coordinate, trattandosi di impresa mediata», e tanto meno il secondo, in quanto «può coincidere, nei fatti, con lo scopo di lucro delle singole società, indirettamente ridondante negli effetti (positivi e negativi) nel patrimonio dell'imprenditore holder», mentre, infine, quanto alla spendita del nome, si tratterebbe addirittura di un requisito impossibile da riscontrare in concreto, poiché «l'ultima cosa che vuole l'imprenditore holder puro... è di farsi notare all'esterno del gruppo da lui dominato»; così anche Trib. Ancona 10 agosto 2009 e App. Ancona 5 marzo 2010, Giur.comm. 2011, II, 633 ss.) Il punto più delicato, come è evidente, riguarda, nel caso della holding-società di fatto, la spendita del nome. Ed infatti, in ipotesi di holding di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie (se del caso quale suo unico socio) e che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l'indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime (non limitandosi così al mero esercizio dei poteri inerenti alla qualità di socio), la sua configurabilità quale autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula, come detto, che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo (cosiddetta holding pura), ovvero pure di natura ausiliaria o finanziaria (cosiddetta holding operativa), si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta del loro autore, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all'attività medesima. Nel caso della società di fatto che esercita attività di holding, invece, il problema della spendita del nome si pone non ai fini l'esistenza della società medesima, la quale esiste, come impresa commerciale, per il solo fatto di esser stata costituita tra i soci per l'effettivo esercizio dell'attività di direzione e controllo considerata dagli artt. 2497 ss. c.c., ma solo perché la stessa, in tanto può essere insolvente, in quanto sia responsabile per le obbligazioni assunte. Ne consegue che, in tutti i casi in cui la società di fatto risponde ai canoni della cd. società occulta, non ha senso porsi il problema della spendita del nome ai fini del riconoscimento della sua esistenza e operatività: è propria di quella fattispecie la concordata volontà dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto della società ma non in suo nome, sicché, fermo l'attuale esplicito riconoscimento di fallibilità di siffatto tipo sociale, è assolutamente pacifico che, in casi del genere, gli atti di impresa, se esistenti in termini oggettivi, sono sempre posti in essere «per conto» di un soggetto diverso da quello che appare (Cass. n. 15346/2016). E ciò vale, in particolare, nel caso in cui la società di fatto abbia esercitato, abusandone, dell'attività di direzione e coordinamento sulla società fallita e sia, quindi, tenuta a risarcire i relativi danni, a norma dell'art. 2497 c.c. Nell'ottica di tale norma, l'attività di direzione e coordinamento consiste, invero, nell'esercizio effettivo di un'ingerenza qualificata nella gestione di una o più società, espressione di una posizione di potere tale da incidere stabilmente nelle scelte gestorie e operative dei singoli organi amministrativi e tuttavia concretizzata in comportamenti estranei alla sfera della corretta gestione societaria e imprenditoriale, animati dal perseguimento di interessi propri o di terzi. In una simile situazione, un problema di spendita del nome non ha ragione di porsi, non solo perché la società eterodirigente è occulta, ma anche perché non venono in rilievo obbligazioni volontariamente assunte, ma obbligazioni risarcitorie gravanti sulla holding secondo il disposto dell'art. 2497 c.c.. Chi esercita l'attività di direzione e coordinamento in modo illecito, approfittando e abusando dei poteri di direzione, ed eludendo per fini propri i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art. 2497, comma 1, c.c.), risponde non di obbligazioni derivanti da un'attività negoziale, in questo senso contratte direttamente (e per le quali potrebbe in astratto valere un problema di spendita del nome), ma di obbligazioni appunto risarcitorie. E trattandosi di responsabilità di tipo esclusivamente risarcitoria (extracontrattuale) per i danni arrecati dall'attività di direzione abusiva (ai soci e) ai creditori delle società dirette e coordinate — suscettibile di esser fatta valere, in caso di sopravvenuto fallimento delle società figlie, dai rispettivi curatori — non si pone, e non può porsi, un problema di esteriorizzazione, non essendosi dinanzi — come esattamente dalla corte d'appello sottolineato nel breve passaggio della pur lunga motivazione a obbligazioni «volontarie». L'obbligazione risarcitoria ex art. 2497 c.c. trova fonte nell'illecito costituito dall'agire nell'interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione di doveri e principi di corretta gestione delle società eterodirette, ove da ciò sia derivato un danno patrimoniale alle società figlie e di riflesso (per quanto interessa in questa sede) al ceto creditorio di queste società. Per cui, ferma la già sottolineata peculiarità della società occulta, la società di fatto holding risponde delle obbligazioni volontariamente assunte in nome proprio ma risponde anche delle obbligazioni risarcitorie derivanti dall'aver esercitato l'attività direttiva in modo estraneo alla fisiologica corretta gestione societaria e imprenditoriale. In questo secondo caso, l'obbligazione risarcitoria sorge nei confronti dei creditori delle società eterodirette per il sol fatto che l'agire illecito abbia causato il danno all'integrità patrimoniale della società diretta e coordinata, tale da renderne il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese dei creditori (Cass. n. 15346/2016; Penta, 1246; Fimmanò, 2016, 1197). Di qui la conclusione che la società di fatto holding esiste come impresa commerciale per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci per l'effettivo esercizio dell'attività di direzione e coordinamento di altre società ed è, pertanto, autonomamente fallibile, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante la spendita del nome, ove sia insolvente per i debiti assunti, ivi comprese le obbligazioni risarcitorie derivanti dall'abuso sanzionato dall'art. 2497 c.c., nonché al danno così arrecato all'integrità patrimoniale delle società eterodirette e, di riflesso, ai loro creditori (Cass. n. 15346/2016; in precedenza, per una più realistica ricostruzione del requisito della spendita del nome, Cass. n. 23344/2010, la quale ha ritenuto che è «configurabile una holding di tipo personale (che nella specie ha assunto la veste di società di fatto), costituente impresa commerciale suscettibile di fallimento in quanto fonte di responsabilità diretta dell'imprenditore, quando questa agisca in nome proprio per il perseguimento di un risultato economico ottenuto attraverso l'attività svolta, professionalmente, con l'organizzazione e il coordinamento dei fattori produttivi relativi al proprio gruppo d'imprese», chiarendo, peraltro, che, a tal fine, basta anche soltanto un'attività negoziale posta in essere in nome proprio da uno qualsiasi dei soci di fatto, ma chiaramente percepibile dai terzi come riferita alla società; in dottrina, in senso conf., Panzani, 2009, 1055 ss, per il quale «se... le ragioni del ricorso a questa struttura organizzata intorno alla figura di una o più persone fisiche di riferimento che organizzano l'attività di varie società, sono di non apparire direttamente, di non assumere obblighi in prima persona, è evidente che non si rinverranno mai atti negoziali posti in essere direttamente dalla holding», rilevando, quindi, che «il requisito della spendita del nome è soddisfatto, perché i terzi in tanto si sono risolti a contrarre con la società operativa in quanto sapevano che alle spalle della stessa stava la holding e non hanno trattato con gli amministratori della società operativa, ma direttamente con le persone fisiche in cui si sostanzia la holding»). La dichiarazione di fallimento della holding, personale o societaria, costituisce, a differenza del procedimento di estensione ai soci (occulti o palesi) prevista dall'art. 147, commi 1, 4 e 5, l.fall., un procedimento del tutto autonomo da quello che ha condotto al fallimento della società eterodiretta. La relativa competenza, quindi, non spetta al tribunale che ha dichiarato quest'ultimo fallimento, ma, a norma dell'art. 9 l.fall., al tribunale del luogo in cui in cui ha sede la capogruppo. I profili processuali e proceduraliL'art. 147, comma 2, l.fall., nella sua originaria formulazione, prevedeva che «se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta la esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio». La norma trovava applicazione, oltre che nel caso tipico di fallimento di società palese con soci occulti, anche nell'ipotesi di fallimento di società occulta con soci occulti, consentendone, quindi, tanto nell'uno, quanto nell'altro caso, l'estensione di fallimento, oltre che su domanda del curatore, anche d'ufficio. Nel procedimento di estensione del fallimento previsto dall'art. 147 l.fall., infatti, il tribunale esercitava poteri officiosi rispetto ai quali l'istanza di estensione non è niente più che una sollecitazione ad attuare la regola della responsabilità illimitata dei soci nei fallimenti delle società a cui si riferisce il predetto art. 147, onde il tribunale poteva procedere anche in mancanza di una sollecitazione qualificata; né pertinente, si rivelava, al riguardo, la disposizione di cui all'art. 8 l.fall., la cui disciplina dell'iniziativa d'ufficio – estesa, comunque, a tutte le ipotesi in cui il tribunale competente, nell'esercizio della sua ordinaria attività, acquisisca la conoscenza dell'insolvenza di un imprenditore ovvero gli indicati presupposti gli risultino dal rapporto di un altro giudice per situazioni emerse in un altro procedimento giurisdizionale – non escludeva la stessa quando i poteri officiosi del tribunale erano, come nell'ipotesi in esame, espressamente previsti (Cass. n. 11079/2004 che, nell'affermare il principio esposto, ha respinto il motivo di ricorso con cui si lamentava che il tribunale avesse dichiarato il fallimento del socio occulto su sollecitazione fatta per conto di un creditore, nel corso dell'adunanza di verificazione dei crediti, da un soggetto privo di valida procura). L'art. 147, commi 4 e 5, l.fall., nel testo risultante dalla riforma, dispone, invece, che «se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale... dichiara il fallimento dei medesimi» ed «allo stesso modo si procede qualora dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l'impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile»: ma solo «su istanza del curatore, di un creditore, di un socio fallito» e, quindi, non più, come nel passato, di ufficio. La norma, quindi, ha espressamente riconosciuto la legittimazione a proporre la domanda di estensione di fallimento, oltre che al curatore, anche del creditore e del socio già fallito: si tratta, tuttavia, solo dell'esplicito riconoscimento di una legittimazione che, già nella disciplina anteriore, era stata riconosciuta dalla Corte costituzionale, che, con le sentenze n. 127/1975 e n. 142/1970 cit., aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 147 l.fall. nella parte in cui non prevedeva, rispettivamente, la legittimazione a proporre la domanda di estensione al socio già dichiarato fallito ed ai creditori interessati, vale a dire tanto i creditori della società, quanto i creditori personali del socio palese od occulto cui il fallimento andrebbe esteso (Caridi, 907). Si discute, peraltro, se la legittimazione a presentare la domanda di estensione di fallimento a norma dell'art. 147, commi 4 e 5, appartiene solo ai soggetti ivi indicati, vale a dire al curatore del fallimento sociale, ad uno o più creditori della società ed al socio o ai soci già dichiarati falliti, ovvero se, al contrario, tale norma deve essere interpretata alla luce dell'art. 6 l.fall. e riconoscere, per tale via, la predetta legittimazione anche alla società fallita e/o ai suoi soci illimitatamente responsabili non ancora dichiarati falliti (per la soluzione negativa, Orlando, 2487 ss.) nonché ai creditori particolari di questi ultimi, che, come è noto, non sono legittimati a chiedere il fallimento della società (per la soluzione negativa, Fabiani, 2006, 2185, nt. 70; per la soluzione positiva, Celentano, 109, 110; Nigro, 2006, 2185 e nt. 70, dubita, invece, sia della legittimazione del creditore particolare del socio illimitatamente responsabile a chiedere l'estensione del fallimento sociale al suo debitore, sia della legittimazione del socio illimitatamente responsabile a chiedere l'estensione a sé del fallimento della società. Prima della riforma, la legittimazione del creditore particolare del socio è stata affermata da Trib. Torino 6 gennaio 1979, Giur.comm., 1980, II, p. 476 ss., e negata, invece, da Bonsignori, 159-160) ed al pubblico ministero, se del caso su segnalazione di un giudice civile. A quest'ultimo proposito, prima della riforma, la legittimazione del pubblico ministero a chiedere l'estensione di fallimento ai soci illimitatamente responsabili della società fallita era stata negata da Cass., n. 21721/2005 (pur evidenziando che «a seguito delle sentenze della Corte costituzionale n. 142 del 1970 e n. 127 del 1975, che hanno dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 147 del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, la categoria dei soggetti abilitati a proporre l'estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili si è sostanzialmente ricomposta nei termini di cui all'art. 6 della legge fallimentare, ad eccezione del P.M., il cui difetto di titolarità dell'azione non comporta tuttavia l'invalidazione della pronuncia, la quale rientra pur sempre nei poteri ufficiosi del tribunale, riconosciuti dall'art. 147, secondo comma, che possono essere esercitati anche sulla base di elementi utili acquisiti «aliunde», dovendo distinguersi dalla legittimazione all'esercizio dell'azione la mera segnalazione di dati informativi di provenienza esterna, la quale impegna l'organo decidente a pronunziare il fallimento solo in quanto ne ravvisi gli estremi») ed, al contrario, affermata da Trib. Agrigento 16 ottobre 2003, Fall., 2004, 770 ss. Dopo la riforma, la legittimazione del pubblico ministero, invece, a fronte della natura speciale della norma dell'art. 147 rispetto all'art. 6, è stata negata da Blatti, 1125-1126 Così anche Amatucci, 115. Nello stesso senso, Trib. Reggio Calabria 5 luglio 2010, Fall. 2010, 1215, per il quale, però, il pubblico ministero può trasmettere al curatore informazioni o atti dai quali si desume l'esistenza di altri soggetti fallibili, consentendo così a tale organo di valutare l'opportunità di presentare istanza di fallimento. La segnalazione al pubblico ministero da parte di un giudice civile è stata, tuttavia, esclusa da Trib. Tivoli, 6 aprile 2009, G.mer., 2009, 1568 ss., per il quale «... l'estensione di fallimento presuppone l'esistenza di una procedura fallimentare già pendente e di un organo, il curatore del fallimento, che ne ha la gestione e l'amministrazione, che è al corrente delle vicende della società fallita e che ha il dovere di valutare le scelte giudiziarie (ivi compresa la richiesta di estensione di fallimento) necessarie all'applicazione della legge o più idonee allo scopo della maggiore soddisfazione del ceto creditizio; pertanto la previsione di un'eventuale segnalazione da parte del giudice civile al pubblico ministero sarebbe inutile». Non sembra, in realtà, possibile negare la legittimazione del pubblico ministero a chiedere l'estensione del fallimento. Il fallimento della società, che determina il fallimento dei soci illimitatamente responsabili ai sensi dell'art. 147, comma 1, l.fall., può essere, infatti, dichiarato anche su richiesta del pubblico ministero, a norma degli artt. 6 e 7 l.fall.: e non si vede in che modo tale ipotesi possa essere distinta da quella in cui il socio illimitatamente responsabile, palese (art. 147, comma 4°, l.fall.) ovvero occulto (art. 147, comma 5, l.fall.) – che, se dicharato fallito, risponde dei reati fallimentari al pari dell'imprenditore (artt. 222, 216 e 217 l.fall.) — sia risultato solo dopo la dichiarazione di fallimento della società. Del resto, la Corte di cassazione ha, come visto, espressamente ammesso che il fallimento del socio occulto non richieda necessariamente la domanda ed il procedimento di estensione, previsto dall'art. 147 l.fall., tutte le volte in cui la sua esistenza risulti già durante il procedimento prefallimentare ai danni della società previsto dall'art. 15 l.fall., la cui attivazione, come è noto, spetta senz'altro anche al pubblico ministero ai sensi degli artt. 6 e 7 l.fall. Si è discusso, infine, se il pubblico ministero possa chiedere l'estensione di fallimento su segnalazione del giudice delegato o del tribunale fallimentare a norma dell'art. 7, n. 2, l.fall., evidentemente nel caso in cui curatore non intenda promuovere la relativa iniziativa, quanto meno nel caso in cui l'estensione riguarda non il socio illimitatamente responsabile di società già fallita, ma la società di fatto di cui il fallito, apparentemente imprenditore individuale, è socio insieme ad altri (cfr. in tema Orlando, 2487 ss.). La domanda di estensione del curatore non richiede l'autorizzazione scritta del giudice delegato a norma dell'art. 25, n. 6, l.fall.. Va, in proposito, in primo luogo osservato come, a seguito del notevole ridimensionamento del ruolo del giudice delegato operato dalla riforma, la decisione di agire o di resistere in giudizio non può più configurarsi come frutto di una scelta sostanzialmente a questi spettante, ma deve, al contrario, ritenersi una scelta del curatore, rispetto alla quale l'autorizzazione del giudice testimonia l'avvenuto controllo della legittimità (e non anche del merito) dell'iniziativa, evidentemente non necessario allorché (come nell'ipotesi disciplinata dall'art. 147, comma 4 cit.) detta iniziativa sia doverosa e la legittimazione del curatore sia già espressamente prevista dalla legge. Tuttavia, ciò che maggiormente convince della superfluità dell'autorizzazione è che essa, ai sensi dell'art. 25, n. 6, l.fall., è richiesta allorché il curatore debba stare in giudizio «come attore o convenuto». E, ancorché l'iniziativa per la dichiarazione di fallimento non possa più essere assunta dal giudice d'ufficio, il relativo procedimento non appare riducibile ad un processo fra parti contrapposte, in cui l'istante assume la veste di attore ed il fallendo quella di convenuto, vuoi perché il legittimato all'azione non è titolare di un diritto soggettivo al fallimento del debitore, vuoi perché l'accoglimento della domanda è idoneo a dar luogo ad un accertamento costitutivo valevole erga omnes (Cass. n. 12947/2014; Abete, 2008, 98; in senso contrario, App. Milano 3 luglio 2013, ilcaso.it.; così anche Fabiani, 2010, 1170 ss, per il quale, infatti, pare più coerente con l'intero assetto normativo che il curatore prima di intraprendere l'iniziativa richieda al giudice delegato l'autorizzazione a promuovere la domanda di estensione; così anche Orlando, 2487 ss., per il quale, in caso di domanda di estensione del fallimento proposta dal curatore a norma dell'art. 147 l.fall., si applicano le norme generali previste dagli artt. 25, n. 6, e 31 l.fall. nonché l'art. 182 c.p.c.). Il giudice delegato che abbia autorizzato il curatore, ex art. 25, comma 1, n. 6, l.fall., a richiedere l'estensione del fallimento, non può, di conseguenza, partecipare al collegio chiamato a pronunciarsi sul corrispondente ricorso, trovando anche in tal caso piena e diretta applicazione il secondo comma del suddetto art. 25, la cui chiara portata precettiva impedisce a quel giudice di trattare i giudizi che abbia autorizzato (Cass. n. 10732/2013; in dottrina, così Fabiani, 2010, 1170 ss, per il quale, quando il giudice delegato autorizza una qualsiasi iniziativa processuale del curatore, non può, poi, partecipare alla decisione (art. 25 l.fall.) e se ciò accade la sentenzaè nulla per vizio di costituzione del giudice (art. 158 c.p.c.); in senso diff. App. Firenze 18 maggio 2010). La competenza a giudicare sulla domanda di estensione di fallimento appartiene, in via esclusiva, al tribunale che ha dichiarato il fallimento della società, anche se si tratta del fallimento degli altri soci di società già dichiarata fallita (Cass. n. 1230/1999). Ne consegue è privo di rilievo il luogo di residenza del socio, in quanto egli viene dichiarato fallito non quale imprenditore, ma in dipendenza della sua qualità di socio (Cass. n. 15677/2002). L'art. 147, comma 3, l.fall., dispone che «il tribunale, prima di dichiarare il fallimento dei soci illimitatamente responsabili, deve disporne la convocazione a norma dell'articolo 15». L'obbligo di convocazione in camera di consiglio del socio (illimitatamente responsabile) – già sancito dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 110/1972, aveva dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 147 l.fall., nel testo originario, nella parte in cui, appunto, non prevedeva che il tribunale dovesse ordinare la comparizione in camera di consiglio dei soci illimitatamente responsabili nei cui confronti produce effetto la sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata, perché detti soci possano «contrastare con l'eventuale ausilio di difensori, in confronto della società e dei creditori istanti (ed a ciascuno dei soci in confronto degli altri), la veridicità dell'asserito stato di insolvenza e l'assoggettabilità all'esecuzione fallimentare» — trova, peraltro, giustificazione non in un generico interesse del socio stesso riferito alla dichiarazione di fallimento della società, ma nel fatto che detta dichiarazione produce anche il suo fallimento. La sentenza che dichiara il fallimento del socio, in difetto di rituale convocazione, è, quindi, nulla (Cass. n. 3163/1999). La nullità della sentenza si converte in motivo di gravame della stessa (Abete, 2016, 1380) Tale nullità, tuttavia, riguarda solo il fallimento del socio e non anche quello della società (Cass. n. 1751/2003; Vassalli, 1939). La sentenza che dichiara il fallimento della società e dei soci contiene, infatti, una pluralità di dichiarazioni di fallimento, tra loro collegate da un rapporto di dipendenza unidirezionale, trovando la dichiarazione di fallimento del socio il suo presupposto nella dichiarazione di fallimento della società (la cui nullità travolge anche la prima, mentre non è vero il contrario), sicché la mancata convocazione del socio determina unicamente la nullità del suo fallimento, ove specificamente impugnato, ma non si riflette sulla validità della pronuncia emessa nei confronti della società (Cass. n. 1105/2016). La mera convocazione del socio dinanzi al tribunale in camera di consiglio, tuttavia, non è sufficiente a garantire il rispetto del diritto di difesa postulato dall'art. 15 l.fall., qualora l'audizione non verta sui presupposti specifici della dichiarazione di fallimento poi pronunciata e non si ponga, quindi, in rapporto con la situazione dalla quale scaturisce la pronuncia stessa (Cass. n. 9156/1995; Cass. n. 405/1999; Cass. n. 23344/2010). L'attuazione del diritto di difesa posto dall'art. 15 l.fall. richiede, invece, che l'instaurazione del contraddittorio coinvolga i presupposti essenziali della dichiarazione, essendo sufficiente che ai predetti soci sia contestata l'esistenza della società, la loro partecipazione ad essa e lo stato di insolvenza della società. Non è, invece, indispensabile che al socio sia anche contestato il modo con cui la società ha in concreto operato e neppure l'eventuale esistenza di altri soci (Cass. n. 23344/2010). La convocazione del socio illimitatamente responsabile in qualità di rappresentante della società è, tuttavia, idonea a consentirgli di esercitare adeguatamente il diritto di difesa con riguardo alla dichiarazione di fallimento sia della società, sia dello stesso socio (Cass. n. 20170/2013) L'obbligo della convocazione riguarda, naturalmente, tutti i soci illimitatamente responsabili della società al momento della sentenza, compresi, dunque, i soci cessati o che abbiano perduto la responsabilità illimitata da meno di un anno (salvo il caso del decesso: cfr. Cass. n. 2674/2000; Cass. n. 7181/2013; in senso contrario, Abete, 2008, 1380), o dalla domanda di estensione di fallimento, compresi, pertanto, i soci occulti o apparenti. Nel caso di dichiarazione di fallimento di una società entro l'anno dall'estinzione per fusione, il diritto ad essere sentito in camera di consiglio, ai sensi dell'art. 15 l.fall., spetta al legale rappresentante della società estinta, per le conseguenze che tale pronuncia può avere nei suoi confronti, nonché al socio illimitatamente responsabile, in quanto assoggettabile a fallimento personale, mentre non è obbligatoria l'audizione della società nata dalla fusione, pur rivestendo quest'ultima la qualità di successore a titolo universale della società sottoposta alla procedura concorsuale (Cass. n. 21016/2006). L'espresso richiamo dell'art. 15 l.fall. induce a ritenere che la convocazione del socio debba essere effettuata nei modi che lo stesso prescrive, vale a dire mediante la notificazione del ricorso di fallimento. Non è, tuttavia, chiaro se trovi applicazione, nei confronti del socio, la norma dell'art. 15, comma 3°, l.fall., nella parte in cui prevede che il ricorso ed il decreto di convocazione devono essere notificati, a cura della cancelleria, all'inidirizzo di posta elettronica certificata del debitore risultante dal registro delle imprese o dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata delle imprese e dei professionisti. In ogni caso, per la giurisprudenza, In caso di omessa notifica al socio illimitatamente responsabile del ricorso per dichiarazione di fallimento e del pedissequo decreto di convocazione delle parti, la spontanea comparizione all'udienza di detto debitore - sebbene effettuata al solo scopo di far valere detta omissione - produce un effetto sanante, in quanto nei procedimenti camerali occorre assicurare il contraddittorio, senza che siano però predeterminate le forme con le quali esso va instaurato (Cass. I, ord. n. 3117/2023). L'obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, infatti, grava, con decorrenza dall'1 luglio 2012, solo sulle società iscritte nel registro delle imprese (ai sensi della l. n. 2/2009) e, con decorrenza dall'1 giugno 2013, sugli imprenditori individuali (ai sensi del d.l. n. 179/2012, conv. con modif. dalla l. n. 221/2012). I soci, invece, falliscono anche se non sono, a loro volta, società o imprenditori individuali. La norma, del resto, nella parte in cui prevede la notifica telematica del ricorso di fallimento, fa espresso riferimento al «debitore»: ed è noto, invece, che il socio della società in nome collettivo, al pari del socio accomandatario della società in accomandita semplice o per azioni, risponde personalmente ed illimitatamente delle obbligazioni sociali ma solo in via sussidiaria, e cioè previa escussione del patrimonio sociale (artt. 2304, 2318 e 2461 c.c.). La soluzione preferibile è, pertanto, quella di ritenere che la norma dell'art. 15, comma 3, l.fall., non trovi applicazione nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, a meno che costoro non siano, ad altro titolo, tenuti a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata e sempre che questo risulti dal registro delle imprese o dall'indice nazionale degli indirizzi di PEC: in difetto, trovano applicazione le norme generali in tema di notificazione.). Il rinvio all'art. 15 l.fall. induce ad affermare che nei confronti della società, anche se occulta, e dei relativi soci illimitatamente responsabili, sia possibile, nelle more del procedimento, che la parte istante richieda l'adozione delle misure cautelari previste dal comma 8. Non è chiaro se, a seguito delle modifiche alla legge fallimentare introdotte con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti di una società di persone o di un imprenditore apparentemente individuale sono, o meno, litisconsorti necessari nel procedimento di fallimento in estensione previsto dagli artt. 15 e 147 l.fall., promosso ad istanza del curatore. Secondo un primo indirizzo, i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti di una società di persone o di un imprenditore apparentemente individuale non sono litisconsorti necessari nel procedimento di fallimento in estensione promosso ad istanza del curatore, neppure ai fini della condanna alle spese processuali, che il presunto socio potrebbe reclamare nei confronti dello stesso curatore, essendo sufficiente che il litisconsorzio con i creditori istanti per il fallimento della società sia assicurato nella fase del reclamo proposto nel fallimento per estensione (Cass. n. 10795/2014; Cass. n. 24112/2015; Cass. n. 21430/2016). Secondo un altro indirizzo, invece, i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti dell'imprenditore apparentemente individuale sono litisconsorti necessari nel procedimento di estensione previsto dagli artt. 15 e 147, comma 5, l.fall., avendo l'interesse, non delegabile al curatore né ad altro legittimato che abbia assunto l'iniziativa, ad evitare che, sui beni del socio già dichiarato fallito, possano concorrere, ex art. 148 l.fall., i creditori della società occulta (Cass. n. 3621/2016; Cass. n. 22256/2012). La sentenza di estensione del fallimento al socio occulto illimitatamente responsabile di una società insolvente, pronunciata ai sensi dell'art. 147 l.fall., ha efficacia ex nunc (Cass. n. 26944/2016). Solo dalla data della sua pronuncia, quindi, si producono gli effetti patrimoniali e personali del fallimento (Vassalli, 1940). Il tema della decorrenza degli effetti della sentenza di estensione di fallimento si è posto, in particolare, ai fini del calcolo del periodo sospetto nella revocatoria fallimentare. Il contrasto insorto in sede di legittimità tra il consolidato orientamento, secondo il quale in caso di fallimento in estensione il periodo sospetto ai fini dell'esperimento dell'azione revocatoria andava computato dalla data della sentenza dichiarativa del nuovo fallimento, e la diversa interpretazione offerta dalla sentenza di Cass. n. 6971/1996, è stato composto dalle Sezioni Unite le quali, con sentenza n. 8257/2002, hanno affermato il principio per cui, in tema di procedure concorsuali, qualora, dopo la dichiarazione di fallimento di una società con soci a responsabilità illimitata, si accerti l'esistenza di altro socio illimitatamente responsabile (ovvero, dopo la dichiarazione di fallimento dell'imprenditore individuale, risulti l'esistenza di una società di fatto tra lo stesso imprenditore ed altro od altri soci), la successiva dichiarazione di fallimento «in estensione» del socio occulto ha effetto soltanto ex nunc, in virtù del carattere autonomo che (pur in seno al simultaneus processus) va ad essa riconosciuta (Cass. S.U. n. 8257/2002). Le Sezioni Unite hanno, tra l'altro, osservato che la lettera dell'art. 147 l.fall. richiede inequivocabilmente una distinta ed autonoma dichiarazione di fallimento del socio occulto ed, eventualmente, della società occulta con l'imprenditore individuale già dichiarato fallito. L'art. 147, nel disporre testualmente «se, dopo la dichiarazione di fallimento della società, risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi», non enuncia, infatti, alcun meccanismo di estensione automatica del fallimento del socio originario al socio occulto, ma inequivocabilmente richiede una distinta ed autonoma dichiarazione di fallimento. Tale conclusione non muta per effetto delle modifiche apportate dalla riforma della legge fallimentare. Il nuovo testo della norma, infatti, ha mantenuto la formulazione precedente per quanto concerne l'accertamento della sussistenza di ulteriori soci dopo che è stato dichiarato il fallimento della società (comma 4) ed ha aggiunto a tale ipotesi la distinta previsione del caso in cui «dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale risulti che l'impresa è riferibile ad una società di cui il fallito è socio illimitatamente responsabile» (comma 5), prevedendo, per tale nuova ipotesi, che si proceda «allo stesso modo». Ciò significa che le modifiche introdotte dalla riforma hanno inciso sul novero dei soggetti legittimati a richiedere il fallimento in estensione, espressamente indicati nel curatore, in un creditore, in un altro socio fallito, e sulla disciplina del termine entro il quale può essere chiesto il fallimento in estensione, ora espressamente individuato nell'anno, ma non hanno inciso sulle caratteristiche e gli effetti della sentenza in estensione (Cass. n. 13421/2008; conf., in dottrina, Vassalli, 1939, 1940). L'art. 147, comma 6, l.fall. prevede che contro la sentenza del tribunale è ammesso reclamo a norma dell'art. 18 l.fall.. Tanto la società, quanto il socio illimitatamente responsabile, cui il fallimento sia stato esteso ai sensi dell'art. 147 l.fall., possono, quindi, impugnare la sentenza. L'impugnazione proposta dal socio, però, non può riguardare la dichiarazione di fallimento della società, in relazione al quale la sentenza dichiarativa di fallimento fa stato «erga omnes», e quindi anche nei confronti dei soci, attuali e precedenti se fallibili, ma solo le condizioni che attengono alla sua personale fallibilità (Cass. n. 17098/2013), vale a dire la mancanza della sua qualità di socio o di socio illimitatamente responsabile (Vassalli, 1939; in senso contrario, Amatucci, 116, per il quale il socio reclamante, se la sentenza dichiarativa del fallimento della società non è ancora passata in giudicato, può sollevare eccezioni che riguardano il fallimento della società, come l'inesistenza dello stato d'insolvenza o il mancato raggiungimento delle soglie di fallibilità). La società, invece, può contestare la sua stessa esistenza nonché la mancanza dei presupposti previsti dagli artt. 1 e 5 l.fall. (Vassalli, 1939). La giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. n. 7251/2010; Cass. n. 9359/2001; Cass. n. 9407/1995; Cass. n. 10431/1992) ha da tempo riconosciuto la qualifica di litisconsorti necessari ai creditori istanti del primo fallimento (di società di persone o imprenditore individuale), che poi venga esteso ad altri soci illimitatamente responsabili, dei quali non era stato dichiarato il fallimento, ovvero ad una società ed ai suoi soci illimitatamente responsabili, quando risulti che l'impresa, della quale era stato dichiarato il fallimento, era collettiva e non individuale (Cass. n. 10693/2005). Tale principio, affermato in riferimento alla legge fallimentare nella versione anteriore alla riforma risulta, in effetti, applicabile anche nel vigore della nuova normativa. L'art. 147, comma 6, l.fall., stabilisce, infatti, che il reclamo contro la dichiarazione di fallimento viene proposto a norma dell'art. 18 l.fall. Si tratta di una previsione che opera in relazione a tutte le fattispecie previste dall'art. 147 l.fall., vale a dire sia all'ipotesi della unitaria dichiarazione di fallimento della società e dei soci illimitatamente responsabili (art. 147, comma 1, l.fall.), sia all'ipotesi della estensione del fallimento, con successiva sentenza, ai soci illimitatamente responsabili ed eventualmente anche alla società (art. 147, commi 4° e 5, l.fall.). A sua volta, l'art. 18, comma 6, l.fall. dispone che il reclamo si propone con ricorso da notificarsi a cura del reclamante, oltre che al curatore, anche «alle altre parti», ponendo così il fondamento normativo della partecipazione necessaria dei creditori istanti anche al giudizio di impugnazione della dichiarazione di fallimento. Nel procedimento per la dichiarazione di fallimento, infatti, il tribunale, con decreto apposto in calce al ricorso, convoca, ai sensi del nuovo art. 15 l.fall., il debitore ed i creditori istanti che sono, quindi, a tutti gli effetti parti nel giudizio e possono il conseguentemente svolgere tutte le attività connesse a tale qualifica previste dall'attuale art. 15 l.fall. (richiesta di mezzi istruttori, nomina di consulenti tecnici, richiesta di provvedimenti cautelari). Ne consegue, quindi, necessariamente che i creditori istanti devono essere parti anche nel giudizio di gravame. Tale principio, peraltro, si applica non solo ai creditori istanti per l'estensione del fallimento ai sensi dell'art. 147, l.fall. ma anche ai creditori istanti per il primo fallimento dal momento che «l'originaria istanza di fallimento (relativa ad impresa individuale di cui si scopra successivamente il carattere societario con soci illimitatamente responsabili, ovvero relativa a società, di cui non si conoscano ancora tutti i soci illimitatamente responsabili) deve intendersi implicitamente ed inevitabilmente riferita a tutti coloro che per legge debbono rispondere del dissesto denunciato; di conseguenza la successiva dichiarazione di fallimento in estensione (sia della società, sia dei soci illimitatamente responsabili per i debiti sociali), ancorché proposta ad istanza del curatore o di altri creditori, costituisce sempre lo sviluppo di un'iniziativa originariamente assunta dall'istante iniziale» (Cass. n. 10693/2005). D'altra parte, la revoca del fallimento successivamente esteso può arrecare pregiudizio alle pretese dei creditori ricorrenti, le quali, infatti, a norma dell'art. 148 l.fall., si intendono dichiarate anche nel fallimento dei singoli soci (Cass. n. 10795/2014; Cass. n. 21430/2016; Cass. n. 3621/2016; Cass. n. 10731/2013, sia pur con riferimento al giudizio di opposizione alla dichiarazione di fallimento proposto dal socio illimitatamente responsabile, cui il fallimento sia stato esteso, nel regime intermedio disciplinato dal d.lgs. n. 5/2006). In definitiva, i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento sono, al pari di quelli che hanno proposto la domanda di estensione, litisconsorti necessari nel giudizio di reclamo alla sentenza dichiarativa di fallimento proposto dal socio illimitatamente responsabile, cui il fallimento sia stato successivamente esteso (così, di recente, Cass. n. 4917/2017). Nel giudizio di reclamo proposto avverso la dichiarazione di fallimento della società e dei soci illimitatamente, il socio illimitatamente responsabile non è, invece, litisconsorte necessario: sia perché non è legittimato a contestare il fondamento della dichiarazione di fallimento della società, sia perché egli può opporsi alla estensione del fallimento nei propri confronti, facendo valere la eventuale estraneità alla compagine sociale, sia, infine, perché è in grado di fruire della eventuale revoca della dichiarazione di fallimento, che priverebbe di effetti tale pronuncia esclusiva, siccome dipendente ed accessoria, in applicazione del principio generale di cui all'art. 336 c.p.c. Naturalmente, l'esclusione della qualità di litisconsorte necessario non impedisce che il socio intervenga o sia chiamato nel giudizio concernente la dichiarazione di fallimento della società, né la proposizione da parte sua di un autonoma azione diretta all'accertamento della caducazione dell'effetto estensivo, in conseguenza dalla revoca di tale dichiarazione (Cass. 20166/2004; conf., Cass. n. 24112/2015). Ne consegue che, nel procedimento di reclamo alla sentenza che ha esteso il fallimento al socio accomandante, litisconsorti necessari sono soltanto il curatore ed i creditori istanti e non anche il socio accomandatario, già dichiarato fallito, ferma restando la facoltà dello stesso di spiegare intervento volontario, a norma dell'art. 105 c.p.c., nel giudizio concernente la dichiarazione di fallimento per estensione all'altro socio (Cass. n. 24112/2015). Quanto, invece, alla società, si è ritenuto che, ove il fallimento sociale sia stato esteso ex art. 147 l.fall. ai soci illimitatamente responsabili, nel giudizio di opposizione instaurato da questi ultimi, non sussiste litisconsorzio necessario in capo alla società, considerato che il diritto di difesa dell'originario soggetto fallito trova adeguata tutela nella possibilità di partecipare al giudizio di opposizione spiegando in esso intervento volontario ex art. 105, comma 2, c.p.c. (Cass. n. 26108/2008). Il termine breve per la proposizione del reclamo da parte del socio decorre, ai sensi del combinato disposto degli artt. 17 e 18 l.fall., solo dalla data in cui la sentenza, nella sua stesura integrale, gli è stata notificata. Tuttavia, anche in virtù di un ragionevole bilanciamento delle esigenze di tutela del diritto di difesa e di concentrazione e celerità dello svolgimento delle procedure concorsuali, deve ritenersi che, nel caso in cui il socio dichiarato fallito sia il legale rappresentante della società, la notificazione della sentenza ricevuta in quest'ultima veste gli assicuri la piena conoscenza della decisione anche con riguardo alla dichiarazione di fallimento personale, con la conseguenza che da detta notifica decorre il termine breve per proporre reclamo anche nella qualità di socio (Cass. n. 23430/2016). La revoca del fallimento della società determina, a norma dell'art. 336 c.p.c., la caducazione automatica anche del fallimento del socio illimitatamente responsabile, tanto se dichiarato contestualmente, quanto se dichiarato con sentenza di estensione (Nigro, 2006, 2188), trattandosi di procedura dipendente ed accessoria di quella principale che riguarda la società (Vassalli, 1939). Tuttavia, se il fallimento di quel socio era già stato dichiarato come imprenditore individuale, che rimane, pertanto, fermo, nello stesso modo in cui, in caso di estensione di fallimento di un imprenditore individuale ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, il passaggio in giudicato della sentenza di revoca del fallimento individuale, fa soltanto venir meno tale mutamento del titolo, ma non determina alcun effetto sulla sentenza di estensione, la quale, quindi, acquisisce carattere originario quanto a presupposti e procedimento, con la conseguente necessità, nell'eventuale giudizio impugnatorio, di un nuovo accertamento dei requisiti soggettivi ed oggettivi di fallibilità della società occulta e dei suoi soci illimitatamente responsabili (Cass. n. 3621/2016). Ai sensi dell'art. 147 l.fall., qualora, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l'impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito ed uno o più soci occulti, la sentenza di estensione muta soltanto il titolo in virtù del quale l'altro socio è già stato dichiarato fallito, vale a dire non più quale imprenditore individuale ma come socio illimitatamente responsabile della società occulta. La revoca del fallimento del socio illimitatamente responsabile, invece, non ha effetti sul fallimento della società, né su quelli degli altri soci (Vassalli, 1939) L'art. 147, comma 7, infine, prevede che, in caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l'istante può proporre reclamo alla corte d'appello a norma dell'art. 22. La norma, quindi, consente, per un verso, che il decreto di rigetto della domanda di estensione sia reclamato e, dall'altro lato, attribuisce la relativa legittimazione escluisvamente a chi abbia proposto la domanda di estensione, rigettata dal tribunale. I termini e le forme del giudizio sono quelli stabiliti dall'art. 22 l.fall., espressamente richiamato. Il decreto con cui la Corte d'appello accoglie, ai sensi degli artt. 22 comma 3 e 147 legge fallimentare, il reclamo avverso il provvedimento di rigetto di estensione del fallimento alla società di fatto ed ai soci non è impugnabile con ricorso per cassazione, difettando i requisiti, pur sempre necessari, della definitività e della decisorietà, in quanto l'incidenza sui diritti soggettivi delle parti coinvolte, deriva dalla successiva dichiarazione di fallimento, di cui il provvedimento della Corte d'appello costituisce un momento del relativo complesso procedimento (Cass. n. 19096/2007). Il rigetto della domanda di estensione non ne impesisce la riproposizione. Il provvedimento di rigetto dell'istanza di fallimento è, infatti, privo di attitudine al giudicato e non è configurabile una preclusione da cosa giudicata, bensì una mera preclusione di fatto, in ordine al credito fatto valere, alla qualità di soggetto fallibile in capo al debitore ed allo stato di insolvenza dello stesso, di modo che è possibile, dopo il rigetto, dichiarare il fallimento sulla base della medesima situazione — d'ufficio o su istanza di un diverso creditore —, ovvero sulla base di elementi sopravvenuti, preesistenti ma non dedotti e anche di prospettazione identica a quella respinta — su istanza dello stesso creditore (Cass. n. 15018/2001; Cass. n. 1135/1988). Il socio dichiarato fallito ex art. 147, comma 1, l.fall. ha il diritto a veder coinvolti nella esecuzione concorsuale gli altri soci solidalmente ed illimitatamente responsabili che, non noti, non siano stati già dichiarati falliti contestualmente al fallimento della società ed è, quindi, legittimato aertanto, ni dell'ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione ex art. 111 Cost. a proporre ricorso straordinario per cassazione nei confronti del provvedimento della Corte di appello di rigetto del reclamo, dagli stessi proposto, in relazione al decreto del Tribunale di rigetto della sua domanda di estensione del fallimento sociale, ex art. 147, comma 2, l.fall., agli altri soci solidalmente ed illimitatamente responsabili, che non siano stati già dichiarati falliti contestualmente al fallimento della società, posto che, ai fini dell'ammissibilit di tale ricorso, ciò che rileva è unicamente il contenuto di accertamento del decreto impugnato e che ha formato oggetto della decisione della Corte di appello, come, in particolare, nel caso in cui, nel provvedimento negativo (di rigetto), la questione risolta non attenga ai presupposti di fatto, dei quali sarà sempre possibile un diverso apprezzamento nella mutevolezza degli stessi, ma riguardi invece profili di diritto, al provvedimento suddetto deve riconoscersi anche il carattere della definitività e la conseguente idoneità a conseguire l'efficacia di giudicato (Cass. n. 8660/2000). In senso differente, tuttavia, si è pronunciata la giurisprudenza successiva, secondo la quale, trattandosi di provvedimento non definitivo né decisorio, il decreto emanato in sede di reclamo ai sensi dell'art. 22 l.fall. non è impugnabile con ricorso straordinario per cassazione, non essendo, in contrario, valorizzabile la asserita lesione di situazioni aventi rilievo processuale, in quanto la pronuncia sull'osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi ed i tempi con i quali la domanda può essere portata all'esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell'atto giurisdizionale cui il processo è preordinato, e non può dunque avere autonoma valenza di provvedimento decisorio, se di tale carattere detto atto sia privo, stante la strumentalità della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione nel merito (Cass. n. 19643/2005; conf. Cass. n. 26181/2006). BibliografiaAbete, Il fallimento di imprenditori collettivi, Le riforme delle procedure concorsuali, a cura di Didone, Milano, 2016, II; Abete, Il fallimento della supersocietà (di fatto) occulta: «controindicazioni» applicative, Soc. 2017, 169 ss.; Abete, Il fallimento delle società, Fallimento e concordati, a cura di Celentano e Forgillo, Torino, 2008; Amatucci, Trattato Diritto Fallimentare, diretto da Buonocore e Bassi, coordinato da Capo, De Santis e Meoli, Padova, 2011, I; Andrioli, Fallimento, in Enc.dir., Milano, 1967, XVI; Bassi, Fallimento, società, soci illimitatamente responsabili, Fallimento e concordato fallimentare, a cura di Jorio, Milanofiori Assago, 2016; Bartalena, La partecipazione di società di capitali in società di persone, Liber amicorum Gian Franco Campobasso, Torino, 2006, 1; Bianchi, Il fallimento delle società di capitali, Fallimento e concordato fallimentare, a cura di Jorio, Milanofiori Assago, 2016; Blatti, La legge fallimentare. 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