Compensazione delle spese, rapporti tra ente impositore e agente per la riscossione

26 Giugno 2017

La questione affrontata dalla Cassazione riguarda, una volta accertata l'illegittimità dell'azione esecutiva per fatti imputabili all'Ente impositore, se sia possibile che venga disposta la compensazione delle spese di lite in favore del concessionario, il quale agisce su richiesta dell'Amministrazione.
Massima

Nelle controversie con cui il debitore contesti l'esecuzione esattoriale, non integra ragione di esclusione della condanna alle spese di lite, né di compensazione delle stesse, nei confronti dell'agente della riscossione la circostanza che l'illegittimità dell'azione esecutiva sia da ascrivere all'ente creditore interessato.

Il caso

Tizio adiva il Tribunale di Roma, impugnando una cartella esattoriale, chiedendo di accertare e dichiarare l'illegittimità dell'azione esecutiva intrapresa nei propri confronti dal concessionario per la riscossione a tutela di un credito dell'ente locale Roma Capitale.

Il Tribunale di Roma accoglieva le censure proposte, dichiarando illegittima la pretesa dell'ente impositore, che condannava, unitamente al concessionario per la riscossione, al pagamento delle spese processuali.

Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il concessionario, deducendo la violazione degli artt. 91 e 97 c.p.c., artt. 12, 24 e 25 D.p.r. n. 602/1973, e censurando la sentenza nella parte in cui non disponeva la compensazione delle spese di lite liquidate in favore della parte esecutata e in proprio danno.

La questione

La questione in esame è la seguente: accertata l'illegittimità dell'azione esecutiva per fatti imputabili all'Ente impositore, è possibile che venga disposta la compensazione delle spese di lite in favore del concessionario, il quale agisce su richiesta dell'Amministrazione?

Le soluzioni giuridiche

Il sistema processuale attribuisce, in via generale ex art. 91 c.p.c., l'onere delle spese (Bongiorno, voce Responsabilità aggravata, in Enc. Giur. Treccani, XXVI.) di lite alla parte soccombente (La nozione di parte è intesa in senso sostanziale, nonostante via siano stati degli sporadici tentativi di ricomprendervi anche quella processuale, così teorizzando la condanna del difensore. Si veda sul punto Trib. Cagliari, 11.7.2008, n. 2247 e Ficarelli, La condanna del difensore al pagamento delle spese processuali in presenza di una valida procura alle liti: una interpretazione evolutiva dell'art. 94 c.p.c., in Giur. It., 2009, 152 ss, Cipriani, Condanna in solido del difensore per le spese del giudizio?, in Previdenza forense, 2008, 318-325), quella cui sono rigettate in tutto in parte le proprie pretese, o nei cui confronti è dichiarata una situazione giuridica altrui e contrapposta. Il principio generale viene poi temperato da compensazione delle spese giudiziali, che l'art. 92 c.p.c. costruisce come eccezione.

Illustre dottrina (elaborata nella vigenza dell'abrogato codice di rito e ancora oggi maggioritaria) vede la condanna alle spese come una conseguenza naturale ed automatica della soccombenza, senza far accompagnare tale statuizione da alcuna valutazione sullo stato psicologico della parte che aveva sostenuto le proprie difese in giudizio(Chiovenda, La condanna nelle spese giudiziali, Roma 1935; Mortara, Manuale della procedura civile, Torino, 1921, I, 499 e segg.; La China, Diritto processuale civile (Le disposizioni generali), 2° ed., Milano, 2002, 479; Luiso, Diritto processuale civile, I, 7° ed., Milano, 2013, 430).

La decisione sulle spese viene difatti definita officiosa e doverosa per il giudice, indipendentemente dalla richiesta della parte (Cass. n. 15431/2006; n. 12542/2003. L'officiosità della condanna alle spese ha origine nel diritto romano: il diritto alla refusione nasce solo con la sentenza che definisce soccombenza di una pate, pertanto prima di tale momento non sarebbe possibile formulare una domanda relativa ad un diritto non ancora sorto).

La ragione di tale visione giuridica risiede nella necessità di evitare una diminuzione patrimoniale della parte che, per poter soddisfare il proprio interesse, è costretta ad instaurare un processo (o a difendersi in questo): il ricorso al giudice non può comportare un sacrificio economico della parte vittoriosa e la condanna alle spese imposta alla controparte diventa uno strumento di carattere indennitario, in quanto connesso ad un fatto lecito, come l'esercizio del diritto di azione. La giurisprudenza maggioritaria, nell'aderire a tale concezione, ha generalmente ripartito le spese processuali sulla base del dato oggettivo della soccombenza (Agnino, Le spese nel processo civile tra sanzione e ottimizzazione del sistema giudiziario, in Corriere Giur., 2012, 5, 633).

Altra dottrina preferisce legare la condanna alle spese alla causalità e alla colpa (Carnelutti, Limiti della responsabilità processuale della parte, in RDPr., 1960; Bongiorno, Spese giudiziali, in EG, XXX, Roma, 1993, 3.) e quindi al comportamento antigiuridico assunto dalla parte prima del processo, o nel corso del suo svolgimento, e definisce soccombente colui il quale determina la necessità della controversia con la propria condotta.

Tale teoria riceve il favore della giurisprudenza di legittimità, che così individua il soccombente in colui il quale, sia fuori dal processo sia nel processo, non riconoscendo alla controparte il legittimo esercizio del proprio diritto, dà causa al giudizio o al suo protrarsi (Cass. n. 5842/2015; n. 373/2015; n. 19456/2008; n. 7182/2000) per tale ragione deve essere condannato al pagamento delle spese di lite: la soccombenza costituisce una applicazione del principio di causalità “che non vuole esente dalle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (per la trasgressione delle norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo” (Cass. n. 19456/2008) e che legittima la condanna alla refusione delle spese anche del convenuto contumace e soccombente, o del convenuto che pur avendo riconosciuto la fondatezza dell'altrui pretesa, nulla abbia compiuto per soddisfarla (Cass. n. 4485/2001).

Si chiede quindi alla parte di assumere un comportamento collaborativo e non meramente egoistico in applicazione del dovere costituzionale di solidarietà, che impone – nei rapporti giuridici obbligatori- una serie di obblighi di protezione verso la controparte.

Non è mancata nel dibattito dottrinario (Monteleone, Diritto processuale civile, 5° ed., Milano, 2009, 166; Cordopatri, L'abuso del processo, II, Padova, 2000, 483; Id., Odierni orientamenti in tema di responsabilità processuale, in Giur. It., 1992, III, 927; Gualandi, Spese e danni nel processo civile, Milano, 1962) l'idea che il fondamento della condanna alle spese debba rinvenirsi, in chiava marcatamente risarcitoria, nella necessità di sanzionare l'abuso dello strumento processuale da parte del soggetto, che in modo colposo violi i doveri o gli obblighi del singolo atto o dell'intero processo: saremmo quindi di fronte ad una responsabilità per atto processuale illecito. In realtà tale ricostruzione non sembra rispecchiarsi nella lettera e spirito dell'art. 91, ma piuttosto in quella dell'art. 96 c.p.c. e per quanto le disposizioni siano legale da un filo conduttore, non possono confondersi, senza ingenerare erronee interpretazioni ed applicazioni delle stesse (Cfr. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto alla difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, 20473).

Non a caso tale valutazione non ha incontrato il favore della Suprema Corte: questa esclude la possibilità di qualificare la condanna alle spese processuali come un credito risarcitorio, in quanto l'esercizio legittimo di un diritto non può costituire un atto illecito, ma al contrario si fonda sulla necessità di evitare che la parte vittoriosa venga chiamata a sostenere un onere economico per far valer le proprie ragioni (Cass. n. 1371/2013).

Quanto ai processi con pluralità di soccombenti, l'art. 97c.p.c. utilizza quale criterio di imputazione delle spese tra loro quello dell'interesse: le spese sono quindi legate all'interesse che la parte soccombente ha nel processo, fermo restando che in caso di interesse comune, la condanna potrà essere prevista in via solidale. Nel caso in cui la sentenza non statuisca sulla ripartizione delle spese, questa si fa per quote uguali.

L'interesse viene individuato nel risultato giuridico che le parti avrebbero conseguito con l'accoglimento della domanda e i più convenuti con il rigetto della stessa, i vantaggi - economici e morali - conseguenti ad un accertamento giudiziale, positivo o negativo (Grasso, Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973, 1041). Naturalmente la definizione di un concetto così elastico presuppone inevitabilmente un potere discrezionale in capo al giudice, che sarà dunque chiamato a stabilire se tra i soccombenti vi siano posizioni identiche o differenziate, in base alla quale distribuire il carico delle spese(Scarselli, op. cit.).

La comunanza di interesse si presenta, per la giurisprudenza, nella indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale dedotto in lite (Cass. n. 4871/1988), nella identità delle posizioni processuali delle sole questioni sollevate o dibattute (Cass. n. 16056/2015; n. 27562/2011; n. 24757/2007; n. 24680/2006; n. 5825/1996), nella linea difensiva comune adottata per contrastare l'avversa pretesa (Cass. n. 27562/2011; n. 24757/2007; n. 6761/2005; n. 1100/1995). A tale interpretazione estensiva, si contrappone la posizione assunta dalla dottrina, che invece individua la comunanza di interesse nella identità di petitum e causa petendi: la condanna solidale sarà dunque possibile nelle ipotesi di litisconsorzio necessario per unicità del rapporto sostanziale (La China, Diritto processuale civile (Le disposizioni generali), 2ª ed., Milano, 2002), in quello facoltativo relativo ad obbligazioni solidali o indivisibili, con esclusione delle situazioni inscindibili di litisconsorzio necessario (Grasso, Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali, in Comm. c.p.c. Allorio, I, Torino, 1973), in caso di mera identità di atteggiamenti difensivi (Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, 3ª ed., Napoli, 1957). La previsione di una condanna alle spese solidale, e fondata sull'interesse comune dei soccombenti, risponde all'esigenza di rendere ugualmente responsabili coloro i quali abbiano occasionato il processo, in aderenza al principio della soccombenza e causalità, sopradescritti.

In tale sistema la compensazione delle spese si configura regola di carattere eccezionale, utilizzabile solo in casi di soccombenza reciproca o di altri giusti motivi, quelli in cui si percepisce come ingiusta la ripetizione delle spese a carico del soccombente (Scarselli, Le spese giudiziali civili, Milano, 1998, 213; Mandrioli, Diritto processuale civile, I, 24° ed., Torino, 2015, 428). Diventa dunque uno strumento per valorizzare il comportamento della parte, che pure se soccombente, ha comunque tenuto una posizione processuale meritevole di tutela.

La compensazione, nella previsione del codice di rito del 1942 si presenta come il potere, eccezionale, del giudice di non applicare l'ordinario criterio di ripartizione delle spese, nel caso in cui vi siano dei giusti motivi (della formulazione originaria, oggi più volte rimaneggiata). Un potere amplissimo e discrezionale (Cass. n. 134/2013), che la giurisprudenza ha sempre cercato di preservare: sostenendone l'incensurabilità in sede di legittimità (Cass. n. 15317/2013; n. 13858/2013; n. 10584/2013), limitando l'illegittimità ai soli regolamenti che pongono le spese a carico della parte totalmente vittoriosa (Cass. n. 24683/2013; n. 23719/2013), oppure al regolamento che attribuisce alla parte vittoriosa gli oneri difensivi in modo tale da vanificare il valore dei beni conseguiti, così ledendo il diritto costituzionale di agire in giudizio per la tutela dei propri interessi, ritenuti meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento (Cass. n. 5696/2012).

Purtroppo l'uso diffuso del potere discrezionale, nel tempo ha portato il Legislatore ad intervenire sull'art. 92 (Rispettivamente con la legge n. 263/2005 che introduceva l'obbligo di motivazione la compensazione, legge n. 69 del 2009 che limitava la compensazione solo per gravi ed eccezionali ragioni, infine D.L. n. 132/2014, convertito con modificazioni nella legge n. 162/2014), arrivando nel 2014 ad affermare - nella relazione illustrativa al D.L. n. 132 - che “nonostante le modifiche restrittive introdotte negli ultimi anni, nella pratica applicativa si continua a fare larghissimo uso del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali ” con “conseguente incentivo alla lite”, in quanto “la soccombenza perde un suo naturale e rilevante costo, con pari danno per la parte che risulti aver avuto ragione”, rendendosi così necessaria la fissazione di regole più severe, che limitino la compensazione solo ai casi di soccombenza reciproca ovvero di novità della questione decisa o mutamento della giurisprudenza, al dichiarato fine di “disincentivare l'abuso del processo”. Di conseguenza la nuova formulazione dell'art. 92 limita fortemente la discrezionalità del giudice nel disporre la compensazione delle spese di lite, prevedendola – oltre alla soccombenza reciproca- solo in caso di assoluta novità della questione trattata o al mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Il giudice potrà oggi derogare al principio che lega l'onere delle spese alla soccombenza ai soli casi in cui si trovi ad affrontare una questione del tutto nuova, o in cui sia avvenuto un mutamento della giurisprudenza quanto questioni dirimenti.

La questione è considerata nuova quando non vi siano dei precedenti della corte di legittimità, sia perché introdotta in corso di causa da una legge successiva, sia perché la problematica non sia mai stata affrontata in precedenza dalla giurisprudenza; mentre il mutamento della giurisprudenza sarà idoneo a giustificare la compensazione nel caso in cui afferisca a questioni centrali per la soluzione giurisdizionale della causa, si pensi ai casi c.d. di overruling.

Nonostante tale impostazione del Legislatore non abbia incontrato il favore di alcuni commentatori che hanno letto nell'ultima riforma la volontà di punire la parte per aver esercitato il diritto alla difesa, quasi imputandole una sorte di responsabilità oggettiva (Rispettivamente con la legge n. 263/2005 che introduceva l'obbligo di motivazione la compensazione, legge n. 69/2009 che limitava la compensazione solo per gravi ed eccezionali ragioni, infine D.L. n. 132/2014, convertito con modificazioni nella legge n. 162/2014), non si può che concordare con la scelta legislativa: la condanna alla spese secondo il principio della soccombenza realizza il duplice effetto di disincentivare la proposizione di domande giudiziali per finalità meramente dilatorie e di tenere indenne da oneri economici la parte costretta ad adire la giustizia per contrastare una pretesa altrui infondata o per far valerne una propria fondata.

La sentenza in commento propone un'interpretazione del tutto aderente ai principi sopra enucleati della materia, difatti correttamente la Suprema Corte esclude si possa derogare al principio generale che lega la condanna alle spese alla soccombenza, in quanto nel caso portato al suo esame vi era comunanza di interesse tra l'ente impositore e il concessionario per la riscossione: entrambi volevano che l'azione esecutiva venisse dichiarata legittima, e da tale dichiarazione entrambi ne avrebbero tratto vantaggi di carattere patrimoniale. Difatti il comportamento assunto dai soccombenti, sia dentro sia fuori il processo, era improntato a perseguire un unico risultato, l'esazione di somme.

La Corte, sia pure sinteticamente, richiama il consolidato orientamento a mente del quale non solo “non è esente da onere delle spese la parte che con il suo comportamento abbia provocato la necessità del processo, prescindendosi dalle ragioni -di merito o processuali- che l'abbiano determinata e dagli specifici motivi di rigetto della loro pretesa, oltre che delle rispettive posizioni processuali assunte dai più convenuti ritenuti passivamente legittimati” (Cass. n. 23459/2011), ma anche l'opposizione a cartella esattoriale “deve essere proposta anche nei confronti dell'esattore, che ha emesso la cartella esattoriale ed al quale va riconosciuto l'interesse a resistere anche per gli innegabili riflessi che un eventuale accoglimento dell'opposizione potrebbe comportare con l'ente, che ha provveduto ad inserire la sanzione nei ruoli trasmessi ai sensi della l. n. 689/1981, art. 27. Trattandosi di ipotesi di litisconsorzio necessario, la mancata integrazione del contraddittorio può essere rilevata anche d'ufficio” (Cass. 24154/2007).

Dunque la Suprema Corte individua nella comunanza di interesse tra ente impositore e concessionario per la riscossione e nel conseguente comportamento da questi assunto, fuori e dentro il giudizio, un comportamento giuridico che causa e determina il processo, e applicando il principio della causalità reputa naturale che la condanna alle spese vada imputata a tutte le parti, che legate indissolubilmente tra loro, abbiano impedito al soggetto vincitore di realizzare con sollecitudine, senza l'instaurarsi o il protrarsi del processo, il proprio fondato interesse.

Nella sentenza in commento, la Corte di cassazione rammenta al concessionario che per vincere il criterio generale sulle spese devono essere rappresentati i presupposti di cui all'art. 92 c.p.c., “diversi ed ulteriori rispetto alla sola circostanza che l'opposizione sia stata accolta per ragioni riferibili all'ente creditore interessato o impositore”, e che a questa potrà seguire “la facoltà dell'agente della riscossione di chiedere a quest'ultimo di manlevarlo anche dall'eventuale condanna alle spese in favore del debitore vittorioso”.

Osservazioni

La compensazione delle spese processuali, quale deroga al principio generale della loro imputazione alla parte soccombente, si configura come un potentissimo strumento di equità processuale e sostanziale, pertanto il suo utilizzo, rimesso al prudente apprezzamento del giudice, deve essere utilizzato nel modo rispondente alla lettera ed allo spirito della legge

La ripartizione è disposta generalmente secondo il principio della causalità: la parte che, scegliendo di esercitare un proprio diritto, cagioni la necessità del processo sarà tenuta al pagamento. La ragione di tale criterio di ripartizione risiede nella volontà, avvertita dal Legislatore e dalla giurisprudenza, di tutelare la parte vittoriosa, evitando che su di essa ricadano le conseguenze economiche del comportamento, infondato, altrui.

Nel caso di una pluralità di soccombenti, in ossequio al principio di causalità, si tratterà di verificare dapprima l'interesse di ciascuna parte nel processo, individuando i vantaggi che derivano dal processo, così ripartendo proporzionalmente le spese; nel caso di identità di interesse, le spese saranno addebitate solidalmente a tutti i soccombenti. Per cui anche se l'illegittimità dell'agire giuridico sia determinato da uno solo dei soccombenti, ma entrambi hanno un comune interesse, le spese di lite saranno poste solidalmente a loro carico, senza che si possa distinguere le posizioni dell'uno o dell'altro.

Tale criterio risponde a ragioni di equità e responsabilità sociale, ex art. 2 Cost., e mira a spingere la parte a valutare attentamente il proprio interesse egoistico, avendo cura di predisporre nei confronti del contraddittore in giudizio le misure di protezione che ordinariamente vengo oggi richieste nei rapporti giuridici bilaterali.

Per il giudice di legittimità, nelle controversie in cui più parti legate da un interesse comune, abbiano con il proprio comportamento dato causa al processo, non è possibile disporre la compensazione delle spese in favore di una di questa, nonostante l'illegittimità sostanziale sia stata originata da atti dell'altra: la comunanza di interessi impone, di fronte alla parte vittoriosa, di condannare entrambe al pagamento delle spese di lite, ferma comunque la possibilità del concessionario di esercitare, nei soli rapporti interni con l'ente impositore (e quindi fuori dal processo) la manleva. La giurisprudenza, utilizzando un'applicazione quanto mai lineare del principio di soccombenza, vuole così garantire la tutela piena ed effettiva della parte vittoriosa.

Per cui il comportamento del concessionario, che nel processo sostiene la legittimità dell'azione esecutiva al fine di realizzare un interesse proprio, la riscossione dell'aggio, ne determina la soccombenza. La sentenza in commento non lo esplicita, ma si può desumere che, anche in applicazione del dovere costituzionale di responsabilità e solidarietà di cui all'art. 2, il concessionario invece di perseguire un interesse egoistico, presumibilmente esposto a censure di legittimità, ben avrebbe potuto e dovuto verificare la legittimità della pretesa dell'ente impositore prima di instaurare l'azione esecutiva, ma non avendolo fatto, viene travolto dalla pronuncia di illegittimità di tale azione e, quale soccombente, condannato alla rifusione delle spese. L'unicità della condotta, e la identità di interesse, dell'ente impositore e del concessionario, quale soggetto necessariamente partecipe dell'attività che ha portato all'emanazione dell'atto impositivo, ne comporta la soccombenza in giudizio e di conseguenza l'identica statuizione sulle spese di lite (Cass. 18175/2016).

Guida all'approfondimento
  • M. Pilloni, Le innovazioni apportate alla disciplina della compensazione delle spese di lite (art. 92 c.p.c), in Nuove leggi civ. comm., 2015, 3, 469.
  • A. Giordano, In tema di condanna alle spese. Neanche il fisco litiga gratis, in Dir. e Prat. Trib., 2012, 1, 10109.
  • M. A. Mazzola, Condanna alle spese di lite ed esercizio del diritto alla difesa, in Nuova Giur. Civ., 2015, 7-8, 20473.
  • V. Carbone, Condanna alle spese processuali, in Corriere Giur., 2013, 3, 433.
  • S. Alunni, Spese giudiziali civili-la condanna solidale alle spese di lite, in Giur. It., 2016, 8-9, 1888.

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