Argomenti di prova e libero convincimento del giudice

31 Luglio 2017

In una immaginaria gerarchia delle prove civili, gli argomenti di prova si collocano formalmente all'ultimo posto, avendo un valore di semplice completamento ed interpretazione del materiale probatorio altrimenti raccolto nel processo. Il principio del libero convincimento del giudice attenuato (stante il limite delle c.d. prove legali) e l'atipicità delle prove hanno tuttavia attribuito agli argomenti di prova un valore ben più importante di quello riconosciuto da alcune specifiche disposizioni del c.p.c..
Il problema della prova

La norma fondamentale in tema di prova può essere rinvenuta nell'art. 2697 c.c., secondo cui «chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento», ed ancora «chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda». Del pari, il problema della prova (che le parti devono fornire) costituisce uno dei momenti fondamentali della decisione ed un vincolo tendenziale per il giudice che, in forza dell'art. 115 c.p.c., «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita».

La prova costituisce, quindi, innanzitutto un onere per le parti, la cui corretta individuazione può spesso portare alla vittoria od alla sconfitta nella lite. Si pensi, tanto per fare un esempio immediato, alle conseguenze determinate sul piano della distribuzione dell'onere probatorio dalla nota Cass. Sez. Un. 31 ottobre 2001, n. 13533, secondo cui «in tema di prova dell'inadempimento (o dell'inesatto adempimento) di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione del contratto, per il risarcimento ovvero per l'adempimento deve provare esclusivamente la fonte del suo diritto ed il termine di scadenza dell'obbligazione, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre grava sul debitore convenuto l'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto (esatto) adempimento». Tale statuizione, nel ridefinire l'ambito dei fatti costitutivi oggetto di prova da parte dell'attore nelle azioni relative alla responsabilità contrattuale, oltre ad approfondire il solco concettuale con le azioni di responsabilità extracontrattuale ed attenuare (se non escludere nella giurisprudenza successiva) la stessa distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, ha dal punto di vista pratico segnato un ritorno impetuoso del contratto nelle aule giudiziarie. La contrattualizzazione dei rapporti (anche nelle forme dei doveri di protezione a favore di terzi o del contatto sociale) rappresenta infatti il miglior modo per assicurarsi una benevola ripartizione dell'onere probatorio in giudizio, ed una ancor più favorevole valutazione dei casi di insufficienza probatoria, per i rischi che ciò può comportare proprio a carico del convenuto, tenuto a fornire la prova “liberatoria” ex art. 1218 c.c.

Responsabilità contrattuale

Responsabilità contrattuale

Chi agisce in giudizio deve provare:

  • L'esistenza del vincolo contrattuale;
  • L'esigibilità della prestazione (o scadenza del termine)

Spetta al convenuto provare di aver adempiuto correttamente

Chi agisce in giudizio deve provare:

  • Il fatto
  • Il danno
  • Il nesso causale fra i due
  • Generalmente anche la colpa del danneggiante

Il riparto astratto dell'onere probatorio è stato, tuttavia, profondamente inciso in concreto da due orientamenti giurisprudenziali, via via stratificatisi, ed uno dei quali addirittura sussunto dal legislatore quale archetipo normativo della valutazione giudiziale (cfr. art. 115 c.p.c. cit.):

a) il principio di “vicinanza della prova”;

b) il principio di non contestazione.

Sia pure in sintesi, vicinanza della prova sta a significare che l'onere della prova di circostanze ricadenti nella sfera d'azione di una sola delle parti in causa dev'essere assolto da quella medesima parte, rischiando altrimenti di rimanere irragionevolmente menomato il diritto costituzionale di azione o di difesa in giudizio dell'altra (cfr. Cass. Sez. Un. 6 maggio 2015, n. 9100). Tale principio non ha tuttavia un'applicazione generalizzata, nel senso che esso tende soprattutto ad essere impiegato per colmare in casi concreti taluni vuoti probatori, impedendo che gli stessi conducano a risultati inaccettabili, ma non al fine di premiare attori improvvidi (ad es. il principio non risulta mai applicato alle azioni di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c.c.). Le sezioni unite della Cassazione evidenziano in motivazione che il criterio teorico-pratico di applicazione del principio di vicinanza della prova sta nel rapporto empirico «tra normalità ed anormalità, tra regola ed eccezione”, non già in un assetto formale di stampo legale. Con il che questo principio finisce per avvicinarsi moltissimo allo stesso concetto di argomento di prova, nel senso di non costituire direttamente una fonte di prova ma di offrire un criterio per la valutazione delle prove altrimenti fornite in un certo giudizio, sia pure sul versante squisitamente processuale dell'onere con cui le parti stesse, in ragione della vicinanza e dominabilità dei fatti da dimostrare, hanno la possibilità (e quindi l'onere) di offrirne prova.

In termini ancor più concisi, vista la finalità di queste pagine, il principio di non contestazione (ricollegato dapprima all'art. 416, comma 3, poi all'art. 167, comma 1, c.p.c. e infine sancito dall'art. 115, comma 1, come modificato dalla L. n. 69/2009) mira a selezionare i fatti pacifici ed a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l'esigenza dell'istruzione probatoria (c.d. relevatio ab onere probandi); mira altresì ad escludere, all'atto della decisione, l'applicabilità della regola di giudizio di cui all'art. 2697 c.c., nei casi in cui il fatto costitutivo della domanda, benchè non provato, sia da ritenersi pacifico perché non specificamente contestato. Secondo i giudici di legittimità tale meccanismo si collega al principio dispositivo, nel senso che oltre ad operare esclusivamente rispetto a diritti disponibili dalle parti, si collega unicamente ai fatti rispetto ai quali la loro prova pure rientri nella disponibilità delle parti stesse (cfr. Cass. 20 ottobre 2015, n. 21176, che esclude l'operatività di tale principio rispetto alla legittimazione attiva e passiva).

Atipicità della prova e libero convincimento del giudice

Il problema dell'onere della prova ha un immediato riflesso “attivo” per le parti di ogni giudizio civile. Se è vero, infatti, che l'istruttoria mira all'accertamento della realtà dei fatti significativi rispetto alla disciplina giuridica applicabile ad una certa fattispecie, appare evidente come la deduzione dei fatti non possa non accompagnarsi ad un vero e proprio diritto di fornirne la prova, diritto che a sua volta si riconnette al disposto dell'art. 24 Cost. che conferisce rilievo costituzionale ai diritti di azione e difesa in giudizio. Solo nella misura in cui tale pretesa abbia modo di esplicarsi pienamente, sì che la verità processuale abbia la possibilità di coincidere il più possibile con la realtà storica di quegli stessi fatti, allora può dirsi altresì realizzato il principio del “giusto processo” di cui all'art. 111 Cost..

Il concetto di prova è quindi ambivalente. Da un lato esso indica l'esito della verifica di verità dei fatti allegati dalle parti, il c.d. probatum su cui il giudice deve fondare la propria decisione. Dall'altro, invece, esso allude alle fonti o mezzi di prova, cioè i singoli mezzi processuali previsti dall'ordinamento per verificare le affermazioni controverse delle parti, con cui si realizza altresì la conoscenza di un certo fatto storico.

Da questo secondo punto di vista, che è quello che soprattutto interessa in questa sede, è possibile introdurre una bipartizione fondamentale. Si può infatti distinguere in primo luogo fra prove costituite e prove costituende: le prime non necessitano di un'attività processuale di formazione, ma possono essere semplicemente acquisite al processo mediante la loro produzione (fondamentalmente i documenti), mentre le seconde necessitano di un vaglio giudiziale di ammissibilità e rilevanza e vengono definitivamente acquisite al processo soltanto all'esito di ben specifici subprocedimenti destinati al loro espletamento in sede giudiziale (es. testimonianza, interrogatorio formale, giuramento…).

Dal punto di vista del risultato di ciascun mezzo di prova, invece, nonché dell'efficacia e attendibilità del risultato probatorio ottenuto, il nostro ordinamento introduce un principio di libero convincimento del giudice attenuato. Tale principio sta a significare che il giudice è libero di fornire una propria interpretazione del materiale probatorio ritualmente acquisito al processo, dando rilevanza ad alcuni mezzi di prova piuttosto che ad altri, al fine di fondare il proprio giudizio di verità o meno dei fatti affermati. Attenuato, tuttavia, perché l'ordinamento prevede alcune tipologie di prove che, per la loro capacità persuasiva, hanno un valore predeterminato e non modificabile dal giudice.

L'art. 116 c.p.c. afferma, infatti, che «il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti». Sulla scorta di tale affermazione è possibile tradizionalmente operare una vera e propria gerarchia delle prove che, fondandosi sul rilievo che le stesse hanno per il convincimento del giudice, vede al vertice le c.d. prove legali, al secondo posto le prove liberamente valutabili, quindi le presunzioni ed al gradino più basso, gli argomenti di prova.

Sono definite prove legali quei mezzi di prova di cui è il legislatore ad operare ex ante ed una volta per tutte la valutazione, definendone in modo vincolante sia per le parti che per il giudice il risultato probatorio. Alla base di tale predeterminazione stanno alcune presunzioni generali non scritte che l'ordinamento, pur nel suo mutevole conformarsi ed adattarsi alla realtà sociale, economica e giudiziaria, recepisce in senso assoluto conferendo un maggior grado di attendibilità, vincolante ed obbligatorio, ad alcuni mezzi di prova rispetto ad altri (es. confessione, atto pubblico e scrittura privata non contestata o verificata). All'opposto si collocano le prove orali e la testimonianza in particolare, prova liberamente valutabile per eccellenza, così come le presunzioni semplici, ex art. 2729 c.c..

Da notare che la formulazione dell'art. 116 c.p.c. assegna al catalogo delle prove legali il carattere del numero chiuso, insuscettibile cioè di estensione analogica a casi diversi, dovendo infatti ritenersi tutt'ora convincente il rapporto fra eccezione (prova legale) e regola generale (prove liberamente apprezzabili).

Al livello più basso di questa immaginaria scala gerarchica si collocano gli argomenti di prova, definiti dall'art. 116 c.p.c. come le conseguenze di ordine probatorio che il giudice può trarre da alcuni eventi processuali specifici (risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio libero, rifiuto ingiustificato a sottoporsi ad ispezione, mancata risposta all'interrogatorio formale ex art. 232 c.p.c., le dichiarazioni rese al CTU ex art. 200 c.p.c., le prove raccolte in un processo estinto ex art. 310 c.p.c.) o più genericamente dal contegno processuale tenuto dalle parti. Vi sono, quindi, argomenti di prova tipici, cioè previsti espressamente quale risultato di un certo accadimento, generalmente processuale, ed atipici, che il giudice è libero, in forza del proprio libero convincimento, dal più ampio materiale istruttorio e processuale comunque agli atti del processo. Può anzi ritenersi che l'argomento di prova, e comunque la prova indiziaria, rappresentino il portato più evidente del più generale principio di atipicità delle prove civili. Una plastica applicazione di tale principio si trova in Trib. Reggio Emilia, 23 maggio 2013, est. Morlini, secondo cui «nell'ordinamento civilistico manca una norma generale, quale quella prevista dall'art. 189 c.p.p. nel processo penale, che legittima espressamente l'ammissibilità delle prove non disciplinate dalla legge. Tuttavia, l'assenza di una norma di chiusura nel senso dell'indicazione del numerus clausus delle prove, l'oggettiva estensibilità contenutistica del concetto di produzione documentale, l'affermazione del diritto alla prova ed il correlativo principio del libero convincimento del Giudice, inducono le ormai da anni consolidate ed unanimi dottrina e giurisprudenza, ad escludere che l'elencazione delle prove nel processo civile sia tassativa, ed a ritenere quindi ammissibili le prove atipiche, con efficacia probatoria comunemente indicata come relativa a presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. od argomenti di prova». In argomento, da ultimo Cass. Sez. Un. 2 dicembre 2016, n. 24647, secondo cui «la prova formata in un processo diverso (nella specie, da quello disciplinare), acquisisce il rango di prova cosiddetta atipica, e la sua ammissibilità, salva ed in pregiudicata l'applicazione di regole speciali ed espresse sull'utilizzabilità, dipende solo dalle regole sul contraddittorio dettate per il processo in cui la si vuole introdurre».

Gli argomenti di prova ed il valore dell'unico argomento “circostanziato”

Si è detto che l'argomento di prova non riguarda direttamente i fatti controversi ma le altre prove (diverse da quelle legali) comunque acquisite al processo, confermandone l'attendibilità o la verosimiglianza oppure infirmandola o ancora, nei casi più gravi, escludendola. Dal punto di vista concettuale, quindi, l'argomento di prova non dovrebbe mai fondare da solo il convincimento del giudice, né dovrebbe utilizzarsi come base di un ragionamento presuntivo (pena una inammissibile praesumptio de praesumpto), con l'ulteriore corollario della mancanza di autosufficienza a fini decisori. Ma in concreto la giurisprudenza da tempo ha finito con l'avvicinare l'argomento di prova alla prova indiziaria, ritenendo che quando sia grave, specifico e non contraddetto da altri elementi probatori possa, anche da solo, costituire il fondamento della decisione del giudice.

Dal punto di vista concettuale sia l'argomento di prova che la prova indiziaria o presuntiva richiedono un ragionamento esterno di validazione (una massima di esperienza, una legge scientifica o di natura, ecc..), tale da far acquisire valore probatorio alla circostanza che ne costituisce oggetto. Inoltre, proprio per la loro incompletezza o per il fatto di ricadere su fatti secondari da cui è possibile risalire all'esistenza di fatti principali o costitutivi, entrambi non potrebbero da soli fondare la decisione del giudice. In realtà, come accennato, l'esperienza giudiziaria ha via via consentito all'argomento di prova, così come alla presunzione, di fondare – naturalmente in contesti sostanziali e processuali ben precisi – la decisione anche ove la stessa sia, appunto, basata soltanto su di un unico argomento o indizio solitario, ove esso risulti particolarmente rappresentativo ed attendibile.

Così ad es. per la dichiarazione che l'investitore rende in ordine alla propria competenza ed esperienza finanziaria: non si tratta di una confessione, in quanto l'affermazione scritta non verte su un fatto ma su di una (auto)valutazione, eppure la giurisprudenza ormai prevalente ritiene che, se non specificamente contestata, la stessa possa costituire argomento di prova anche da solo sufficiente a qualificare l'investitore come operatore qualificato (cfr. Trib. Milano, 2 gennaio 2015; App. Bologna, 16 dicembre 2014; Trib. Trieste, 17 marzo 2014; Cass. 26 maggio 2009 n. 12138).

Altri casi non mancano, in cui l'argomento di prova “solitario” è stato comunque valorizzato a fini probatori. Ad es. in tema di liquidazione del danno morale conseguente alla lesione dell'onore e della reputazione, cfr. Cass. 16 luglio 2002, n. 10268, secondo cui «il comportamento processuale della parte può non solo orientare la valutazione del risultato di altri procedimenti probatori, ma anche da solo somministrare la prova dei fatti»; in precedenza anche Cass. 6 luglio 1998, n. 6568; Cass. 1 aprile 1995, n. 3822; Cass. 5 gennaio 1995, n. 193; Cass. 14 settembre 1993, n. 9514; Cass. 13 luglio 1991, n. 7800; Cass. 25 giugno 1985, n. 3800.

I singoli argomenti di prova: il comportamento extra-processuale e la contumacia in particolare

Gli esempi di argomenti di prova offerti dal codice sono molteplici:

  • Risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio libero (art. 116 c.p.c.);
  • Rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad ispezione (art. 116 e 118 c.p.c.);
  • Mancata risposta all'interrogatorio formale (art. 232 c.p.c.);
  • Le dichiarazioni delle parti fatte al CTU e riportate nella sua relazione tecnica (art. 200 c.p.c.);
  • Le prove raccolte nel processo estinto (art. 310 c.p.c.);
  • La mancata partecipazione ingiustificata alla prima udienza nel processo del lavoro o l'ingiustificato rifiuto della proposta transattiva o conciliativa (art. 420 c.p.c.);
  • Il principio di prova scritta (art. 2724 c.c.);
  • Il contegno processuale delle parti (norma di chiusura contenuta nell'art. 116 comma 2 c.p.c.).

Tali esempi trovano ampia applicazione nella prassi giurisprudenziale, nel quadro del principio di atipicità della prova e del libero convincimento del giudice di cui si è parlato. I casi di ricorso all'argomento di prova sono, inoltre, oggetto di una “spinta espansiva” a fattispecie non tipizzate, ma comunque rientranti in una più generale valorizzazione del contegno processuale delle parti (si pensi ad es. alla prova raccolta in altro giudizio).

Recentemente si è posto il problema del valore probatorio del comportamento extra-processuale delle parti, che letteralmente fuoriesce dell'ambito applicativo della norma di cui all'art. 116 comma 2 c.p.c. Una risposta positiva è tuttavia possibile fornire, valorizzando l'art. 8 comma 4-bis, D.Lgs. 28/2010 sulla c.d. media-conciliazione (che riproduce il precedente comma 5 dichiarato incostituzionale per eccesso di delega da C. Cost. n. 272/2012), secondo cui «dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile». In altri termini il contegno si pone sì fuori dal processo, ma in tanto rileva a livello probatorio in quanto esso venga comunque documentato ed entri, per così dire, nel giudizio (ad es. produzione del verbale del mediatore in cui si dà atto senza alcuna giustificazione della mancata partecipazione al procedimento della parte interessata). La prova atipica così introdotta potrà assumere l'efficacia di argomento di prova.

Valorizzano la mancata partecipazione ingiustificata al procedimento di mediazione, seppure nel più ampio quadro probatorio realizzatosi nel successivo giudizio, Trib. Roma, 28 novembre 2016 e 29 maggio 2017. Da notare anche Trib. Roma, 17 marzo 2014, che ha utilizzato una consulenza tecnica esperita nel procedimento di mediazione come prova atipica utilizzabile nel successivo giudizio.

La contumacia del convenuto non è invece mai di per sé valorizzabile a livello probatorio, neppure quale argomento di prova, almeno allo stato attuale della normazione: sul punto Trib. Siena, 17 luglio 2015, n. 850, secondo cui in materia di procedimento civile, all'istituto della contumacia non è attribuito alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall'onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell'art. 116, comma 1, c.p.c., per trarne argomenti di prova in danno del contumace né, tantomeno, la stessa può assurgere a fonte di responsabilità extracontrattuale - se considerata all'esterno del giudizio - per il convenuto, nel caso in cui quest'ultimo non si sia costituito in vari processi intentati nei suoi confronti, visto anche il principio di disponibilità della tutela giurisdizionale, secondo il quale la partecipazione attiva al processo è un onere e non un obbligo della parte interessata»; nello stesso senso Cass. 21 novembre 2014, n. 24885; parzialmente difforme Trib. Bari, 13 marzo 2014, ma in un caso in cui a ben vedere il contumace non era comparso a rendere l'interrogatorio formale (ed in quel caso, quindi, l'inerzia può assumere un valore ben più pregnante ex art. 232 c.p.c.).

Segue: nella prassi applicativa giurisprudenziale

1. Risposte date nel corso dell'interrogatorio libero

L' interrogatorio libero può, ai sensi dell'art. 117 c.p.c., essere disposto dal giudice in qualunque stato e grado del processo per interrogare senza particolari formalità le parti, in contraddittorio tra loro, sui fatti di causa. Ancora, il co. 9 dell'art. 183 c.p.c. ribadisce quella che già deve ritenersi una facoltà più generale del giudice: «con l'ordinanza che ammette le prove il giudice può in ogni caso disporre, qualora lo ritenga utile, il libero interrogatorio delle parti».

Qual è il valore probatorio che è possibile ricollegare alle risposte date dalle parti nel corso dell'interrogatorio libero?

In via di prima approssimazione si può sostenere che tali risposte non potranno mai avere –alla luce dell'art. 229 c.p.c. – il valore di piena prova legale che si connette alla confessione giudiziale, ex art. 2733 co. 2 c.c. Ma tali affermazioni neppure possono considerarsi irrilevanti. Quindi, la “zona grigia” nella quale anche le risposte date dalle parti si vanno a collocare deve ritenersi quella degli argomenti di prova che, come detto, in linea di principio non hanno il valore di prova piena, ma si ricollegano al restante materiale probatorio processuale per formare il libero convincimento del giudice. Cfr. ad es. Cass. sez. lav. 19 maggio 2017, n. 12712: «l'interrogatorio libero delle parti, previsto dall'art. 420 c.p.c. per il rito del lavoro, non costituisce un mezzo di prova e le dichiarazioni rese in detto interrogatorio costituiscono solo argomenti di prova, ossia elementi sussidiari al libero convincimento del giudice».

Tuttavia, come già avvertito, la giurisprudenza ha riconosciuto via via l'autosufficienza di questo particolare argomento di prova, per la particolare gravità e persuasività che possono avere le ammissioni spontanee della parte nel corso dell'interrogatorio non formale: «in tema di valutazione della prova, le dichiarazioni rese dalle parti in sede di interrogatorio non formale, pur se prive di alcun valore confessorio, in quanto detto mezzo è diretto semplicemente a chiarire i termini della controversia, ben possono costituire il fondamento del convincimento del giudice di merito, al quale è riservata la valutazione, non censurabile in sede di legittimità, se congruamente e ragionevolmente motivata, della loro concludenza e attendibilità» (Cass. civ., 29 dicembre 2014, n. 27407).

Conclusione ulteriormente ribadita nel rito del lavoro: «la natura giuridica non confessoria dell'interrogatorio libero non incide sulla sua libera valutazione da parte del giudice, che può legittimamente trarre dalle dichiarazioni rese dalla parte in tale sede un convincimento contrario all'interesse della medesima ed utilizzare tali dichiarazioni quale unica fonte di prova» (Cass. 1 ottobre 2014, n. 20736).

Va altresì ricordato un orientamento che ritiene che laddove le dichiarazioni rese dalla parte nel corso dell'interrogatorio libero siano del tutto spontanee, ossia non provocate da una domanda diretta del giudice, allora le stesse possono attraverso la sottoscrizione del relativo verbale acquisire il valore di confessione giudiziale vera e propria (Cass. 16 maggio 2006, n. 11403; in precedenza Cass. 7 gennaio 1983, n. 122).

Va ancora aggiunto che quanto si è appena osservato riguarda, evidentemente, le dichiarazioni contra se della parte, mentre di fatto nessun valore probatorio hanno le dichiarazioni che la parte stessa rende a proprio favore in assenza di qualunque obbligo di veridicità nel nostro ordinamento.

2. Il valore delle autocertificazioni

Connesso a quest'ultima affermazione è la questione del valore delle autocertificazioni nel processo civile (ad es. dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà rese a P.A. circa il possesso di determinati requisiti, status, ecc..). Al riguardo un orientamento costante del Suprema Corte esclude che tali dichiarazioni possano assumere un valore probatorio favorevole alla parte che le ha rese, neppure come indizio od argomento di prova: “l'autocertificazione, prevista dall'art. 46 d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, può essere idonea, ad attestare, sotto la propria responsabilità, fatti a se favorevoli esclusivamente nel rapporto con una P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, ma nessun valore probatorio, neanche indiziario, può esserle riconosciuto nell'ambito del giudizio civile, in quanto caratterizzato dal principio dell'onere della prova, tenuto conto che la parte non può derivare da proprie dichiarazioni elementi di prova a proprio favore e che solo la non contestazione o l'ammissione di controparte possono esonerare dallo onus probandi” (Cass. sez. lav., 23 luglio 2010, n. 17358; in precedenza, in termini ancora più generali, con riguardo a dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà prevista dall'art. 4 l. 4 gennaio 1968 n. 15, Cass. 30 gennaio 2006, n. 1849).

3. Mancata risposta all'interrogatorio formale

L'art. 232 c.p.c. – discostandosi dalla scelta compiuta dal previgente codice del 1865 all'art. 218 – non equipara la mancata risposta della parte all'interrogatorio ad una vera e propria ficta confessio. Si afferma, invece, che se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza un giustificato motivo allora il giudice, valutato ogni altro elemento di prova, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell'interrogatorio stesso.

La norma pone la conseguenza probatoria della mancata risposta non sul piano della confessione giudiziale – che come noto ha valore di prova legale – bensì sul piano degli argomenti di prova che, quantunque seri, possono essere liberamente apprezzati e valorizzati in relazione ad un più ampio contesto probatorio e processuale.

Si ritiene, pertanto, che il giudice resti discrezionalmente libero di trarre conseguenze probatorie sfavorevoli per la parte che non si è presentata o non ha risposto senza motivazione adeguata, senza che tale valutazione sia censurabile in sede di legittimità (Cass. 19 settembre 2014, n. 19833). Aggiunge Cass. 31 marzo 2016, n. 6204, che il giudice non è neppure obbligato a render conto specificamente nella motivazione della sua valutazione ex art. 232 c.p.c., essendo in tal caso logicamente implicita nella complessiva evidenziazione della incertezza del quadro probatorio. Da notare, tuttavia, che la più recente giurisprudenza ha equiparato le risposte reticenti alla mancata risposta, consentendo perciò anche nel primo caso di trarre conseguenze probatorie sfavorevoli per la parte sottoposta all'interrogatorio formale: cfr. Cass. 31 marzo 2010, n. 7783, secondo cui “anche le dichiarazioni evasive e non attendibili rese in sede di interrogatorio formale nel processo civile sono equiparabili alla “mancata risposta” di cui all'art. 232 c.p.c.”.

4. Le dichiarazioni delle parti al CTU

La regola di giudizio, quasi di buon senso, secondo cui ben difficilmente una parte processuale rende dichiarazioni a proprio sfavore se ciò non corrisponde a verità, spiega l'interesse del codice per una valorizzazione delle stesse, anche ove non si possa parlare di confessione, quantomeno quali argomenti di prova liberamente valorizzabili dal giudice. Afferma così l'art. 200 c.p.c. che «le dichiarazioni delle parti, riportate dal consulente nella relazione, possono essere valutate dal giudice a norma dell'articolo 116, secondo comma».

Vi è qui un caso espresso in cui si riconduce il contegno della parte davanti al CTU al novero degli argomenti di prova che può spiegarsi in forza della tradizionale considerazione per cui la CTU non è un mezzo di prova né tantomeno di ricerca delle prove, bensì uno strumento di valutazione tecnica e scientifica di prova già altrimenti raccolte. Peraltro, nella misura in cui le dichiarazioni rese dalle parti al consulente tecnico d'ufficio siano da questi riportate nell'elaborato depositato nel processo, neppure può opinarsi per la loro assoluta irrilevanza probatoria: si tratta pur sempre di dichiarazioni che se sfavorevoli alla parte possono essere dal giudice liberamente apprezzate nella formazione del proprio convincimento sui fatti di causa. Conclusioni simili possono sostenersi con riferimento ad eventuali parti della relazione del CTU che esorbitino dai quesiti affidati dal giudice (Cass. 25 marzo 2004, n. 5965) o con riferimento alla consulenza espletata fra le stesse parti in altro giudizio (Cass. 5 dicembre 2008, n. 28855), valorizzandosi in questi casi il principio di atipicità della prova civile.

5. Rifiuto ingiustificato di sottoporsi ad ispezione e di dare seguito all'ordine di esibizione

Come noto, l'ispezione può essere disposta d'ufficio al fine di consentire al giudice di acquisire la cognizione di elementi che, per diverse ragioni, possono essere soltanto oggetto di osservazione e non anche di acquisizione mediante i normali mezzi di prova, ed è perciò affidata al potere discrezionale del giudice, da esercitarsi in via di eccezionalità (Cass. 16 aprile 1997, n. 3260). A tale natura eccezionale si ricollega il problema dell'eventuale risultato probatorio che deriva dall'ingiustificato rifiuto della parte o del terzo a sottoporsi all'ispezione disposta dal giudice. Tale problematica presuppone, evidentemente, la constatazione della incoercibilità dell'ordine giudiziale.

Per la parte le conseguenze sono espressamente ricondotte dall'art. 118 comma 2 al valore degli argomenti di prova (l'ingiustificato rifiuto della parte a sottoporsi all'ispezione è cioè liberamente apprezzabile come argomento di prova sfavorevole alla stessa, pur se si precisa che vi è una facoltà e non l'obbligo per il giudice di tener in considerazione il rifiuto a fini decisori: cfr. Cass. 3 agosto 1966, n. 2160;più recentemente in tema di ispezione circa l'autenticità di un prezioso modello di autovettura, cfr. Trib. Modena, 8 febbraio 2011; ampia infine è la casistica circa il rifiuto di sottoporsi a prove ematologiche e biologiche in tema di accertamento della paternità naturale: da ultimo cfr. Cass. 23 febbraio 2016, n. 3479).

Se invece è il terzo a sottrarsi all'ispezione lo stesso può unicamente essere destinatario di una sanzione pecuniaria. In altri termini, l'ordine è incoercibile ed in caso di rifiuto del terzo non vi possono essere conseguenze sul piano probatorio per le parti processuali; tuttavia il codice si propone di scongiurare in modo indiretto eventuali rifiuti non giustificati (ad esempio non dovuti a ragionevoli e tutelabili esigenze di riservatezza), prevedendo una sorta di induzione indiretta fondata sulla possibilità di applicazione di una pena pecuniaria variabile fra 250 e 1500 Euro (così elevata dalla l. 18 giugno 2009, n. 69), di fatto desueta nella prassi giudiziaria.

Stesse conclusioni valgono per il rifiuto di dare seguito all'ordine di esibizione, ex art. 210 c.p.c., che se riguarda la parte può dare luogo ad un comportamento liberamente apprezzabile come argomento di prova (così la recente Cass. 27 gennaio 2017, n. 2148, da cui la conseguenza che tale comportamento può anche essere ignorato dal giudice a fini decisori, senza obbligo di motivazione espressa).

6. Prove raccolte nel processo estinto e prove raccolte in altro processo

Secondo l'art. 310 comma 3 c.p.c., in deroga al principio per cui l'estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti, le prove raccolte restano comunque apprezzabili dal giudice (di un diverso giudizio fra le stesse parti) ai sensi dell'art. 116 comma 2 c.p.c..

Ovviamente la norma non allude ai documenti: trattandosi di prove precostituite i documenti debbono essere prodotti nel nuovo giudizio ed in questo hanno il valore probatorio che gli è proprio. La norma parla di prove “raccolte” volendo cioè evitare una completa dispersione dell'attività probatoria costituenda svolta nel processo orami estinto: si potrà quindi nel successivo giudizio effettuare la produzione dei verbali delle prove raccolte (ad esempio prove testimoniali, interrogatorio) o della relazione scritta del CTU. I verbali prodotti non valgono né come prova documentale (posto che il supporto cartaceo rappresenta lo svolgimento di un'attività processuale), né possiedono l'efficacia della prova costituenda verbalizzata, ma appunto sono elementi di ordine probatorio rapportabili agli argomenti di prova e, quindi, liberamente apprezzabili dal giudice.

La stessa conclusione è condotta dalla prevalente giurisprudenza con riguardo alle prove raccolte in altro processo fra le stesse parti. Anche qui la produzione dei verbali o della relazione del consulente consente l'ingresso nel nuovo giudizio di elementi liberamente utilizzabili come argomenti di prova, avendo perduto la prova raccolta nel diverso giudizio la portata che era sua propria (ad es. la prova testimoniale richiede lo svolgimento del contraddittorio ed un vaglio di ammissibilità e rilevanza che mancano nel diverso giudizio, nel quale si assiste alla semplice produzione di un documento atipico che ne “ricorda” l'avvenuto svolgimento ed esito). Sul punto cfr. ad es. Trib. Bari, 23 giugno 2016, n. 3471 in tema di utilizzo in sede civile di atti istruttori del procedimento penale, nonché la già citata Trib. Reggio Emilia, 23 maggio 2013; in precedenza Cass. sez. lav., 5 dicembre 2008, n. 28855 e Cass. 19 settembre 2000, n. 12422.

7. Partecipazione della parte alla prima udienza nel processo del lavoro

Nel rito del lavoro, ispirato a principi di concentrazione processuale ed oralità delle forme, il codice si preoccupa di favorire l'effettiva partecipazione delle parti disponendo che la loro ingiustificata omessa partecipazione personale può essere valutata dal giudice “ai fini del giudizio”, con una espressione che sembra rimandare al più generale concetto di argomento di prova.

All'assenza priva di giustificazione, il legislatore più recente ha equiparato il rifiuto ingiustificato della proposta transattiva o conciliativa del giudice (art. 410 comma 1 così come modificato prima dall'art. 31, l. 4 novembre 2010, n. 183, quindi dall'art. 77 del D.L. 21 giugno 2013, n. 69). In tal modo si è prevista una conseguenza probatoria che rispetto al giudizio ordinario ed in relazione all'art. 185-bis c.p.c. può essere unicamente ricavata dal più generale disposto dell'art. 116 co. 2 c.p.c.

Comune ad entrambe le fattispecie, invece, la possibilità di valorizzare il rifiuto ingiustificato ad accettare la proposta transattiva in punto di spese processuali successive (cfr. art. 91 comma 1 c.p.c.).

8. Principio di prova scritta

L'art. 2724 c.c. introduce una eccezione ai divieti di prova testimoniale quando vi sia un principio di prova scritta: si tratta di un qualunque scritto proveniente dalla persona contro cui è diretta la domanda giudiziale o dal suo rappresentante che faccia apparire verosimile il fatto allegato sul quale è invocata la prova testimoniale.

Il principio di prova scritta è un concetto che implica, come reso evidente dalla terminologia impiegata, un valore probatorio inferiore alla piena prova del fatto: si tratta di una prova di verosimiglianza o, meglio, di una semiplena probatio di esclusivo rilievo processuale. La presenza del principio di prova scritta serve, cioè, a superare gli ordinari limiti di ammissibilità della prova testimoniale, ma ha un valore probatorio insufficiente se non confermato in sede di escussione della testimonianza. Da questo punto di vista, pertanto, può utilmente ricondursi alla categoria degli argomenti di prova destinati a rafforzare od inficiare il risultato probatorio di altri mezzi istruttori. Il principio di prova scritto resta un elemento liberamente apprezzabile dal giudice pur se l'effetto processuale che ne deriva appare invece doveroso: quello di rendere ammissibile “in ogni caso” la prova testimoniale sul fatto reso verosimile dallo stesso principio di prova.

9. Contegno processuale delle parti

Con opportuna norma di chiusura e vera e propria “valvola di sicurezza” del sistema, l'art. 116 c.p.c. consente al giudice di desumere argomenti di prova in relazione al generale comportamento processuale tenuto dalle parti. Trattasi di disposizione che consente una valorizzazione a fini decisori del contegno e del più generale atteggiamento difensivo tenuto dalle parti nel processo, al di là della ricorrenza dei singoli casi tipici in cui l'ordinamento vi ricollega una qualche conseguenza di ordine probatorio, conferendo in tal modo agli argomenti di prova un carattere aperto ed atipico, non limitato alle fattispecie espressamente previste dal codice.

Si discute se il comportamento valorizzabile quale argomento di prova (sul cui rilievi probatorio già si è detto) sia solo quello delle parti o anche quello dei loro difensori. Una ipotesi espressa nella quale il contegno del difensore rilevava quale argomento di prova era contenuta nel previgente art. 185 c.p.c. laddove si precisava che “la mancata conoscenza, senza giustificato motivo, dei fatti della causa da parte del procuratore è valutata ai sensi del secondo comma dell'articolo 116” ed ancora tale conseguenza era ricollegata alla ingiustificata assenza della parte od all'ingiustificata non conoscenza dei fatti di causa da parte del procuratore nel corso della prima udienza dal previgente art. 183 c.p.c. (poi modificato dal D.L. n. 35/2005, con decorrenza dal 1 marzo 2006, secondo quanto disposto dal medesimo provvedimento, a sua volta ulteriormente modificato dalla L. n. 263/2005 e dalla L. 23 febbraio 2006, n. 51). Tali disposizioni introducevano una sorta di sanzione processuale volta a rendere effettivo il tentativo di conciliazione, per sottrarsi al quale non era consentito alla parte farsi sostituire in udienza da un legale non a conoscenza dei fatti di causa o addirittura non partecipare ingiustificatamente a tale udienza.

L'abrogazione di queste ipotesi espresse, tuttavia, non esclude la possibilità di valorizzare tali comportamenti alla luce del più generale disposto dell'art. 116 c.p.c. Deve perciò ritenersi che anche dal contegno difensivo utilizzato dal difensore sia possibile trarre argomenti di prova:

“L'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito il potere discrezionale di trarre elementi di prova dal comportamento processuale delle parti (v. Cass., 5 dicembre 2011, n. 26088; Cass., 10 agosto 2006, n. 18128, e già Cass., 26 febbraio 1983, n. 1503), e il comportamento processuale - nel cui ambito rientra anche il sistema difensivo adottato dal rispettivo procuratore - delle parti può in realtà costituire non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite ma anche unica e sufficiente fonte di prova, idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito, che con riguardo a tale valutazione è censurabile nel giudizio di cassazione solo sotto il profilo della logicità della motivazione (vds. Cass., 26 giugno 2007, n. 14748). Più recentemente: “poiché la confessione, intesa nei termini di cui all'art. 2730 c.c., è atto di parte, sia essa spontanea oppure provata tramite interrogatorio formale, le dichiarazioni rese dal difensore, anche in giudizio, contenenti affermazioni relative a fatti sfavorevoli al proprio rappresentato e favorevoli all'altra parte non hanno efficacia di confessione ma costituiscono elementi di libero apprezzamento da parte del giudice di merito” (Cass. 7 maggio 2014, n. 9864).

In conclusione

Atipicità della prova civile e libero convincimento del giudice (con il limite delle c.d. prove legali) costituiscono i pilastri sui quali si è sviluppata un'ampia casistica giurisprudenziale nella quale si ricorre, a fini decisori, alla valorizzazione di argomenti di prova. Tanto non solo nei singoli e specifici casi previsti dal codice ma, attraverso il più generale rinvio al comportamento delle parti, contenuto nell'art. 116 comma 2 c.p.c., anche in ipotesi letteralmente non prese in esame, come ad es. le prove raccolte in altri procedimenti coinvolgenti le stesse parti. Va inoltre aggiunto che lo sviluppo della giurisprudenza – che al fondo ha spesso la preoccupazione in concreto di evitare automatiche ed irragionevoli applicazioni della regola dell'onere della prova – nonché alcune norme come l'art. 8 comma 4-bis, D.Lgs. 28/2010, consentono di attribuire rilevanza anche al comportamento extra processuale delle parti. Ovviamente lo stesso dovrà comunque essere documentato e fatto constatare in un successivo giudizio nel quale si controverta dello stesso diritto.

Dal punto di vista dell'efficacia dell'argomento di prova, inoltre, si assiste ad una profonda divaricazione fra teoria e pratica. La teoria, infatti, continua a parlare dell'argomento di prova come di un fenomeno dai contorni poco definibili, liberamente e discrezionalmente utilizzabile, ma soltanto con riferimento al restante materiale istruttorio acquisito al processo. La pratica, invece, ha seguito un processo di avvicinamento dell'argomento di prova alla presunzione ed ha riconosciuto che nei casi in cui lo stesso sia particolarmente “circostanziato” e non contraddetto da altri elementi istruttori, allora può anche da solo essere posto a fondamento della decisione del giudice.

In ogni caso si tratta di un fenomeno estremamente rilevante ai fini della dimostrazione dei fatti controversi e dell'esercizio del diritto alla prova, che ciascun difensore è chiamato a padroneggiare con particolare attenzione e competenza.

Guida all'approfondimento
  • CARNELUTTI, La prova civile, Napoli, 2016;
  • COMOGLIO, Le prove civili, Torino, 2010;
  • FAROLFI, Il principio di non contestazione nel processo civile, Milano, 2015;
  • GIORDANO, L'istruzione probatoria nel processo civile, Milano, 2013;
  • LEUZZI, I mezzi di prova nel processo civile; Milano, 2013;
  • MORLINI, Art. 116 c.p.c., in Commentario al Codice di procedura Civile, a cura di Paolo Cendon, Vol. II, Milano, 2012, 919-951;
  • PREVITI, Le prove civili, Padova, 2014.

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