La mutatio libelli si estende alla domanda accessoria di restituzione (ma non può essere introdotta ex novo in appello)

13 Dicembre 2016

La facoltà di mutatio libelli, ossia la possibilità per l'attore di sostituire l'originaria domanda di adempimento del contratto con la domanda di risoluzione dello stesso, si estende anche alla domanda consequenziale e accessoria di restituzione, a condizione che tale domanda sia proposta contestualmente o, comunque, nel medesimo grado di giudizio.
Massima

La facoltà di mutatio libelli riconosciuta dall'art. 1453, secondo comma, c.c., con riferimento alla possibilità per l'attore di sostituire l'originaria domanda di adempimento del contratto con la domanda di risoluzione dello stesso si estende anche alla domanda consequenziale e accessoria di restituzione, a condizione che tale domanda sia proposta contestualmente o, comunque, nel medesimo grado di giudizio in cui è proposta la prima, essendo esclusa la possibilità per la parte di aggiungere nel giudizio di appello, alla domanda di risoluzione del contratto proposta in primo grado, la domanda di restituzione delle prestazioni rimaste senza causa a seguito della pronuncia di risoluzione.

Il caso

Tizio agiva nei confronti di Sempronio e chiedeva al Tribunale di Paola il riconoscimento giudiziale della sottoscrizione della scrittura privata con la quale egli aveva acquistato dal convenuto un terreno edificabile nonché il risarcimento del danno conseguente all'inadempimento di Sempronio che si era rifiutato di comparire dinanzi al notaio per il rogito. Nel corso del giudizio di primo grado, l'attore modificava l'originaria domanda ai sensi dell'art. 1453 comma 2, c.c., chiedendo la risoluzione del contratto preliminare in luogo dell'adempimento precedentemente richiesto. Il giudice di prime cure, tuttavia, rigettava la domanda dell'attore.

Sul gravame proposto da Tizio, invece, la Corte d'appello di Catanzaro, riformando la sentenza di primo grado, dichiarava la risoluzione per inadempimento del convenuto del contratto di compravendita stipulato tra le parti, ed inoltre dichiarava inammissibile la domanda di restituzione dell'acconto che Tizio, in sede di sottoscrizione della scrittura aveva versato a Sempronio.

Avverso quest'ultima decisione il soccombente ricorre per cassazione sulla base di un unico complesso motivo facendo valere, in particolare, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 12, 345, c.p.c. e 1453 c.c., per avere la Corte di appello ritenuto l'inammissibilità della domanda di restituzione dell'acconto versato da Tizio, in quanto proposta per la prima volta con l'atto di appello. Invero, il ricorrente deduce che egli aveva proposto la domanda già dinanzi al Tribunale, quando aveva chiesto la risoluzione del contratto per grave inadempimento del convenuto «con tutte le conseguenze di legge»; domanda che aveva poi ribadito nella memoria di replica, quando aveva espressamente chiesto la condanna del convenuto alla restituzione dell'acconto. E la Suprema Corte rigetta tale censura, precisando che, le memorie di replica non possono servire a proporre o modificare domande. La Suprema Corte, rigetta quindi il ricorso e condanna il ricorrente alle spese.

La questione

La questione in esame è la seguente: la facoltà di mutatio libelli ai sensi dell'art. 1453, secondo comma, c.c. si estende anche alla domanda consequenziale ed accessoria di restituzione delle prestazioni, potendo la stessa essere proposta dalla parte per la prima volta anche in grado di appello?

Le soluzioni giuridiche

Mediante la pronuncia in commento la Corte di Cassazione ritiene che la domanda di restituzione era stata tardivamente proposta in primo grado con la memoria di replica, in quanto la facoltà, riconosciuta alla parte dall'art. 1453, secondo comma, c.c., di poter mutare la domanda di adempimento in quella di risoluzione può essere esercitata non solo nel corso del giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di appello e persino in sede di rinvio, in deroga al divieto di mutatio libelli sancito dagli artt. 183, 184 e 345 c.p.c., sempreché si resti nell'ambito dei fatti posti a base della inadempienza originariamente dedotta, senza introdurre un nuovo tema di indagine.

La Corte ha inoltre precisato che tale facoltà di mutatio libelli prevista per la domanda di risoluzione del contratto si estende anche alla domanda consequenziale e accessoria di restituzione, a condizione che tale domanda sia proposta contestualmente e, comunque, nel medesimo grado di giudizio in cui è proposta la prima (entrambe nel giudizio di primo grado ovvero entrambe nel giudizio di appello).

Occorre ricordare che l'art. 1453, secondo comma, c.c., dispone che il contraente non inadempiente può mutare la domanda giudiziale di adempimento in quella di risoluzione, ma non viceversa. La ratio della previsione, con cui il legislatore del 1942 ha risolto una vexata quaestio a lungo dibattuta nella vigenza del codice civile previgente è chiara. Da un lato, la possibilità di mutare la domanda di adempimento in domanda di risoluzione – altrimenti nota come reversibilità della domanda di adempimento in quella di risoluzione o mutatio libelli -, espressamente ammessa dalla norma, risponde all'esigenza di tutelare il contraente non inadempiente di fronte agli sviluppi successivi alla domanda: se perdura l'inadempimento di controparte e le conseguenze dell'inadempimento si aggravano, sì che l'attore perde speranza e interesse a ricevere la prestazione, gli si deve consentire di rivedere la propria scelta nella situazione mutata e chiedere la risoluzione. Viceversa, la preclusione a carico del creditore di mutare la domanda di risoluzione in domanda di adempimento – o irreversibilità della scelta della risoluzione – risponde a logiche di tutela del contraente inadempiente, che, di fronte alla domanda di risoluzione, ha giustificato motivo di ritenere che la controparte non abbia più interesse all'esecuzione del contratto, sì che, pur rassegnandosi ad affrontare le conseguenze del proprio inadempimento, è ragionevole che possa ritenersi liberato dall'obbligo di mantenersi ancora pronto ad adempiere e che possa liberamente impostare la propria attività e orientare le proprie risorse in direzioni diverse dall'adempimento a favore di quel creditore, rinunciando a creare o mantenere l'organizzazione prefigurata a tal fine, o prendendo con altri soggetti impegni incompatibili con quell'adempimento.

La proposizione della domanda di risoluzione determina, inoltre, un effetto preclusivo anche nei riguardi del convenuto (contraente cui si imputa l'inadempimento): come all'attore (contraente non inadempiente) è inibita una richiesta di adempimento successiva alla proposizione della domanda giudiziale di risoluzione, ex art. 1453, secondo comma, c.c., simmetricamente l'art. 1453, terzo comma, c.c. pone a carico della parte inadempiente un divieto di eseguire la prestazione dal momento in cui l'altra parte abbia chiesto la risoluzione. Con il che, la vittima dell'inadempimento viene messa al sicuro contro l'eventualità di restare vincolata ad un contratto dal quale, agendo per la risoluzione, ha mostrato di volersi liberare. Si è così risolta una questione lungamente dibattuta sotto il vigore del codice civile previgente, nella vigenza del quale era controverso se al debitore fosse ancora concesso di adempiere in pendenza del giudizio di risoluzione, ovvero se la notifica della domanda di risoluzione avesse effetto preclusivo dell'adempimento.

Difatti, per espressa previsione legislativa mentre la domanda di adempimento può essere convertita in domanda di risoluzione, anche in appello, non può verificarsi il contrario. Sul punto il citato art. 1453, c.c., che stabilisce la possibilità di mutamento rappresenta una deroga ai principi generali sul divieto di mutatio libelli fissati dagli artt. 183 e 184 c.p.c.. La ratio della norma appare evidente, in quanto anche in seguito alla domanda di adempimento, permanendo l'inadempimento, il creditore potrebbe non avere più interesse all'esecuzione della prestazione, per cui gli si concede la possibilità di convertire la sua originale domanda di adempimento in quella di risoluzione. Una tale possibilità è ammessa purché i presupposti delle due domande siano gli stessi. Non sarà possibile, quindi, ammettere tale mutatio qualora fondata su diversi inadempimenti. Sul punto le Sezioni Unite con la pronuncia 962/1989 precisano che l'art. 1453, secondo comma, c.c., il quale consente alla parte adempiente di chiedere la risoluzione del contratto anche quando il giudizio sia stato promosso per ottenere l'adempimento della controparte, introduce una deroga al divieto della mutatio libelli nel corso del processo, e, quindi, anche al divieto di domanda nuova in appello, limitatamente al petitum, non anche alla causa petendi; detta risoluzione, pertanto, al pari del risarcimento dei danni consequenziali, non può essere richiesta per la prima volta nel giudizio di gravame, sulla base di un distinto fatto costitutivo, cioè di un inadempimento diverso da quello posto a base della pretesa originaria. Le Sezioni Unite, con la successiva pronuncia 8510/2014, precisano però che sarà possibile introdurre elementi nuovi, qualora sopravvenuti rispetto al momento della proposizione della domanda.

Inoltre la Suprema Corte, nel citato grand arrêt a Sezioni Unite del 2014, sottolinea come l'art. 1453, c.c., nell'attribuire al contraente deluso la facoltà di chiedere a sua scelta l'adempimento o la risoluzione del contratto offre alla parte che, con la domanda di adempimento, abbia inizialmente portato all'attuazione del contratto sul presupposto del suo mantenimento, anche la possibilità – a fronte di un inadempimento che, nel prolungarsi del giudizio, perdura o si aggrava – di rivedere la propria scelta, e, perduti la speranza o l'interesse rispetto alla prestazione, di reagire all'inattuazione dello scambio contrattuale passando alla domanda di risoluzione per inadempimento, onde veder cancellato o rimosso l'assetto di interessi disposto con il negozio. Non è ammesso, invece, il contrario, in quanto il creditore agendo per la risoluzione del contratto ha manifestato anche al debitore la sua intenzione di non avere più interesse all'esecuzione dello stesso, per cui il debitore non si deve più tenere pronto all'esecuzione.

Osservazioni

La problematica della novità, o meno, della domanda in appello è correlata a quella della mutatio ed emendatio libelli, cioè dei limiti entro cui la originaria domanda può essere modificata prima di incidere nel divieto delle novità. Il discrimine tra le due fattispecie processuali è usualmente fissato nelle identità del bene sostanziale richieste in primo ed in secondo grado, e nelle identità dei fatti posti a base delle due domande, quella originaria e quella emendata. Occorre, quindi, identificar il petitum mediato, che deve restare immutato, potendosi mutare il petitum immediato, fermi restando i fatti già dedotti.

Nello specifico, l'art. 183 c.p.c., abilita l'attore a proporre solo le domande e le eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dalla controparte. In tal modo, la norma consente di fissare sin dall'inizio del processo le questioni controverse, evitando così la diluizione della fase di trattazione. Non v'è dubbio, poi, che l'esigenza di economia processuale abbia militato in favore del rafforzamento della necessità di definire la materia del contendere nell'udienza di trattazione; il che è avvenuto, soprattutto, con la riforma del 2005. Sotto questo profilo, il secondo comma dell'art. 1453 c.c., consentendo il passaggio dalla domanda di adempimento a quella di risoluzione, costituisce una deroga alle norme processuali che precludono il mutamento della domanda nel corso del giudizio e la proposizione di domande nuove in appello. La norma, infatti, permette alla parte che ha invocato la condanna dell'altra ad adempiere di rivedere la propria scelta, sostituendo a tale pretesa quella di risoluzione. In altri termini, a fronte di un inadempimento che, nel prolungarsi del giudizio, perdura e si aggrava, l'art. 1453 offre alla parte – che con la domanda di adempimento abbia inizialmente puntato all'attuazione del contratto sul presupposto del suo mantenimento – la possibilità di reagire all'inattuazione dello scambio contrattuale passando alla domanda di risoluzione per inadempimento, onde veder cancellato e rimosso l'assetto di interessi disposto con il negozio.

Tutto ciò trova un giustificazione, sul piano pratico, nel ruolo assegnato dal diritto sostanziale alle tutele dell'adempimento e della risoluzione; il che rende la deroga posta dall'art. 1453, secondo comma, c.c. in linea con il canone dell'economia processuale, rammentato in precedenza. La disposizione evita, infatti, l'instaurazione di un nuovo giudizio volto alla risoluzione, la cui richiesta segue, per lo più, l'infruttuosità dell'azione di adempimento. Inoltre, lo ius variandi si giustifica con il fatto che le due azioni, quella di adempimento e quella di risoluzione, pur avendo un diverso oggetto, conducono a risultati coordinati e convergenti dal punto di vista dello scopo. Nei contratti con prestazioni corrispettive, i due rimedi in parola – pur presentando diversità di petitum – mirano a realizzare lo stesso interesse del creditore insoddisfatto, consistente nell'evitare il pregiudizio derivante dall'inadempimento della controparte. E lo testimonia, del resto, il fatto che la proposizione dell'azione di adempimento ha effetto interruttivo della prescrizione anche con riferimento al diritto di chiedere la risoluzione del contratto, il quale potrà essere esercitato fino a quando il termine prescrizionale non sarà nuovamente decorso per intero.

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