La transazione,il riconoscimento del diritto e la rinuncia all’azione nel processo civile

21 Settembre 2016

Il focus offre una sintetica ricognizione degli effetti prodotti sul processo dalla sopravvenienza di atti di autocomposizione della lite (transazione) o comportanti l'abbandono della posizione difensiva originariamente assunta dalle parti (riconoscimento della fondatezza della pretesa avversaria, rinunzia all'azione).
La cessazione della materia del contendere per sopravvenuta autocomposizione della lite

La transazione, il riconoscimento della fondatezza della pretesa avversaria e la rinunzia all'azione sono atti di autocomposizione della lite idonei ad incidere significativamente sul processo ove intervengano dopo la sua introduzione.

L'individuazione degli effetti di tali eventi sulla res controversa e, quindi, sul contenuto della pronuncia che definisce il giudizio, non è, tuttavia, pacifica:

  • alcuni propongono una spiegazione della fattispecie in termini di improponibilità sopravvenuta della domanda o di inammissibilità per cessazione della materia del contendere;
  • altri ritengono che da essi derivi l'infondatezzadella pretesa, provocata dalla modificazione od estinzione della situazione soggettiva dedotta in causa.

La tesi pretoria che intravede nei negozi giuridici in esame sopravvenienze idonee a comporre il contrasto tra le parti e a giustificarela declaratoria di cessazione della materia del contendere si espone, tuttavia, al rilievo per il quale l'elisione dell'interesse alla pronunzia di merito non è un effetto necessariamente implicato dal contenuto dispositivo tipico degli atti di autocomposizione; infatti viene fatto discendere dalla contemporanea sussistenza di un accordo processuale delle parti circa il sopravvenuto reciproco disinteresse rispetto alla statuizione di merito.

Secondo la definizione offerta dalla giurisprudenza di legittimità, la cessazione della materia del contendere si configura, invero, quando nel corso del processo sopraggiunge una situazione che elimini completamente la situazione di contrasto tra le parti, così elidendo il loro interesse ad ottenere l'accertamento positivo o negativo della situazione soggettiva dedotta in causa, postulando al contempo che le parti rassegnino conclusioni conformi sul sopravvenuto venir meno dell'interesse ad ottenere una statuizione sulla res controversa (Cass. civ., sez. un., 26 luglio 2004 n. 13969; Cass. civ., 18 marzo 2005 n. 5974; Cass. civ., 22 maggio 2006 n. 11931; Cass. civ., 8 luglio 2010 n. 16150; Cass. civ., 9 giugno 2016 n. 11813).

Nell'elaborazione giurisprudenziale della cessazione della materia del contendere, l'accordo tra gli originari litiganti sulla portata risolutrice del fatto sopravvenuto costituisce, dunque, un presupposto indefettibile perché, attestando il venir meno dell'interesse ad agire, abilita il giudice ad una pronuncia di inammissibilità sopravvenuta della domanda senza contravvenire al divieto di non liquet.

Il condizionamento dell'operatività della fattispecie alla reciproca manifestazione di assenso dei litiganti ha però suscitato dubbi circa l'utilità pratica dell'istituto così ricostruito.

Sono state, pertanto, proposte diverse soluzioni interpretative, alcune delle quali attribuiscono alla pronuncia di cessazione della materia del contendere carattere processuale, altre invece vi intravedono una statuizione di merito.

Cessazione della materia del contendere: carattere processuale o statuizione di merito?

I tesi

II tesi

III tesi

Il primo orientamento (DE STEFANO) muove dal presupposto che le cause soggettive ed oggettive da cui comunemente si fa derivare la cessazione della materia del contendere sono accomunate dall'estinzione della situazione giuridica soggettiva dedotta a fondamento della domanda e, quindi, della domanda stessa: l'assenza sopravvenuta di determinati aspetti della situazione soggettiva allegata comporta l'inammissibilità della domanda per sopravvenuto venir meno del suo titolo e sulla relativa statuizione non si forma giudicato di carattere sostanziale, neanche riguardo all'accertamento del fatto sopravvenuto che ne è alla base.

Secondo altra impostazione (SASSANI) nella varietà delle situazioni sopraggiunte in corso di causa capaci di incidere sulla definizione del giudizio è, invece, necessario distinguere tra fatti idonei a provocarne l'inammissibilità sopravvenuta (si pensi alla morte dell'interdicendo o del coniuge nei giudizi di interdizione e di separazione o divorzio) e fatti costituivi, modificativi ed estintivi che, verificandosi dopo l'inizio del processo, ne modificano l'oggetto e comportano un'infondatezza sopravvenuta della domanda (come la transazione, l'adempimento, il riconoscimento, la rinunzia alla domanda), con l'ulteriore conseguenza che la pronuncia sulle spese deve in tal caso essere regolata non in base al principio della soccombenza, ma a quello di causalità.

Altra opinione (PANZAROLA) ritiene che gli eventi considerati fonte di cessazione dalla materia del contendere non determinano, per la maggior parte, una carenza sopravvenuta di interesse, ma impongono una pronuncia di rigetto, di cui quella di cessazione della materia del contendere in sostanza fa le veci, e come tale deve essere valutata sotto il profilo della formazione del giudicato, volta a garantire al convenuto la non riproponibilità della domanda fondata sugli stessi fatti.

Al di là della varietà delle soluzioni proposte, dalla sintetica ricognizione dei principali contributi sulla materia, possono trarsi i seguenti punti fermi:

a) anche nel caso di sopravvenuta autocomposizione della lite, la declaratoria di cessazione della materia del contendere costituisce una conseguenza solo indiretta dell'atto dispositivo di parte, mentre presuppone necessariamente la formulazione di conclusioni conformi sulla sua concreta idoneità a determinare l'indifferenza rispetto alla pronuncia di merito;

b) se le parti non concordano sull'attitudine del fatto sopravvenuto ad elidere l'interesse all'accertamento giudiziale del diritto in contesa, il giudice non può rilevare d'ufficio la cessazione della materia del contendere e, stante il divieto di non liquet, deve pronunciarsi sulla res controversa.

È opportuno leggere tale statuizione valorizzando l'incidenza sulla situazione soggettiva dedotta in giudizio dell'atto dispositivo sopravvenuto (transazione, riconoscimento, rinunzia) che viene di volta in volta in rilievo, avuto riguardo alla sua specifica connotazione effettuale e funzionale.

Il riconoscimento della fondatezza della pretesa avversaria

Secondo l'opinione maggioritaria, occorre circoscrivere la portata condizionante dell'accertamento giudiziale propria del riconoscimento della fondatezza della domanda avversaria al solo fatto dedotto a fondamento della stessa, essendo precluso alle parti condizionare la decisione in diritto della controversia e, in particolare, l'apprezzamento degli effetti giuridici dei fatti, riservato in via esclusiva al giudice secondo il principio iura novit curia.

L'unico profilo sul quale può effettivamente incidere il riconoscimento della fondatezza della domanda è, dunque, quello probatorio, valendo, secondo il concreto contenuto da esso assunto, come confessione o come ammissione dei fatti dedotti a fondamento della domanda o dell'eccezione avversarie.

Come confermato dalla giurisprudenza di legittimità, ove il fatto sopravvenuto si sia sostanziato nel riconoscimento della fondatezza del diritto azionato dalla controparte e, segnatamente, nel caso in cui tale ammissione riguardi fatti rilevanti per l'accoglimento della domanda, il giudice – salvo che non registri conclusioni concordi circa il sopravvenuto venir meno dell'interesse all'accertamento dell'esistenza del diritto dedotto in causa - deve, dunque, pronunciarsi nel merito, nel senso della declaratoria della fondatezza della pretesa azionata, regolando le spese in ossequio al generale principio della soccombenza (Cass. civ., 8 luglio 2010 n. 16150).

La rinunzia all'azione

La rinunzia all'azione è una species dei negozi rinunciativi, consistenti in una dichiarazione irrevocabile di volontà in forza della quale taluno dispone in senso abdicativo di una posizione di cui afferma di essere titolare.

Sulla natura giuridica di tale atto si sono registrate opinioni contrastanti, sintetizzabili in due fondamentali orientamenti che ne individuano, rispettivamente, l'oggetto nella rinunzia al diritto sostanziale fatto valere in giudizio e nell'abbandono di ogni pretesa relativa ad una determinata controversia.

Contrasto dottrinale:

natura giuridica dell'atto di rinuncia all'azione

In conseguenza delle rinunzia il diritto sostanziale si estingue e, ove la dichiarazione abdicativa intervenga nel corso del giudizio introdotto per farlo valere, tale vicenda estintiva, se viene sottoposta al giudice, non fa venir meno l'azione, ma conduce alla definizione del giudizio stesso nel merito con una pronuncia di rigetto (CHIOVENDA).

Oggetto della rinunzia all'azione è l'abbandono alla pretesa azionata in giudizio in relazione ad una determinata situazione giuridica soggettiva secondo l'assunto per il quale l'atto abdicativo non può sottendere un'implicita rinunzia al diritto sostanziale, atteso il principio secondo il quale gli atti abdicativi, in quanto comportanti l'estinzione del diritto, non possono presumersi (SASSANI).

La rinunzia ha, dunque, ad oggetto l'azione intrapresa a tutela di un diritto e, quindi, non produce alcun effetto sull'esistenza del diritto stesso.

La giurisprudenza di legittimità, da un lato, definisce la rinunzia all'azione come rinunzia al diritto sostanziale del quale è stata chiesta tutela con l'azione giudiziaria, così differenziandola dalla rinunzia agli atti del giudizio in ragione dell'immediatezza dell'efficacia; dall'altro attribuisce a tale atto abdicativo l'attitudine ad estinguere il processo senza l'accettazione della controparte e a determinare il venir meno del potere - dovere del giudice di pronunziarsi nel merito (Cass. civ., n. 1583/1981; Cass. civ., 19 maggio 1995 n. 5556;

Cass. civ., 3 agosto 1999 n. 8387

). Secondo tale ricostruzione la pronuncia ad essa conseguente non è, dunque, una decisione di merito conforme alla dichiarazione abdicativa, ma comporta una definizione in rito del processo attraverso la declaratoria di cessazione della materia del contendere (Cass. civ., 27 aprile 2000 n. 5393; Cass. civ., 3 agosto 1999 n. 8387; Cass. civ., 6 ottobre 2004 n. 19946; Cass. civ., 14 novembre 2011 n. 23749; Cass. civ., 3 agosto 1999 n. 8387; Cass. civ., 6 ottobre 2004 n. 19946), fatta salva ogni determinazionein punto di decisione sulle spese processuali, da adottarsi secondo il noto principio della soccombenza virtuale (Cass. civ., 11 gennaio 2006 n. 271; Cass. civ., 29 settembre 2006 n. 21244).

L'oggetto della disposizione abdicativa non è, dunque, il diritto sostanziale – anche perché in tal caso il provvedimento con cui viene definito il giudizio dovrebbe essere di rigetto nel merito, per sopravvenuta assenza di titolarità del diritto azionato (così Cass. civ., 10 settembre 2004 n. 18255) –, ma il diritto ad ottenere un provvedimento di merito in quanto già domandato ma non ancora concesso.

Coerente con la tesi processuale è l'affermazione per la quale in caso di rinunzia all'azione la sentenza con cui viene definito il giudizio ha ad oggetto l'accertamento dell'estinzione dell'azione (Cass. civ., 14 novembre 2011 n. 23749) e, quindi, del venir meno del potere – dovere del giudice di decidere sulla controversia (

Cass. civ., 3 agosto 1999 n.

8387

), così che in relazione alla fattispecie in esame non può che considerarsi improprio il riferimento, contenuto in alcune pronunce di legittimità, alla cessazione della materia del contendere.

La transazione

Anche con riferimento alla transazione sopraggiunta in corso di causa la giurisprudenza maggioritaria applica il consolidato principio secondo il quale la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e, concordando sull'efficacia dirimente dell'accordo transattivo, sottopongano al giudice conclusioni conformi in tal senso.

Anche in questo caso si afferma che il dissenso dei litiganti sulla portata risolutoria dell'accordo transattivo fa sorgere il dovere del giudice di decidere nel merito. (Cass. civ., 22 maggio 2006 n. 11931; Cass. civ., 24 febbraio 2015 n. 3598).

In dottrina la questione ha trovato, invece, soluzioni differenti.

Una parte degli autori (SATTA, SASSANI) riconduce la conclusione di tale contratto tra i fatti estintivi del diritto azionato di cui all' art. 2697 c.c., i quali impongono una pronuncia di merito sulla pretesa sostanziale in termini di rigetto per infondatezza sopravvenuta. In quest'ottica la sentenza che, rilevato il mancato accordo tra le parti in ordine alla portata risolutiva della transazione, accogliesse la domanda sarebbe contra ius perché riconoscerebbe un diritto estinto in conseguenza della nuova regolamentazione degli interessi posta dal negozio di autocomposizione.

Altra opinione (FERRONI), pur prendendo le mosse da tale impostazione, distingue tra la transazione semplice ex art. 1965 c.c. e la transazione novativa ex art. 1976 c.c., evidenziando come solo la prima possa essere ricondotta tra i fatti modificativi, impeditivi ed estintivi di cui all'art. 2697 c.c. perché, lungi dall'estinguere il titolo della pretesa originariamente dedotta in giudizio, concorre con esso integrandone gli effetti con le reciproche concessioni (aliquid datum aliquid retentum). La transazione novativa, invece, determinando l'estinzione del rapporto dedotto in giudizio sostituisce al relativo titolo una nuova e diversa fonte costitutiva, così facendo venir meno l'interesse ad una pronuncia giurisdizionale su di esso.

L'effetto preclusivo della transazione sopravvenuta

La valutazione dell'incidenza della transazione sull'oggetto del processonon può, tuttavia, prescindere dalla considerazione dell'effetto preclusivo che vale a connotare, sotto il profilo funzionale, tale contratto.

La transazione, sia essa semplice o novativa, non si riduce, invero,ad un negozio di secondo grado, ausiliario al rapporto originario, ad efficacia solo modificativa od estintiva.

Essa si connota per l'ulteriore - ed immancabile - elemento della composizione della controversiaper mezzo delle reciproche concessioni, tanto che, come chiarito in dottrina (DEL PRATO),in difetto di un avanzamento rispetto alle originarie posizioni di lite, la transazione non potrebbe essere distinta da un mero negozio rinnovativo.

Funzione tipica del contratto è, dunque, il superamento della lite (SANTORO PASSARELLI), ossia la soluzione concordata della controversia, a prescindere dal rapporto di equivalenza tra datum e retentum (FRANZONI), tanto che, come ritenuto dalla giurisprudenza, affinché tale contratto sia validamente concluso, è necessario, da un lato, che esso abbia ad oggetto una res dubia e, cioè, che cada su un rapporto giuridico avente, almeno nell'opinione delle parti, carattere di incertezza, e, dall'altro, che, nell'intento di far cessare la situazione di dubbio, venutasi a creare, i contraenti si facciano delle concessioni reciproche (Cass. civ, 01 aprile 2010 n. 7999).

Tale risultato è ottenuto mediante la disposizione del rapporto controverso e la creazione di una regola che sostituisce in tutto o in parte quella dalla quale è sorta la lite.

La sostituzione del regolamento avviene nei limiti del caput controversum, con la conseguenza che vecchio e nuovo regolamento coesistono e le parti non possono più discutere dell'originario rapporto dedotto in lite, nella misura in cui questo è sostituito dalla transazione.

L'effetto preclusivo (exceptio rei per transactionem finitae) è paragonabile alla portata dell'eccezione (o rilievo) di giudicato esterno, perché, impedendo – fin tanto che la transazione non venga caducata – di tornare a far valere le pretese e le contestazioni svolte sul rapporto originariamente dedotto, impedisce, al contempo, una pronuncia di merito sulle stesse.

Analogamente all'exceptio rei iudicatae, costituente applicazione del principio del ne bis in idem, l'exceptio rei per transactionem finita e ostacola, pertanto, la pronuncia di una sentenza di merito ed impone la chiusura del procedimento con statuizione di rito, dichiarativa del sopravvenuto difetto di una condizione dell'azione.

La situazione che impedisce la definizione nel merito della controversia che venga riproposta al giudice da una delle parti, nonostante la transazione invocata e documentata dall'altra, va, infatti, individuata nell'inammissibilità della domanda per sopravvenuto difetto di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., divenuto inattuale rispetto al nuovo assetto divisato con la transazione e, comunque, non più invocabile in ragione dell'effetto preclusivo prodotto dall'accordo.

L'interesse ad agire ha natura processuale, secondaria e strumentale rispetto all'interesse sostanziale primario ed ha ad oggetto il provvedimento giurisdizionale come mezzo per ottenere il soddisfacimento dell'interesse primario assunto come leso dalla controparte o dalla situazione di fatto oggettivamente esistente.

Il bisogno di una pronuncia giurisdizionale sorge con la lesione di una situazione giuridica soggettiva tutelata dall'ordinamento e quando visia contrasto tra le parti in merito all'esistenza o all'estensione della pretesa che uno dei litiganti fondi su di essa.

Poiché l'autonomia privata consente di superare contrattualmente tale conflitto prescindendo dall'effettivo accertamento del diritto in contesa ed attraverso il datum e il retentum, ove tale atto dispositivo venga posto in essere, non può residuare un interesse, nell'accezione sopra delineata, ad ottenere una verifica giudiziale delle posizioni in contrasto.

Ciò in quanto con la transazione, attraverso l'impegno, remunerato dalle reciproche concessioni, a non rimettere in contestazione il rapporto originario, viene meno la stessares litigiosa.

Se si accede a tale ricostruzione, laddove nel corso del giudizio avente ad oggetto una determinata situazione soggettiva controversa venga dedottauna transazione sopravvenuta con la quale le parti hanno già regolamentato la pretesa, la pronuncia del giudice non può che essere in rito, e, in particolare, di accertamento della sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere una sentenza di merito e ciò a prescindere dalla natura, semplice o novativa, della transazione e senza che assuma rilevanza lo svolgimento di conclusioni concordi in merito all'attitudine del contratto a dirimere il conflitto.

Tale impostazione sembra, infine, coerente con l'importante aspetto, desumibile dalla disciplina sostanziale della transazione, rappresentato dalla situazione di quiescenza del diritto che ha formato oggetto di transazione non novativa. Secondo una parte della dottrina tale diritto è, infatti, destinato a rivivere in caso di risoluzione del contratto (NICOLO').

Secondo l'opinione maggioritaria (DEL PRATO), confortata dalla Relazione al codice civile (§ 773), la risoluzione della transazione non novativa comporta, appunto, la reviviscenza dei rapporti transatti, tanto che l'art. 1976 non si spiega in altro modo se non nel senso di conservare l'esistenza di quei diritti che la transazione risolta per inadempimento era destinata a sostituire o a sopprimere (Cass. civ, 9 dicembre 1996 n. 10937; Cass. civ, n. 1238/1968; Cass. civ. n. 2974/1969; App. Caltanissetta, 11 ottobre 1999, in Dir. Fall., 2002, 31, con nota di DI GRAVIO).

Di conseguenza, in caso di risoluzione del contratto di transazione non novativa, le parti vengono a trovarsi nella precedente situazione litigiosa, potendo nuovamente riattivare, fatto salvo il maturare della prescrizione, le relative pretese e contestazioni.

Lo stato di quiescenza e la possibile sopravvivenza alla conclusione del negozio transattivo del diritto controverso sembrano porsi in contrasto con la possibilità, affermata da una parte degli interpreti, che il giudice investito della controversia al quale sia stata sottoposta in corso di causa unatransazione, emetta una pronuncia di merito rigettando la domanda per infondatezza sopravvenuta.

Il diritto come originariamente affermato deve, infatti, ritenersi ancora coesistente con il nuovo regolamento di interessi stabilito nella transazione e potrebbe rivivere nella sua primigenia fisionomia, laddove fosse caducata, ad esempio a seguito di risoluzione per inadempimento, la transazione.

Una pronuncia di rigetto nel merito, impedirebbe, altresì, la possibilità, affermata in dottrina e in giurisprudenza, che la parte faccia valere nuovamente il diritto controverso in un diverso giudizio una volta venuto meno, in forza della risoluzione, dell'annullamento o della declaratoria di nullità, l'effetto preclusivo della transazione.

Sulla scorta di tali considerazioni può, dunque, affermarsi che nel caso in cui una delle parti faccia valere in giudizio una transazione sopravvenuta e l'altra dissenta in ordine alla portata risolutoria del conflitto attribuitaal contratto - così che non ricorre l'ipotesi delle conclusioni concordi sul venir meno dell'interesse ad una pronuncia giurisdizionale, idonee a giustificare la declaratoria di cessazione della materia del contendere - il giudice non può emettere una sentenzadi rigetto della domanda per sopravvenuta infondatezza della pretesa originaria, indotta dalla modificazione od estinzione, attraverso l'accordo transattivo, del diritto controverso, ma deve dichiarare, anche d'ufficio, l'inammissibilità della domanda, come originariamente formulata, in ragione dell'effetto preclusivo scaturente dall'accordo transattivo.

La declaratoria di inammissibilità, paragonabile a quella che viene emessa in caso di eccezione di giudicato esterno, in quanto di natura processuale, non impedirebbe alle parti di introdurre un nuovo giudizio per il caso in cui il regolamento di interessi divisato con la transazione e il relativo divieto di rimettere in discussione il rapporto originario venisse caducato.

È appena il caso di evidenziare che nell'ipotesi, non infrequente nella prassi, in cui una parte produca in giudizio la transazione intervenuta dopo la sua instaurazione e la controparte ne eccepisca la nullità, la risoluzione, l'annullamento, sussiste il dovere del giudice di esaminare insieme al fatto sopravvenuto le domande e le eccezioni ad esso correlate, ove il processo si trovi ancora in fase istruttoria.

Il giudice ha, dunque, il dovere di esaminare e qualificare, atteso il contrasto tra le parti sul punto, il contratto di transazione sopravvenuto e di dichiarare, ove si acceda alla ricostruzione da ultimo esposta, l'inammissibilità della domanda anche in caso di contrasto sulla portata dell'atto di autocomposizione, ampliando, altresì, l'oggetto della propria cognizione in ragione del factum superveniens ed estendendolo alla verifica della validità e della persistente efficacia di tale convenzione sopravvenuta, nonché ai presupposti per la sua risoluzione ove tale accertamento sia richiesto e lo stato del processo lo consenta (Cass. civ., n. 5659/1984).

In conclusione

La transazione, il riconoscimento della fondatezza della pretesa avversaria e la rinunzia all'azione sono atti di autocomposizione della lite che, ove sopraggiungano a giudizio già instaurato e vengano sottoposti all'esame del giudice, possono dar luogoalla cessazione della materia del contendere solo nel caso in cui le parti concordino sulla portata risolutoria del factum superveniens. In caso di dissenso, il giudice deve decidere sulla res controversa, valorizzando, tuttavia, la concreta incidenza del negozio dispositivo sull'oggetto del processo e, quindi:

a) nel caso di sopravvenuto riconoscimento della pretesa avversaria puòaccogliere la domanda, avvalendosi dell'efficacia probatoria di tale atto;

b) nel caso di rinunzia all'azione, deve definire il giudizio in rito, dichiarando l'estinzione dell'azione come concretamente esperita dal rinunziante, e ciò a prescindere dall'adesione della controparte;

c) nel caso di transazione, secondo l'opinione maggioritaria deve decidere nel merito rigettando la domanda come originariamente proposta, sul presupposto dell'intervenuta modificazione o estinzione della situazione giuridica soggettiva che ne era alla base;

d) secondo un'altra possibile ricostruzione, dovrebbe dichiarare l'inammissibilità sopravvenuta della domanda determinata dall'effetto preclusivo tipico della transazione.

Guida all'approfondimento

CARNELUTTI, Manuale di diritto processuale civile, Padova, 1936, 178 e ss.;

CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli, 1936;

DE STEFANO, Considerazioni generali sulla cessazione della materia del contendere, in Riv. dir. proc., 1969, 36 e ss.; Id., La cessazione della materia del contendere, Milano, 1972., 1961, 568 e ss.;

DEL PRATO, Fuori dal processo: studi sulle risoluzioni negoziali delle controversie, Torino, 2016;

FERRONI, Transazione e cessazione della materia del contendere, in Giust. civ., 1985, 2025 e ss.;

FURNO, Intorno alla natura della transazione, in Riv. Dir. Comm., 1950, I, 453 e ss.;

GIORDANO, La cessazione della materia del contendere nel processo civile, in Giur. merito, 2009, f. I;

MICHELI, Rinuncia alla pretesa e riconoscimento della pretesa nella dottrina italiana, in Dir. proc., 1937, 363 e ss.;

NICOLO', Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione obbligazione, Messina, 1934;

PANZAROLA, Cessazione della materia del contendere, in Enc. del dir., Agg., Milano, 2002;

SANTORO PASSARELLI, La transazione, Napoli, 1986, 4 e ss;

SASSANI, Sull'oggetto della rinunzia all'azione, in Dir. proc., 1977, 533; Id.,Per una chiarificazione della formula “cessazione della materia del contendere”, in Temi Romana 1982, 505 e ss.;

F.SASSANI, Quando il fatto sopravvenuto non fa cessare la materia del contendere: brevi considerazioni sull'istituto e sulla natura della declaratoria, in Corriere giur., 2016, 3, 390 e ss.;

SATTA, Commentario al codice di procedura civile, II, I, Milano, 1959.

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