Regio decreto - 16/03/1942 - n. 267 art. 181 - (Chiusura della procedura)1.(Chiusura della procedura)1.
La procedura di concordato preventivo si chiude con il decreto di omologazione ai sensi dell' articolo 180 . L'omologazione deve intervenire nel termine di nove mesi dalla presentazione del ricorso ai sensi dell' articolo 161; il termine può essere prorogato per una sola volta dal tribunale di sessanta giorni2. [1] Articolo sostituito dall'articolo 2, comma 1 del D.L. 14 marzo 2005, n. 35. [2] Comma modificato dall'articolo 3, comma 5-bis, del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla Legge 6 agosto 2015, n. 132 ; per l'applicazione vedi l'articolo 23, comma 1, del medesimo decreto. InquadramentoDal punto di vista temporale le norme sul concordato preventivo contemplano solo termini relativi alla durata del procedimento: l'art. 181 l.fall. stabilisce che «l'omologazione deve intervenire nel termine di nove mesi dalla presentazione del ricorso ai sensi dell'art. 161» (il termine è stato esteso dal d.l. n. 83/2015, convertito con l. n. 132/2015, rispetto a quello di sei mesi previsto in precedenza); e che «il termine può essere prorogato per una sola volta dal tribunale di sessanta giorni». Non vi sono, invece, indicazioni normative circa un periodo di durata entro il quale le attività del piano devono essere realizzate, neppure entro il quale occorre soddisfare i creditori. Ciò non significa comunque che il fattore temporale non sia importante per l'esecuzione; esso infatti è un dato comune ed essenziale per qualsiasi proposta, divenendo il collante delle diverse operazioni e attività prospettate ai creditori. Il fattore temporale costituisce altresì un importante elemento per la valutazione di convenienza del piano da parte degli stessi creditori. Il tempo è in altre parole un elemento che pure segna le prospettive di fattibilità del piano stesso; e in tal senso deve leggersi la nuova formulazione dell'art. 161, comma 2, lett. e), l.fall., secondo la quale il piano presentato dal debitore deve contenere la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta. Natura e contenuto del provvedimento di chiusura del concordatoIl provvedimento di chiusura del concordato ha la forma del decreto, necessariamente motivato, con contenuto vincolato: significa che il tribunale ha soltanto la possibilità, alternativa, di omologare il concordato o rigettare la domanda di omologazione, non potendo modificare in alcun modo il contenuto della proposta (Fabiani-Nardecchia, Formulario commentato della legge fallimentare, Milano, 2007, 1678). La disciplina della pubblicità del decreto è prevista dall'art. 180, comma 5, l.fall. che fa richiamo alle modalità previste dall'art. 17. Il decreto che chiude la fase dell'omologazione è provvisoriamente esecutivo, e non è revocabile, come è desumibile da vari indici normativi, e principalmente dall'esistenza dell'istituto della risoluzione previsto dall'art. 186. Il decreto, in virtù della previsione dell'art. 180, comma 3, non è soggetto a reclamo, qualora non siano proposte opposizioni, in virtù di una regola che non è andata immune da dubbi, profilandosi la proponibilità di un'actio nullitatis, quando il provvedimento presenti profili di abnormità (Lo Cascio, 622). Quanto agli effetti la non revocabilità del decreto non comporta l'efficacia di giudicato sull'esistenza, entità e rango dei diritti dei creditori, i quali mantengono il diritto di chiedere l'accertamento del credito e della eventuale causa di prelazione che assiste il credito con le forme del giudizio ordinario (Fabiani-Nardecchia, 1681), essendo pacifico, anteriormente alla riforma, che la sentenza di omologazione non potesse esplicare effetti di giudicato in relazione all'accertamento dei crediti ed alla loro natura (Cass. n. 20298/2014). La natura ordinatoria del termine finaleL'introduzione del termine di durata massima del procedimento, elevato a nove in sede di conversione del d.l. n. 83/2015, ad opera della l. n. 132/2015, prorogabile per una sola volta, a discrezione del tribunale, ma per un lasso temporale massimo di sessanta giorni, integra un'assoluta novità della nuova disciplina. Il termine, giusta l'espressa previsione contenuta nella norma, decorre dal deposito della domanda di concordato. Prima della riforma, vi era una discrasia di interpretazioni in merito alla natura del termine. Difatti, inizialmente veniva accolta la tesi della perentorietà (Trib. Monza 28 settembre 2005), talaltra quella della ordinatorietà (Trib. Roma 24 marzo 2009). Se si ritiene il termine come perentorio, dal suo inutile decorso dovrebbe conseguire l'interruzione della procedura e la dichiarazione di fallimento, subordinata alla presentazione di un ricorso o della richiesta da parte del pubblico ministero, cui sarebbe opportuno trasmettere gli atti ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, ovviamente nel solo caso in cui la crisi coincida con lo stato di insolvenza. Nel caso contrario, la conseguenza andrebbe individuata nel ritorno in bonis dell'imprenditore, con conseguente possibile aggredibilità dei suoi beni da parte dei creditori rimasti insoddisfatti. Il problema interpretativo è stato risolto dalla Corte di Cassazione nel senso della natura non perentoria del termine. Secondo la Corte la finalità dello stesso, di tutelare l'interesse dei creditori alla pronta realizzazione dei loro diritti, è stata giudicata, infatti, insufficiente a farne escludere la natura ordinatoria, dato che, in virtù del principio enunciato dall'art. 152, comma 2, c.p.c., i termini vanno considerati perentori solo se dichiarati espressamente tali dalla legge (Cass. n. 2706/2009). La responsabilità del magistrato e il principio della ragionevole durata del processoIn dottrina è stata prospettata la responsabilità disciplinare del magistrato in ipotesi di inosservanza del termine (Demarchi, 172). Si tratterebbe di una responsabilità dei magistrati che compongono il collegio, che avrebbe quale presupposto un'ingiustificata inerzia nel dare impulso alle fasi della procedura. Per meglio dire la previsione del termine finale costituisce espressione della ragionevole durata del processo, per tale considerazione è stata adombrata la possibile rilevanza dell'inosservanza del termine ai fini della configurabilità della responsabilità disciplinare del, del possibile esperimento di azioni risarcitorie dipendenti dai danni provocati dal ritardo e dell'eventuale applicazione della responsabilità dello Stato ai sensi della legge c.d. Pinto. Peraltro, occorre considerare che l'art. 2, comma 2-bis, l. n. 89/2001 ha stabilito i termini il cui rispetto permette di considerare ragionevole la durata del processo e di escludere il diritto all'equa riparazione ed è, quindi, dubbio che il decorso di quello in esame sia sufficiente a far ritenere leso tale diritto. – A tal proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo, la procedura di concordato preventivo e quella fallimentare che ad essa consegue non costituiscono un'unica procedura, poiché la prima resta distinta da quella fallimentare, anche nel caso in cui tra le predette procedure si verifichi una consecuzione (Cass. n. 821/2011). In proposito giova ricordare che il termine previsto dall'articolo in commento è assoggettabile alla sospensione feriale dei termini se ed in quanto questa sia applicabile al giudizio di omologazione. Tale interpretazione ha trovato conferma dall'art. 36-bis, il quale, stabilendo che non sono soggetti alla sospensione feriale i termini processuali di cui agli artt. 26 e 36, consente, sulla base di un argomento a contrario, di ritenerla applicabile a tutti gli altri procedimenti, quindi anche all'omologazione del concordato (Trib. Padova 23 febbraio 2006 e Trib. Pescara 16 ottobre 2008). Gli effetti del decreto di chiusura- Quanto agli effetti sostanziali, il decreto rende insensibile il patrimonio alle pretese dei creditori successivi all'omologazione e produce effetti nei confronti del debitore, modificandone le obbligazioni e, in tutte le ipotesi di concordato proposto in una forma diversa dalla cessione dei beni in cui l'affidamento della gestione dei beni passa al liquidatore giudiziale (Cass. n. 15699/2011), o con una cessione soltanto parziale dei beni stessi, consentendogli di riacquistare la possibilità di disporre del proprio patrimonio e (nei modelli concordatari che prevedono la prosecuzione, da parte del debitore, dell'attività d'impresa) di gestire l'azienda senza l'egida dell'organo di vigilanza, cioè del commissario giudiziale, e senza il condizionamento degli atti di amministrazione straordinaria all'autorizzazione del giudice delegato, fermi restando i limiti connessi alla vigilanza di tali organi sull'esecuzione del concordato (Trib. Monza 13 febbraio 2015). In particolare, la chiusura della procedura determina la cessazione del regime di limitazione dei poteri dispositivi del debitore, posto che, come espressamente stabilito dall'art. 167, esso opera «durante la procedura di concordato». Tuttavia, ciò non implica necessariamente l'acquisizione, da parte del debitore, della libera disponibilità del patrimonio, che può essere destinato alla liquidazione in caso di cessione dei beni, essere trasferito all'assuntore, ovvero restare vincolato all'attuazione delle operazioni straordinarie previste dal piano. Rispetto ai creditori concorsuali — verso i quali l'omologazione rende obbligatorio il concordato- la chiusura della procedura pone fine al divieto di esercizio delle azioni esecutive e di acquisizione dei diritti di prelazione stabilito dall'art. 168 (divieto che, in concreto, può, però, estendersi anche alla fase esecutiva). Tale norma ne individua espressamente la cessazione nel momento in cui il decreto di omologazione diventa definitivo. Alla chiusura della procedura consegue l'esaurimento del potere di revoca dell'ammissione al c.p. ex art. 173, applicabile fino a che il decreto di omologazione non diventi definitivo. Al riguardo, la giurisprudenza (Cass. n. 12265/2016) ha precisato che una volta esauritasi, con l'omologazione, la procedura, tutte le questioni che hanno ad oggetto diritti pretesi da singoli creditori o dal debitore, e che attengono all'esecuzione del concordato, danno luogo a controversie che sono sottratte al potere decisionale del giudice delegato e costituiscono materia di un ordinario giudizio di cognizione, da promuoversi, da parte del creditore o di ogni altro interessato, dinanzi al giudice competente; ne deriva l'inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso il decreto con cui il tribunale, in sede di reclamo, abbia confermato il decreto del giudice delegato reiettivo della domanda di restituzione delle somme accantonate e destinate all'eventuale soddisfacimento dei crediti in contestazione, trattandosi di atto giudiziale esecutivo di funzioni di mera sorveglianza e controllo, privo dei connotati della decisorietà e della definitività. L'esecutività del decreto- In considerazione della provvisoria esecutività del decreto, gli effetti modificativi si producono per il debitore a prescindere dalla presentazione di reclamo avanti alla Corte d'Appello e senza necessità di attendere l'adempimento degli obblighi derivanti dalla proposta concordataria, profilo questo inerente alla fase dell'esecuzione, a garanzia del cui corretto svolgimento sono previsti i rimedi della risoluzione e dell'annullamento (AMBROSINI, Concordato preventivo: profili generali e limiti del controllo giudiziale, in AA.VV., La riforma del diritto fallimentare, Torino, 2007, 143). Diversamente, un altro orientamento ritiene che la procedura si chiude nel momento in cui il decreto di omologazione viene pubblicato, senza che sia necessario attendere la formazione del giudicato (Rago, L'esecuzione del concordato preventivo, in Fall. 2006, 1096). Quindi gli effetti dell'omologazione nei confronti del debitore in concordato si producono dal momento del deposito del decreto in cancelleria, e non quindi dalla pubblicazione a norma dell'art. 17, momento che va invece individuato quale essenziale per la decorrenza degli effetti prodotti dall'omologazione rispetto ai creditori e ai terzi. In ogni caso, l'omologazione del concordato non determina la liberazione del debitore, che discende invece dalla completa esecuzione del concordato stesso, che sarà configurabile — ad eccezione delle ipotesi di concordato con cessione c.d. traslativa e del concordato con l'intervento dell'assuntore – soltanto con l'intervenuto adempimento delle obbligazioni contenute nella proposta o, se si preferisce, nel momento in cui il piano concordatario è integralmente attuato (Ambrosini, Demarchi, Vitiello 2009, 219; Lenoci, 836). Da ciò deriva che il creditore rimasto insoddisfatto, integralmente o parzialmente, rispetto a quanto previsto nel programma concordatario, potrà agire in giudizio (ed anche in via esecutiva, ove fosse già munito di titolo) per ottenere il riconoscimento delle sue ragioni, ovviamente nei limiti della falcidia concordataria, e salvo, ovviamente, il rimedio della risoluzione del concordato per inadempimento del debitore, previsto dall'art. 186 l.fall. e subordinato, come si vedrà, all'iniziativa di uno o più creditori e dalla rilevanza dell'inadempimento. Il concordato non è invece obbligatorio per i creditori aventi causa e titolo posteriori al decreto di apertura della procedura: essi, quindi, non subiscono alcun effetto modificativo dei propri diritti, salvo quelli connessi al vincolo di destinazione che viene impresso ai beni nel caso di piano con cessione di beni, e possono, pertanto, pretendere l'integrale pagamento del loro credito, e, in difetto, anche il fallimento del debitore (Rago, 2007, 1097-1098). BibliografiaV. sub art. 179. |