Quando il procedimento di liquidazione degli onorari forensi si estende dal quantum all'an della prestazione

03 Maggio 2017

Oggetto del presente elaborato è la disciplina dettata dal legislatore per la liquidazione dei compensi forensi, come modificata dal d.lgs. n. 150/2011 e alla luce dei recenti sviluppi giurisprudenziali sul punto.
Inquadramento

Ai sensi dell'art. 14 del d.lgs. n. 150/2011 «le controversie previste dall'art. 28, l. 13 giugno 1942, n. 794, e l'opposizione proposta a norma dell'art. 645 c.p.c. contro il decreto ingiuntivo riguardante onorari, diritti o spese spettanti ad avvocati per prestazioni giudiziali sono regolate dal rito sommario di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo». La disciplina siffatta innova il precedente regime processuale disposto dall'art. 28, l. n. 794/1942 (il quale per le controversie aventi ad oggetto la liquidazione dei compensi forensi imponeva il rito camerale ai sensi degli artt. 737 ss. c.p.c.) e ammette un rito sommario cosiddetto “necessario” che presenta delle peculiarità rispetto al modello generale di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.. Le differenze tra i due si evincono dallo stesso art. 14 del d.lg. n. 150/2001 a tenore del quale nei processi svolti secondo le forme del rito sommario necessario:

  • il tribunale decide in composizione collegiale, in eccezione rispetto alla regola codicistica, secondo la quale possono essere sottoposte alla trattazione sommaria esclusivamente le cause appartenenti alla competenza del tribunale in composizione monocratica;
  • le parti possano stare in giudizio personalmente;
  • l'ordinanza con cui si definisce il giudizio non è appellabile.

Ciò che non è mutato è l'oggetto del procedimento in esame, ossia la determinazione del quantum spettante all'avvocato per lo svolgimento delle sue prestazioni. Ma quid iuris se, a fronte della proposizione di una domanda riconvenzionale del convenuto, l'oggetto della causa dovesse estendersi all'indagine circa l'an della pretesa - e cioè circa l'effettiva esistenza del credito?

Prima della riforma del 2011 l'orientamento giurisprudenziale maggioritario propendeva, a fronte dell'estensione dell'ambito oggettivo della controversia, per il passaggio dal rito camerale al rito ordinario in virtù dell'emanazione di un provvedimento di mutamento di rito, in vista di un accertamento più approfondito rispetto al quale la celerità del procedimento camerale sarebbe risultata inadeguata.

Intervenuto il d.lgs. n. 150/2011, a detta di alcuni tale soluzione ermeneutica non sarebbe più sostenibile alla luce dell'art. 3, comma 1, d.lg. n. 150 da cui deriva l'inapplicabilità, per i procedimenti assoggettati al rito sommario “necessario”, dell'art. 702-ter, comma 3, c.p.c. (che appunto consente il passaggio dal rito sommario al rito ordinario a fronte della valutazione giudiziale circa la maggiore complessità della controversia).

Dunque nel caso in esame l'unica strada percorribile resterebbe quella di una chiusura in rito del processo con una pronuncia di inammissibilità della domanda (che eventualmente andrebbe riproposta nelle forme del rito ordinario); a sostegno di ciò un ulteriore argomento, di carattere letterale, è stato rinvenuto nell'art. 4 d.lgs. n. 150/2011 il quale ammette sì la conversione di rito ma esclusivamente nelle ipotesi in cui si sia verificato un errore ab origine nell'individuazione della procedura da instaurare (e non quando invece il mutamento di rito si renda opportuno solo in corso di causa).

Tuttavia, suddetta posizione ha suscitato non poche perplessità da parte di chi paventava il rischio di una dispersione delle energie processuali quale effetto di una possibile strategia difensiva del convenuto dal carattere meramente dilatorio, configurandosi in tal modo un abuso del processo.

Brevi riflessioni critiche alla pronuncia della Sesta sezione

Con la sentenza n. 4002 del 29 febbraio 2016, la VI Sezione della Corte di Cassazione ha indicato una “terza via” ai fini della risoluzione della questione, ossia quella della prosecuzione del procedimento nelle forme del rito sommario di cognizione.

La risposta della Corte sembra chiaramente ispirata al rispetto delle esigenze di economia processuale fondanti la ratio della l. n. 69/2009, della quale il d.lgs. n. 150/2011 costituisce uno dei decreti attuativi; ed in effetti si presenta come la soluzione più aderente alla valutazione effettuata ex ante dal legislatore del 2011 che ha ritenuto le controversie in materia di liquidazione degli onorari forensi assoggettabili, sempre e comunque, al rito sommario di cognizione.

A parere delle Sesta, difatti, va ribadito l'approdo già raggiunto dalla giurisprudenza come dalla dottrina secondo cui la cognizione propria del rito sommario è piena ed esaustiva e pertanto idonea all'emissione di una pronuncia atta al passaggio in giudicato (perciò la sommarietà riguarderebbe solo la maggiore agilità della fase istruttoria); in tal senso, l'ampliamento del petitum dal quantum all'an della prestazione dell'avvocato può ben essere oggetto dell'accertamento garantito dal modello del rito sommario di cognizione. Infine, secondo la Corte, non è accoglibile un'interpretazione estensiva dell'art. 4, d.lgs. n. 150/2011 al fine di ammettere la conversione del rito da sommario in ordinario poiché così operando si aprirebbe un insanabile contrasto con l'art. 3, co.1, del suddetto decreto: costituire un'eccezione al divieto di mutamento del rito esclusivamente per le controversie aventi ad oggetto la liquidazione dei compensi forensi rappresenta una deroga irragionevole e, in quanto tale, ingiustificabile.

Tuttavia la pronuncia non sembra esente da critiche.

Muovendo proprio dal dato normativo, appare evidente che il legislatore - del 1942 come del 2011 - abbia giudicato il rito sommario di cognizione idoneo alla trattazione delle controversie in esame qualora le stesse vertano esclusivamente sulla determinazione dell'ammontare del credito vantato dal professionista, e non certo quando invece il thema decidendum si estenda fino a ricomprendere la questione circa l'esistenza effettiva di tale pretesa; quello riguardante quest'ultima è sicuramente un accertamento la cui complessità difficilmente risulterebbe compatibile con le forme più celeri e “concentrate” proprie del rito sommario di cognizione – senza contare che l'eccezionalità della deroga prevista all'art. 14 d.lgs. n. 150/2011 (circa l'inappellabilità dell'ordinanza conclusiva del rito sommario “necessario”) non potrebbe essere applicata in via estensiva all'ipotesi in esame, pena un grave difetto di tutela.

Sembra preferibile prospettare allora una diversa soluzione richiamando i principi generali in tema di connessione “forte” tra controversie (ossia fondata su un rapporto di pregiudizialità o di incompatibilità tale che, se le cause fossero giudicate separatamente, si aprirebbe la strada al rischio di contrasto tra giudicati), quale è appunto quella sussistente tra la domanda sull'an della prestazione e la domanda sul quantum, essendo l'accertamento sulla prima necessariamente pregiudiziale a quello sulla seconda.

Volgendo l'attenzione al rito sommario di cognizione come regolato dal codice di rito, emerge immediata la deroga proprio al principio generale in materia di connessione tra cause del simultaneus processus (espresso agli artt. 40, 274 e 281-nonies c.p.c. che garantiscono una decisione unica per tutte le domande): il comma terzo dell'art. 702-ter c.p.c. infatti, a fronte della proposizione da parte del convenuto di una domanda riconvenzionale che imponga, per il suo oggetto, “un'istruzione non sommaria”, opta per il diverso criterio della separazione delle domande ( il che appare del tutto coerente con lo “spirito” di detto modello processuale).

D'altra parte, la separazione potrà operare ove sia possibile, ovvero mai nei casi di inscindibilità tra domande legate da nessi di pregiudizialità “forte”: in questa ipotesi ritorna l'applicazione del principio generale del simultaneus processus che imporrà la trattazione unitaria delle domande onde prevenire il conflitto tra giudicati – rischio che nel caso di specie appare alquanto concreto.

Pertanto, il giudice adito ai sensi dell'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, in seguito alla domanda riconvenzionale del convenuto concernente l'an della prestazione, dovrà disporre la prosecuzione del giudizio nelle forme del rito ordinario ma non in virtù dell'art. 702-ter co. 3 c.p.c. (la cui applicazione è espressamente esclusa dallo stesso art. 14 d.lgs. n. 150/2011), bensì in ossequio alla regola generale contenuta nell'art. 40, comma 3, c.p.c. in materia di connessione forte tra cause soggette a riti diversi, dal momento che il nesso di inscindibilità tra la domanda principale e quella riconvenzionale impedisce l'applicazione del regime speciale disposto dal d.lgs. n. 150/2011; all'esito del giudizio così convertito verrà emanata una sentenza appellabile.

Ciò detto, non è escluso che tanto l'attore quanto il convenuto possano richiedere al giudice di proseguire, anche a fronte della proposizione della domanda riconvenzionale, con le forme del rito sommario di cognizione generale (di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.): anche in questo caso, una volta fuoriusciti dal “binario” speciale delineato dal d.lgs. n. 150/2011, si ritorna alla disciplina codicistica che contempla il potere di conversione del rito da parte del giudice qualora lo stesso ravvisi una sopravvenuta complessità della controversia tale da prediligere la trattazione unitaria delle domande con il rito ordinario. Fermo restando che quanto detto finora esula dall'ipotesi in cui il convenuto si limiti ad una mera contestazione o comunque alla sola proposizione di eccezioni relativamente alla domanda di liquidazione da parte dell'avvocato ricorrente: in questo caso, difatti, si resta all'interno di una cognizione incidenter tantum che pertanto “segue” il rito scelto dalla parte attrice.

Conclusioni

Alla luce di questa breve disamina, la sentenza n. 4002/2016 appare poco soddisfacente sotto un duplice profilo:

  • in primis quello del rispetto della lettera dell'art. 14 d.lgs. n. 150/2011, dal momento che il rito sommario “speciale” ivi disciplinato non contempla l'ipotesi in cui il thema decidendum si estenda a ricomprendere, in virtù della domanda riconvenzionale del convenuto, l'accertamento sull'an della prestazione, restando circoscritto ai casi in cui ad essere contestato sia solo il quantum da liquidare;
  • infine anche con riguardo alla compressione dei poteri discrezionali del giudice in ordine alla conversione o meno del rito da sommario in ordinario – compressione che in questo caso appare ingiustificata.

Sembra pertanto che il bilanciamento tra gli interessi in gioco – economia processuale da un lato e coerenza delle statuizioni giudiziali dall'altro – possa trovare la sua migliore composizione nell'applicazione dei principi generali del processo civile, a fronte del venir meno delle condizioni legittimanti l'applicazione della disciplina speciale: o con il “ritorno” al rito sommario generale di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c., su richiesta espressa delle parti (e quindi con la possibilità di conversione del rito ex art. 702-ter c.p.c.), o in mancanza di quest'ultima con la conversione del rito sommario cd. “necessario” in rito ordinario (non in violazione dell'art. 3 d.lgs. n. 150/2011, bensì) in virtù dell'art. 40 c.p.c., senza così ricorrere ad una chiusura in rito del processo ma al contempo scongiurando il pericolo di giudicati contrastanti.

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