Preclusioni

Franco Petrolati
05 Settembre 2016

Le preclusioni possono definirsi come perdita/consumazione di un potere processuale in conseguenza del mancato esercizio all'interno della sequenza degli atti, astrattamente preordinata, che caratterizza il processo civile.
Inquadramento

Le preclusioni possono definirsi come perdita/consumazione di un potere processuale in conseguenza del mancato esercizio all'interno della sequenza degli atti, astrattamente preordinata, che caratterizza il processo civile: maturano, quindi, per l'inadempimento di specifici oneri processuali che la legge variamente connette al compimento di un determinato atto (es. art. 38, comma 1, c.p.c.) o di una più complessa vicenda - come l'udienza (es. art. 38, comma 3, c.p.c.), una fase o grado del processo- oppure alla scadenza di un termine perentorio (es. art. 183, comma 6, c.p.c.).

In relazione alla maturazione di tale termine si prevede, infatti, una decadenza, vale a dire la perdita del potere di compiere un determinato atto processuale: in tal senso la decadenza si inscrive come modalità particolare nell'ambito del fenomeno più ampio della preclusione.

Il sistema delle preclusioni segue un criterio di tendenziale progressività, in quanto il potere delle parti – e del giudice – di incidere sul processo tende a subire limiti sempre più rilevanti con l'evolversi del processo per fasi e gradi fino alla maturazione del giudicato: in tal senso il sistema trova la sua giustificazione razionale nell'esigenza che alla definizione della controversia si pervenga secondo modalità tali da assicurare il rispetto di entrambi i valori, costituzionalmente tutelati, del contraddittorio e della ragionevole durata del processo (artt. 24 e 111, comma 2, Cost.).

Si ritiene, pertanto, in giurisprudenza che le norme inerenti le preclusioni siano preordinate a tutelare interessi generali attinenti al c.d. ordine pubblico processuale, sicchè la loro violazione è rilevabile d'ufficio.

Preclusioni assertive

Le preclusioni c.d. assertive maturano in relazione all'adempimento dell'onere di allegazione, vale a dire di determinazione dell'oggetto del processo attraverso l'indicazione degli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento delle rispettive domande ed eccezioni.

Nel rito ordinario tale onere è essenzialmente adempiuto dalle parti negli atti introduttivi (art. 163, comma 3, n. 4 ; art. 167, comma 2, c.p.c.); è ammessa, tuttavia, la possibilità della precisazione e modificazione di domande ed eccezioni -«già formulate» - alla prima udienza di trattazione oppure alla scadenza del successivo termine perentorio di trenta giorni che il giudice assegna «se richiesto» dalle parti (art. 183, commi 5 e 6, n. 1, c.p.c.).

Si intende per precisazionequella esplicitazione o rettifica della domanda o dell'eccezione che non incide sugli originari elementi costitutivi della relativa fattispecie se non nel senso di chiarirne la portata e gli effetti (es: la corretta formulazione degli estremi identificativi del libretto bancario di cui è chiesta la restituzione: Cass. civ., sez. III, 22 luglio 2005, n. 15422).

Più difficile è stato, nella prassi giurisprudenziale, individuare il criterio per distinguere la modificazionedella domanda (c.d. emendatio libelli) dalla nuova domanda (c.d. mutatio libelli), posto che in entrambi i casi subiscono una variazione, più o meno rilevante, gli elementi identificativi della domanda, dal lato oggettivo, avuto riguardo al petitum od alla causa petendi; erano invalsi, al riguardo, criteri distintivi suscettibili di non univoca applicazione, come quelli costituiti dalla persistenza, nella mera modificazione, del «nucleo dei fatti costitutivi» o dei «termini sostanziali della controversia» e dalla introduzione, invece, nella nuova domanda, di ulteriori «temi di indagine» (ex multis, Cass. civ., 24 agosto 2007, n. 17977; Cass. civ., 20 aprile 2007, n. 9522).

Si è, quindi, chiarito in sede nomofilattica che rientra nella mera emendatio, consentita in sede di trattazione, orale o scritta ex art. 183 c.p.c., anche la variazione di uno o di entrambi gli elementi oggettivi della domanda originaria (petitum e causa petendi), la quale viene, in tal senso, sostituita da quella così modificata, mentre resta in linea di principio preclusa – salva l'ipotesi eccezionale, come si vedrà, della reconventio reconventionis – la formulazione di una domanda ulteriore, che si aggiunge cioè a quella contenuta nell'atto introduttivo; di qui l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c., dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo (Cass. civ., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310).

A tale conclusione si è pervenuti argomentando, in particolare, che nessun limite quantitativo o qualitativo è espressamente imposto al potere di modificazione attribuito alle parti in sede di trattazione e che la collocazione di tale ius variandi nella fase iniziale della trattazione, con previsione di successive c.d. appendici scritte ex art.183, comma 6, c.p.c., consente lo svolgimento di un adeguato contraddittorio sulla domanda modificata, senz'altro sovrabbondante ove si ritenga che la variazione non possa involgere uno degli elementi oggettivi della domanda (o dell'eccezione) ; inoltre la possibilità di adeguare la postulazione all'evoluzione della materia del contendere, a seguito degli elementi di valutazione offerti dalla controparte oppure dallo stesso giudice ex art. 183, comma 4, c.p.c., evita che la parte interessata debba promuovere un ulteriore giudizio per far valere il proprio diritto, sicchè la soluzione si presenta conforme anche all'esigenza costituzionale di ragionevole durata del giudizio e di economia processuale, riferita alla funzionalità del sistema-giustizia nel suo complesso e non al singolo procedimento (c.d. macroeconomia processuale).

L'ambito della modificazione è, comunque, consentita ove permangano identici i soggetti tra i quali la domanda è spiegata (c.d. personae) e, soprattutto, la variazione riguardi pur sempre «lamedesima vicenda sostanziale» ovvero altra a questa «collegata» (Cass. civ., sez. un., n. 12310/2015): parametro, quest'ultimo, che rischia di far riemergere, tuttavia, le già accennate pregresse ambiguità relative alla distinzione tra modificazione ed innovazione della domanda imperniate sulla persistenza dei «termini sostanziali della controversia».

Preclusioni probatorie

Le preclusioni c.d. probatorie o istruttorie maturano in relazione all'adempimento dell'onere di indicazione specifica dei mezzi di prova e dei documenti offerti in comunicazione al fine di dimostrare gli elementi costitutivi del diritto o dell'eccezione fatti valere in giudizio.

Tali indicazioni sono contemplate come contenuto specifico degli atti introduttivi (nel rito ordinario: art. 163, comma 3, n. 5 c.p.c. per l'attore; art. 167, comma 1, c.p.c. per il convenuto) ma la preclusione si perfeziona solo all'esaurimento della trattazione orale oppure alla scadenza del secondo termine perentorio, di ulteriori trenta giorni, nell'ambito della c.d. appendice scritta che è disposta «se richiesto» dalle parti (art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c.).

Spetta, quindi, alla parte interessata richiedere all'udienza di trattazione l'assegnazione del termine perentorio per la formulazione delle prove e differire così in avanti la maturazione delle preclusioni probatorie; si tratta, in tal senso, di un onere da adempiere per evitare che il giudice possa, allo stato degli atti, dare immediato corso alla fase istruttoria o porre la causa in fase decisoria (in tal senso, sia pure in relazione alla analoga disciplina vigente anteriormente al 1° marzo 2006, Cass. civ., sez. II, 26 marzo 2012, n. 4833; Cass. civ., sez. II, 12 giugno 2009, n. 13733; Cass. civ., sez. III, 25 novembre 2002, n. 16571). In difetto di tale istanza, infatti, ove il giudice abbia fissato l'udienza di precisazione delle conclusioni, si ritiene che la relativa ordinanza non possa essere revocata al fine di ammettere le prove successivamente articolate dalle parti, in quanto neppure il giudice può avvalersi del generale potere di modificazione o revoca ex art. 177 c.p.c. per incidere sul regime delle preclusioni (Cass. civ.,sez. II, 4 giugno 2013, n. 14110; Cass. civ., n. 16571/02).

Le preclusioni istruttorie si delineano in una fase, almeno astrattamente, successiva rispetto a quelle assertive in quanto la compiuta formulazione delle prove presuppone che sia già delimitato il thema probandum, vale a dire l'ambito dei fatti specifici in contestazione, in ordine ai quali le parti sono chiamate ad assolvere il rispettivo onere della prova (art. 2697 c.c.); si comprende, quindi, la ragione per la quale l'indicazione delle prove possa essere differita – «se richiesto» - fino alla scadenza della seconda memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., una volta che le parti abbiano già eventualmente esercitato lo ius variandi, all'udienza di trattazione o nella prima memoria ex art. 183, comma 5 e 6, n. 1, c.p.c., riguardo alle rispettive domande ed eccezioni.

Non si riconoscono limiti, nella prassi giurisprudenziale, all'esercizio del potere di indicazione delle prove in una fase successiva a quella introduttiva purchè, ovviamente, nel rispetto della barriera costituita dalle preclusioni; si ammette, così, che con la memoria istruttoria possa essere depositata, quale prova dell'accordo simulatorio, una scrittura diversa da quella originariamente offerta in comunicazione con l'atto introduttivo (Cass. civ., sez. III, 20 dicembre 2013, n. 28610).

Si è, inoltre, ritenuto che anche in caso di tardiva costituzione in giudizio la parte possa conservare il diritto alla prova, tenuto conto che, come si è visto, tale diritto può essere esercitato in una fase successiva alla maturazione delle preclusioni assertive (in tal senso, Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 2004, n. 20581, ove sono stati ritenuti legittimi i termini assegnati per le memorie istruttorie, ai sensi del previgente art. 184 c.p.c., in favore del convenuto che pur si era costituito solo all'udienza fissata per l'ammissione delle prove).

L'autonomia dell'attività probatoria rispetto a quella assertiva è, tuttavia, da apprezzare anche nel senso che l'una non può supplire alle carenze dell'altra: non è, quindi, sufficiente la produzione di un documento suscettibile, in astratto, di dimostrare la prescrizione del diritto azionato da controparte ove sia mancata la tempestiva formulazione della relativa eccezione attraverso la manifestazione della volontà di far valere lo specifico fatto estintivo (Cass. civ., sez. I, 12 novembre 1998, n. 11412

Preclusioni conseguenziali

Si possono qualificare come «conseguenziali» quelle specifiche preclusioni che il codice riserva alle ulteriori attività, assertive e probatorie, pur astrattamente precluse, che si giustificano, tuttavia, in ragione degli elementi di novità legittimamene introdotti dalla controparte o dal giudice.

Così, ad esempio, nel rito ordinario la parte attrice può, in sede di trattazione orale, non solo modificare la domanda originaria ma anche aggiungere a questa una domanda ulteriore (c.d. reconventio reconventionis), oltre a formulare eccezioni ed a chiedere di essere autorizzato alla chiamata del terzo, ove le relative postulazioni siano «conseguenza» della riconvenzionale o delle difese formulate dal convenuto (art. 183, comma 5, c.p.c.).

Quanto alle prove è prevista, invece, nell'ambito dell'appendice scritta alla trattazione, l'assegnazione di un terzo termine perentorio per la esclusiva indicazione delle prove contrarie ai sensi dell'art. 183, comma 6, n. 3, c.p.c.; ulteriori mezzi di prova sono, inoltre, consentiti alle parti, pur dopo la maturazione delle preclusioni probatorie, nel caso di iniziative istruttorie di ufficio, nei limiti in cui si rendano necessari in relazione alle nuove prove disposte dal giudice (art. 183, comma 8, c.p.c.).

La questione più delicata è, quindi, costituita in tali ipotesi dalla sussistenza o meno del nesso di conseguenzialità, rispetto alle iniziative della controparte o dell'ufficio, tale da giustificare un'attività assertiva e probatoria ulteriore rispetto alle maturate preclusioni.

Così, riguardo al termine ulteriore assegnato per le sole prove contrarie, si è ritenuto – pur in applicazione del regime previgente relativo al doppio termine per le memorie istruttorie di cui all'art. 184 c.p.c. - che la prova contraria consentita è solo quella che si giustifica in replica alle nuove prove formulate dalla controparte nel termine perentorio anteriore e non, invece, quella volta a fronteggiare le prove già indicate negli atti introduttivi (cui può replicarsi nel rispetto del primo termine: Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2013, n. 12119); come per gli altri termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., è, poi, onere specifico della parte interessata richiedere espressamente, all'udienza di trattazione, l'assegnazione del termine per la formulazione della prova contraria (Cass. civ., sez. III, 15 gennaio 2002, n. 378).

In relazione al regime dell'art. 183 c.p.c. vigente sino al 1° marzo 2006, si è inoltre chiarito che domande ed eccezioni ulteriori di parte attrice, come conseguenza della domanda riconvenzionale svolte dal convenuto nella comparsa di risposta, sono ammissibili non oltre la prima udienza di trattazione, essendo consentita nella eventuale e successiva appendice scritta la mera modificazione di domande ed eccezioni già formulate, senza alcun ampliamento del thema decidendum (Cass. civ., sez. III, 19 luglio 2013, n. 17708); di qui l'inammissibilità della eccezione di prescrizione sollevata dalla parte attrice per la prima volta nella memoria ex art. 183, comma 5, c.p.c. (Cass. civ., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3567).

Principio di non contestazione

Sulla parte convenuta – o, comunque, destinataria di una domanda – grava l'onere non solo di formulare le eventuali eccezioni e controdomande ma anche di prendere posizione sui fatti principali posti dalla parte attrice a fondamento della rispettiva pretesa, chiarendo in sostanza quali di essi – ed in quale misura – siano contestati (nel rito ordinario: art. 167, comma 1, c.p.c.).

Si tratta di un onere di contestazione che rileva ai fini della delimitazione del thema probandum, vale a dire dell'ambito dei fatti principali che debbono essere dimostrati dalla parte attrice: quelli non specificamente contestati, infatti, possono senz'altro essere posti a base della decisione (art. 115, comma 1, c.p.c., così come novellato a partire dal 4 luglio 2009; per il regime anteriore, tuttavia, in tal senso già Cass. civ., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761), purchè la materia del contendere rientri nella disponibilità delle parti.

Si ritiene, quindi, che l'onere della contestazione sia del tutto omogeneo a quello di allegazione dei fatti principali, costituendo, per così dire, l'uno il polo negativo e l'altro il polo positivo della dialettica processuale; di qui l'orientamento giurisprudenziale volto a configurare, per la contestazione, una preclusione affatto analoga a quella assertiva, nel senso cioè che l'onere deve essere assolto negli atti introduttivi e, comunque, non oltre l'esaurimento della fase della trattazione.

Una volta maturata la preclusione, pertanto, non è più consentito al convenuto di rendere controverso un fatto non contestato, né attraverso la revoca espressa della non contestazione, né deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte (Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2013, n. 26859; Cass. civ., sez. un., 16 maggio 2013, n. 11830; Cass. civ., sez. un., n. 761/2002).

Violazione

Le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie nel processo civile sono considerate, secondo la giurisprudenza prevalente, preordinate a tutelare interessi generali, attinenti all'economia processuale ed alla ragionevole durata del giudizio, con la conseguenza che la loro violazione può essere sempre rilevata d'ufficio, anche in presenza di acquiescenza della parte legittimata a dolersene (Cass. civ., sez. I, 30 ottobre 2013, n. 24486; Cass. civ., sez. III, 24 gennaio 2012, n. 947; Cass. civ., sez. II, 30 novembre 2011, n. 25598; Cass. civ., sez. III, 18 marzo 2008, n. 7270).

È, quindi, da ritenersi recessivo l'orientamento secondo il quale, in conformità alla tesi sostenuta da taluni autori, la sequenza temporale di cui agli artt. 180, 183 e 184 c. p. c., con il connesso sistema delle preclusioni, è costituito dalla sola esigenza di assicurare il contraddittorio ed il diritto di difesa, restando così nella disponibilità delle parti l'eventuale ampliamento del thema decidendum fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass. civ., sez. II, 21 ottobre 2004, n. 20581; Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile,III, 2015, 97, n.61).

Efficacia endoprocessuale

L'efficacia delle preclusioni è, in linea di principio, circoscritta al processo in cui sono maturate.

Tuttavia si è chiarito che le decadenze processuali verificatesi nel giudizio di primo grado non possono essere aggirate dalla parte che vi sia incorsa mediante l'introduzione di un secondo giudizio identico al primo e a questo riunito, in quanto la riunione di cause identiche non realizza una vera e propria fusione dei procedimenti, tale da determinarne il concorso nella definizione dell'effettivo thema decidendum et probandum, restando, viceversa, intatta l'autonomia di ciascuna causa; ne consegue che, in tale evenienza, il giudice - in osservanza del principio del ne bis in idem e allo scopo di non favorire l'abuso dello strumento processuale e di non ledere il diritto di difesa della parte in cui favore siano maturate le preclusioni - deve trattare in via preliminare soltanto la causa iniziata per prima, decidendo in base ai fatti tempestivamente allegati e al materiale istruttorio in essa raccolto (Cass. civ., sez. I, 15 gennaio 2015 n. 567).

In caso, invece, di estinzione del processo nel quale sia siano già verificate preclusioni, queste non sono dotate di effetti ultrattivi e, quindi, non pregiudicano il giudizio successivamente instaurato (Cass. civ., sez. lav., 27 gennaio 1998, n. 809).

Eccezioni in senso lato

Le eccezioni soggette al regime delle preclusioni assertive sono solo quelle nelle quali la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva, ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l'iniziativa di parte (c.d. eccezioni in senso stretto); gli ulteriori fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito (c.d. eccezioni in senso lato), invece, sono rilevabili di ufficio (Cass. civ., sez. VI, 13 gennaio 2012, n. 409).

Il rilievo giudiziale, al riguardo, secondo l'approdo recente della nomofilassi, non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, purchè che i fatti risultino ritualmente documentati ex actis, in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe pregiudicato ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass. civ., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531).

Eccezioni in senso lato possono essere di carattere sostanziale (es: l'estinzione del diritto azionato a seguito di transazione) oppure di carattere processuale; a quest'ultimo riguardo è da evidenziare l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la legittimazione attiva o passiva, intesa come titolarità del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio (c.d. legittimatio ad causam), possa essere accertata di ufficio ex actis a prescindere dal difetto di contestazione di controparte (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2015, n. 21176; Cass. civ., sez. VI, 5 maggio 2015, n. 8969). Analogamente la c.d. legittimatio ad processum (art. 75 c.p.c.), riguardando un presupposto della regolare costituzione del rapporto processuale, è ritenuta questione esaminabile d'ufficio – ed eventualmente sanabile ex art. 182, comma 2, c.p.c. - in ogni stato e grado del giudizio, salvo il limite della formazione del giudicato, con la conseguenza che non rileva il momento processuale in cui sia fornita la relativa prova, non operando, al riguardo, le ordinarie preclusioni istruttorie (Cass. civ., sez. I, 26 settembre 2013, n. 22099, ove è stata esclusa la tardività della prova della qualità di legale rappresentante di una persona giuridica, offerta nella memoria di replica istruttoria secondo il previgente regime di cui all'art. 184 c.p.c.).

Casistica

CASISTICA

Domanda modificata e domanda nuova in sede di trattazione

La modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue l'ammissibilità della modifica, nella memoria ex art. 183 c.p.c. dell'originaria domanda formulata ex art. 2932 c.c. con quella di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo.

(Cass. civ., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310)

Onere di allegazione ed onere di prova

La formulazione di un'eccezione, pur non richiedendo espressioni sacramentali, esige pur sempre una manifestazione non equivoca della volontà di contrastare una deduzione di controparte (nella specie, volta ad ottenere l'accertamento dell'estinzione per prescrizione di un diritto), sì che deve escludersi che gli estremi di una siffatta volontà possano essere ravvisati nella mera produzione di documenti, benché il loro contenuto risulti idoneo a dimostrare il fondamento della predetta eccezione.

(Cass. civ., sez. I, 12 novembre 1998, n. 11412)

Preclusione probatoria e prova contraria

Ai sensi dell'art. 184 c.p.c. - nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 39-quater del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, convertito con modificazioni nella l. 23 febbraio 2006, n. 51), il momento in cui scatta per le parti la preclusione in tema di istanze istruttorie è quello dell'adozione dell'ordinanza di ammissione delle prove, ovvero - nel caso in cui il giudice, su istanza di parte, abbia rinviato tale adempimento ad altra udienza - dello spirare di un duplice termine, il primo concesso per la produzione dei nuovi mezzi di prova e l'indicazione dei documenti idonei a dimostrare l'esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda attorea e delle eccezioni sollevate dal convenuto, il secondo previsto, invece, per l'indicazione della (eventuale) "prova contraria", da identificarsi nella semplice "controprova" rispetto alle richieste probatorie ed al deposito di documenti compiuto nel primo termine. Ne consegue, che è già il primo termine di cui alla norma suddetta quello entro cui la parte interessata ha l'onere di richiedere prova contraria in relazione ai fatti allegati dalla controparte e definitivamente fissati nel "thema decidendum", ai sensi dell'art. 183 c. p.c.

(Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2013, n. 12119)

Domande ed eccezioni conseguenziali alla riconvenzionale

L'art. 183 c.p.c., nel testo di cui alla l. 26 novembre 1990, n. 353, vigente fino al 1° marzo 2006, dispone, al quarto comma, che nella prima udienza di trattazione l'attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale del convenuto ed entrambe le parti possono precisare e modificare le domande e le conclusioni già formulate. Pertanto ove l'attore voglia eccepire la prescrizione del diritto azionato dal convenuto in riconvenzionale, è tenuto, a pena di decadenza, trattandosi di eccezione non rilevabile d'ufficio, a proporla al più tardi in sede di prima udienza di trattazione, non potendo avvalersi delle memorie da depositare nei termini fissati all'art. 183, comma, 5 c.p.c., in quanto finalizzate esclusivamente a consentire alle parti di precisare e modificare le domande e le eccezioni già proposte e di replicare alle domande ed eccezioni formulate tempestivamente, ma non a proporne di ulteriori, non essendo ammissibile estendere il "thema decidendum" (Cass. civ., sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3567).

Onere di contestazione e preclusione

Nel processo di cognizione, l'onere previsto dall'art. 167, comma 1, c. p. c., di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese e di prendere posizione sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, comporta che, esaurita la fase della trattazione, non è più consentito al convenuto, per il principio di preclusione in senso causale, di rendere controverso un fatto non contestato, né attraverso la revoca espressa della non contestazione, né deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte. Ne consegue che, in grado di appello, non è ammessa la contestazione della titolarità passiva del fatto controverso che debba aversi per non contestata nel giudizio di primo grado.

(Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2013, n. 26859)

Violazione delle norme sulle preclusioni: rilevabilità di ufficio

Nel vigore del regime delle preclusioni di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c. come formulati dalla l. 26 novembre 1990, n. 353, la questione circa la novità delle domande è del tutto sottratta alla disponibilità delle parti e ricondotta esclusivamente al rilievo d'ufficio da parte del giudice, in virtù del principio secondo cui il "thema decidendum" non è più modificabile dopo la chiusura della prima udienza di trattazione o dopo la scadenza del termine concesso dal giudice ai sensi dell'art. 183, comma 5, cit.; ne consegue che, ove una domanda non sia stata proposta in primo grado nei termini perentori previsti dalla legge, essa deve essere dichiarata inammissibile anche in appello, a causa dell'inderogabile divieto di domande nuove di cui all'art. 345 del codice di rito (Cass. civ., sez. III, 24 gennaio 2012, n. 947).

Eccezioni in senso lato: rilevabilità di ufficio

Il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati "ex actis", in quanto il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che resterebbe svisato ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto (Cass. civ., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531).

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