Il divieto di mutatio delle posizioni assunte in appello e le conseguenze sulla prescrizione in caso di estinzione del giudizio per mancata riassunzione

Cesare Trapuzzano
27 Febbraio 2017

Le posizioni assunte dalla parte nel giudizio di appello non possono essere mutate per sostenere un motivo di ricorso per cassazione, salvo che non sia la sentenza d'appello a giustificarlo. Inoltre, la domanda giudiziale proposta dinanzi al giudice incompetente produce il solo effetto interruttivo istantaneo della prescrizione, ma non quello permanente, ove alla declaratoria di incompetenza segua l'estinzione del giudizio per difetto di riassunzione.
Massima

Le posizioni assunte dalla parte nel giudizio di appello, o attraverso l'atto introduttivo di esso o attraverso l'atto difensivo in esso presentato, non possono essere mutate per sostenere un motivo di ricorso per cassazione, salvo che non sia la sentenza d'appello a giustificarlo.

La domanda giudiziale proposta dinanzi al giudice incompetente produce il solo effetto interruttivo istantaneo della prescrizione, ma non quello permanente, ove alla declaratoria di incompetenza segua l'estinzione del giudizio per difetto di riassunzione, quand'anche detta pronuncia sia avvenuta con sentenza e non sia stato fissato il termine per la riassunzione, operando in tal caso il termine massimo di legge di tre mesi, e ciò anche nell'ipotesi in cui il giudice del lavoro dichiari la propria incompetenza in favore del giudice ordinario.

Il caso

Con ricorso proposto ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c., la parte agente chiese, in via principale, il riconoscimento del suo diritto al conseguimento della remunerazione nei termini previsti dall'art. 6 d.lgs. 8 agosto 1991, n. 257 e, in subordine, il diritto al risarcimento del danno nella stessa misura, con riferimento alla frequenza di un corso di specializzazione in chirurgia d'urgenza e pronto soccorso negli anni accademici fra il 1989 ed il 1993 ed alla consecuzione del relativo diploma. Il giudice monocratico del Tribunale di Napoli rigettò la domanda reputandola prescritta. All'uopo, disattese l'eccezione sollevata dalle Amministrazioni resistenti in ordine alla formazione di un precedente giudicato, in ragione dell'instaurazione e definizione di un pregresso giudizio incoato davanti allo stesso Tribunale in funzione di giudice del lavoro, ritenendo che la domanda proposta al giudice del lavoro nel detto giudizio, pur fondandosi sui medesimi fatti, era diversa da quella proposta successivamente davanti al giudice ordinario, poiché la prima aveva ad oggetto l'accertamento circa l'esistenza di un rapporto di lavoro in relazione alla frequenza del corso di specializzazione, la seconda rivendicava la remunerazione per effetto di tale frequenza (o, in subordine, il risarcimento dei danni9, pur non integrando la relativa partecipazione un rapporto lavorativo. Per l'effetto, negò che la pendenza del giudizio dinanzi al giudice del lavoro avesse svolto efficacia sospensiva del corso della prescrizione relativamente alla nuova domanda spiegata davanti al giudice ordinario, fino alla definizione del primo giudizio, con il passaggio in cosa giudicata della decisione del giudice del lavoro, sicché la prescrizione decennale doveva reputarsi in ogni caso maturata al momento del deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c..

Avverso la relativa ordinanza era proposto gravame davanti alla Corte d'appello di Napoli, la quale confermò il rigetto della domanda per intervenuta prescrizione, ma adottò altro percorso argomentativo. In specie, la Corte sostenne che l'appellante aveva proposto dinanzi al giudice del lavoro domande identiche a quelle introdotte con il rito sommario. Nondimeno, escluse che si fosse formato un precedente giudicato, perché la pronuncia del giudice del lavoro, sebbene emessa in forma di sentenza, doveva intendersi quale pronuncia declinatoria della competenza in favore del giudice ordinario. All'esito di tale qualificazione, non essendovi stata impugnazione né riassunzione davanti al giudice indicato come competente nel termine massimo di legge, il procedimento si era estinto per inattività qualificata delle parti ai sensi dell'art. 50, secondo comma, c.p.c. In conseguenza, trovava applicazione l'art. 2945, terzo comma, c.c., secondo cui - all'esito dell'estinzione del giudizio - resta fermo l'effetto interruttivo istantaneo della prescrizione, ma non quello permanente, con la conseguenza che dalla domanda giudiziale proposta davanti al giudice del lavoro era decorso un nuovo termine decennale di prescrizione che era irrimediabilmente maturato all'epoca del deposito del ricorso introduttivo del procedimento sommario di cognizione. Il ricorso in cassazione di seguito proposto è stato imperniato su due motivi.

La questione

Con il primo motivo di ricorso è stata denunciata la violazione e falsa applicazione di legge con riferimento agli artt. 2945, secondo e terzo comma c.p.c. Sul punto, la ricorrente ha dedotto che il giudizio instaurato davanti al giudice del lavoro si era concluso con una sentenza e, pertanto, in relazione al suo svolgimento ed alla sua durata, si sarebbe dovuta ritenere applicabile la disciplina del secondo comma dell'art. 2945 c.c., con la conseguente produzione dell'effetto interruttivo istantaneo e permanente della prescrizione. È stato in proposito rilevato che il rigetto della domanda da parte del giudice del lavoro si era riferito ad una domanda radicalmente diversa da quella proposta dalla ricorrente con il procedimento sommario di cognizione. Ancora, l'istante ha evidenziato che non era stato previsto alcun termine per la riassunzione, sicché non vi era altra scelta se non quella di ripresentare la stessa domanda davanti al giudice competente, mentre un eventuale appello non avrebbe certo sortito gli effetti sperati. Pertanto, la questione posta attiene all'identificazione della natura della pronuncia con cui il giudice disattende le pretese avanzate, peraltro qualificandole diversamente dai termini in cui sono state prospettate, sotto forma di sentenza, omettendo ogni indicazione sul termine di riassunzione, ai fini della produzione dell'effetto interruttivo sia istantaneo sia permanente della prescrizione.

Per converso, con il secondo motivo è stata contestata la violazione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Al riguardo, la ricorrente ha sostenuto che dalla documentazione prodotta risultava comunque l'interruzione del corso della prescrizione, che avrebbe reso tempestiva la domanda proposta ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c..

Le soluzioni giuridiche

Il primo motivo è stato dichiarato infondato. E ciò facendo riferimento a due profili concorrenti, uno con valenza prodromica e l'altro con portata concludente. Sotto il primo profilo, la Corte di legittimità ha ritenuto che non poteva discostarsi dalla posizione processuale assunta dalla ricorrente nel giudizio d'appello. Avendo in sede di gravame affermato che il giudice del lavoro si era spogliato della controversia dichiarandosi incompetente, la ricorrente non poteva porre a fondamento del ricorso in cassazione il rilievo secondo cui il giudice d'appello avrebbe errato nel qualificare la pronuncia del giudice del lavoro come declinatoria della propria competenza, trattandosi invece di sentenza di rigetto nel merito. In proposito, la Cassazione ha puntualizzato che le posizioni assunte dalla parte nel giudizio di appello, o attraverso l'atto introduttivo di esso o attraverso l'atto difensivo in esso presentato, non possono essere mutate per sostenere un motivo di ricorso per cassazione (salvo che non sia la sentenza d'appello a giustificarlo), in quanto, se il mutamento si ammettesse, si consentirebbe all'appellante di mutare il contenuto dell'atto di appello e, quindi, dei motivi di appello e dell'impugnazione proposta e devoluta al giudice d'appello, con manifesta contraddizione rispetto alla logica che presiede l'esercizio del diritto di impugnazione in appello, i cui contenuti e le cui conclusioni debbono essere espressi in esso (e, correlativamente, si consentirebbe all'appellato di mutare le sue difese rispetto a quelle svolte nell'atto di costituzione). Sempre in ragione del vincolo derivante dalla posizione assunta dalla ricorrente in sede di gravame, ossia il riconoscimento che la sentenza del giudice di merito è stata una decisione sulla competenza, l'arresto in commento ha escluso che la Corte di legittimità possa valutare d'ufficio (con consequenziale qualificazione della sua natura) se per caso la declaratoria non sia stata invece una pronuncia di rito, cioè una pronuncia che si sia limitata ad attestare che la controversia non doveva essere trattata dal giudice del lavoro, bensì con il rito ordinario davanti allo stesso tribunale. E, dunque, una pronuncia che, omettendo nel contempo di disporre il passaggio della trattazione dal rito del lavoro a quello ordinario, abbia commesso un errore in rito e non un errore sulla gestione delle conseguenze di una pronuncia sulla competenza.

Sotto il secondo profilo, è stato escluso che la natura della pronuncia dichiarativa dell'incompetenza del giudice adito muti ove sia avvenuta mediante sentenza e senza espressa indicazione del termine di riassunzione davanti al giudice competente. E tanto anche quando tale declaratoria sia stata emessa dal giudice del lavoro in favore del giudice ordinario ai sensi dell'art. 427 c.p.c. In ogni caso, si tratta di una pronuncia in rito declinatoria della competenza per materia, alla quale segue l'estinzione del giudizio ove la pronuncia non costituisca oggetto di gravame né segua la riassunzione nel termine massimo di legge di tre mesi. Ne discende che, maturata l'estinzione del giudizio per difetto di riassunzione, l'effetto interruttivo della prescrizione sarà solo quello istantaneo, ma non anche quello permanente regolato dall'art. 2945, secondo comma, c.c. Pertanto, la pretesa sarà prescritta ove al momento della presentazione di una nuova domanda sia decorso il termine prescrizionale dalla proposizione della primaria domanda giudiziale, cui sia seguita la declinatoria di competenza senza riassunzione. Sicché, quando il giudice di merito nega la propria competenza ed omette di fissare il termine per la riassunzione, la pronuncia non cessa di essere pronuncia in rito sulla competenza, atteso che soccorre l'art. 50 c.p.c. ed il termine è quello da esso stabilito. Perciò, non si configura alcuna nullità della sentenza (Cass. 15 settembre 2008, n. 23587) e si deve ritenere che detto termine operi anche allorquando si tratti di pronuncia di incompetenza ai sensi dell'art. 427 c.p.c. (in proposito si evoca, con riferimento all'art. 428 c.p.c., che adotta una soluzione estensibile anche all'art. 427 c.p.c., Cass. 12 marzo 2013, n. 6139); l'omissione non priva la decisione del carattere di decisione sulla competenza. Invece, l'effetto interruttivo della prescrizione sarebbe stato anche permanente ove la sentenza del giudice del lavoro fosse stata equiparata ad una pronuncia di rigetto nel merito delle pretese avanzate.

Il secondo motivo è stato invece dichiarato inammissibile per difetto di alcuna indicazione circa l'an e il quando della produzione del documento, da cui si ricaverebbe la prova dell'interruzione della prescrizione, nel giudizio di merito. Né è stato consentito al giudice di legittimità di esaminare tale documento. Dette indicazioni sono necessarie, a pena di inammissibilità, ai sensi dell'art. 366, n. 6, c.p.c., secondo consolidata esegesi di tale norma (a partire da Cass. 4 settembre 2008, n. 22303 e Cass. Sez.Un. 2 dicembre 2008, n. 28547).

Osservazioni

Secondo la Corte di legittimità, non è consentito al ricorrente in cassazione fondare i motivi di censura sulla contestazione di una qualificazione giuridica dei fatti processuali fatta invece propria nel precedente gravame, poiché ciò determinerebbe un inammissibile mutamento dei motivi di appello. Pertanto, è precluso porre a fondamento del motivo di ricorso una condotta processuale integrante un palese venire contra factum proprium. Nella specie, si è ritenuto che la ricorrente non potesse basare la doglianza sollevata in cassazione avverso la qualificazione giuridica di una pronuncia del giudice di prime cure come declinatoria della competenza, operata dalla sentenza della Corte d'appello, ritenendo invece che si trattasse di un rigetto nel merito, dopo che l'impugnazione davanti al giudice del gravame era stata predisposta proprio facendo riferimento all'assunto secondo cui la pronuncia in questione doveva essere qualificata come pronuncia in rito dichiarativa dell'incompetenza del giudice adito. Una volta che il giudice d'appello ha aderito a siffatta prospettazione, è del tutto contraddittorio che il ricorso in cassazione si basi sulla negazione di tale qualificazione. Ne discende che i motivi di appello rimangono cristallizzati anche all'esito della definizione del gravame e la parte che ne ha argomentato le relative ragioni non può sovvertirle per giustificare la proposizione del ricorso in cassazione. Ciò significherebbe mutare del tutto irritualmente e tardivamente il tenore delle censure sollevate nel giudizio di gravame quando quest'ultimo è stato già definito, in violazione dell'art. 342, primo comma, c.p.c., del principio del contraddittorio e del suo corollario della parità delle armi tra le parti. A ciò consegue che le posizioni processuali assunte in sede di gravame rimangono ferme anche nel giudizio di cassazione e ad esse occorre attenersi per definire i motivi di legittimità spiegati. Alla luce di tale arresto di legittimità è attribuito un rilievo anche processuale al divieto di venire contra factum proprium, imponendo il sistema che, a fronte delle posizioni difensive consolidate assunte in un grado di giudizio, le impugnazioni successive non si fondino su una ricostruzione dei fatti processuali che smentisca dette pregresse posizioni. D'altronde, nel giudizio di legittimità, eccettuate le questioni rilevabili d'ufficio, non possono proporsi questioni nuove, che richiedano accertamenti di fatto non compiuti nelle fasi di merito o che implichino un radicale mutamento del sistema difensivo svolto nelle dette fasi (Cass., 4 ottobre 1985, n. 4790; Cass., 22 gennaio 1979, n. 490; Cass., 19 gennaio 1979, n. 402). Se così non fosse, la prescrizione sulla specificità dei motivi di gravame, volta a giustificare la natura devolutiva dell'appello, sarebbe posta nel nulla, poiché sarebbe consentito alle parti di modificare i relativi assunti attraverso il ricorso in cassazione. Richiamando lo stesso principio, la giurisprudenza nega che il commissario della procedura di liquidazione coatta amministrativa abbia la possibilità di agire giudizialmente per far revocare una causa di prelazione in precedenza dallo stesso commissario già riconosciuta nella formazione dello stato passivo (Cass. 4.09.2004, n. 17888). Inoltre, la S.C. ha dato per scontato, alla stregua del vincolo discendente dalla posizione assunta dalla ricorrente nel giudizio di appello, che la fattispecie nascesse dalla circostanza che il giudice del lavoro si era spogliato della competenza per materia, non ricadendo il rapporto controverso tra quelli previsti dall'art. 409 c.p.c., a favore del giudice ordinario di altro ufficio giudiziario. Ove, invece, si fosse ritenuto che il giudice del lavoro avesse impropriamente declinato la propria competenza con sentenza, anziché disporre il mutamento del rito e rimettere il procedimento al presidente del tribunale per l'assegnazione ad una sezione ordinaria ai fini della trattazione con il rito ordinario, non si sarebbe trattato di questione di competenza idonea a determinare l'estinzione del giudizio. È noto, infatti, che la ripartizione delle funzioni tra la sezione lavoro e le sezioni ordinarie del medesimo tribunale non implica l'insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio (Cass., 19 luglio 2016, n. 14790; Cass., 5 maggio 2015, n. 8905; Cass., 23 settembre 2009, n. 20494). Ciononostante, si rileva che, ove il giudice adito abbia comunque declinato impropriamente la propria competenza affinché sia disposta la riassunzione del giudizio innanzi ad altro magistrato del medesimo ufficio, comunque ne seguirà l'estinzione in difetto di riassunzione, benché la relativa declaratoria spetti al giudice ad quem e non al giudice che si è spogliato della competenza.

Sulla scorta di queste premesse, la Corte di Cassazione ha rigettato il primo motivo di ricorso, sostenendo i seguenti principi di diritto: la pronuncia in rito che dichiara l'incompetenza del giudice adito rimane tale anche qualora sia avvenuta con sentenza, anziché con la forma prescritta dell'ordinanza, e senza espressa fissazione del termine per la riassunzione davanti al giudice reputato competente, operando in tal caso il termine massimo di tre mesi indicato dall'art. 50, primo comma, c.p.c., che si applica appunto in mancanza di un'espressa fissazione a cura del provvedimento che declina la competenza; ne consegue che, ove avverso tale pronuncia non sia stato interposto gravame né sia seguita la riassunzione davanti al giudice indicato come competente nel termine massimo previsto dalla legge, il processo si estingue ai sensi dell'art. 50, secondo comma, c.p.c.; tanto vale anche qualora, a fronte di una causa promossa con il rito speciale del lavoro, il giudice del lavoro adito valuti che la controversia non rientra tra i rapporti regolati dall'art. 409 c.p.c. e rimetta di conseguenza la causa davanti al giudice competente senza fissare il termine perentorio di riassunzione di trenta giorni per la trattazione con il rito ordinario, ai sensi dell'art. 427, primo comma, c.p.c.; ciò determina sul piano delle ripercussioni sostanziali ai sensi dell'art. 2945, terzo comma, c.c. che, benché la prescrizione del diritto fatto valere si verifichi anche quando il giudice adito sia incompetente ai sensi dell'art. 2943, terzo comma, c.c., in conseguenza dell'estinzione del giudizio all'esito della declinatoria di competenza senza che sia avvenuta la riassunzione davanti al giudice competente, all'effetto interruttivo della prescrizione in ragione della proposizione della domanda giudiziale (effetto che opera come un punto) non si associa l'effetto sospensivo del suo corso (effetto che opera come una parentesi) durante la pendenza del giudizio fino al passaggio in giudicato della pronuncia (anche in rito) che lo definisce ai sensi dell'art. 2945, secondo comma, c.c. (Cass., 6 agosto 2007, n. 17156; Cass., 30 marzo 1994, n. 3108; Cass. 16 giugno 1992, n. 7407). Pertanto, qualora il termine prescrizionale (nella fattispecie di dieci anni) sia decorso dal momento della proposizione della domanda giudiziale davanti al giudice incompetente, la pretesa deve ritenersi irrimediabilmente prescritta, non potendo giovarsi la parte dell'effetto sospensivo per il tempo in cui il giudizio conclusosi con la declaratoria di incompetenza è stato pendente, appunto perché detto giudizio, anziché essere riassunto davanti al giudice dichiarato competente, si è estinto.

Quanto alle ragioni giustificatrici della produzione del solo effetto interruttivo istantaneo della prescrizione in caso di estinzione del giudizio, la S.C. ha avuto già modo di rilevare che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2945 c.c. sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., con riguardo alla distinta disciplina prevista rispettivamente nei commi secondo e terzo sul presupposto che il legislatore, nel confezionare il terzo comma (secondo cui “se il processo si estingue, rimane fermo l'effetto interruttivo e il nuovo periodo di prescrizione comincia a decorrere dalla data dell'atto interruttivo”), si sarebbe espresso in termini retroattivi, allorché ha ritenuto, dichiarando inefficace l'attività giurisdizionale svolta nel processo, di considerare solamente il periodo interruttivo dalla data della notifica dell'atto introduttivo del giudizio, ponendo, così, immotivatamente, nel nulla assoluto l'attività giudiziale compiuta, spesso assai lunga, e conferendo quindi effetto interruttivo unicamente al citato atto introduttivo. Infatti, non sussiste alcuna violazione del precetto dell'art. 3 Cost. atteso che la situazione è totalmente diversa a seconda che il giudizio si sia concluso con una pronunzia passata in giudicato e, quindi, con un accertamento rilevante ex art. 2909 c.c. o, piuttosto, con una declaratoria di estinzione; invero, nel primo caso, ciò che rileva non è l'attività giudiziale e istruttoria svoltasi nel corso del giudizio (che, in ipotesi, potrebbe anche mancare), ma la presenza di una pronunzia passata in giudicato che fa certamente difetto nella seconda ipotesi e tale circostanza è certamente sufficiente ex se a giustificare un diverso trattamento, dal punto di vista giuridico, delle ipotesi rispettivamente disciplinate al comma secondo (in cui l'interruzionedella prescrizione ha effetti permanenti) e al comma terzo del citato art. 2945 c.c. (nel cui caso la prescrizione opera con effetti istantanei). Va esclusa, inoltre, l'assunta violazione del diritto alla difesa di cui all'art. 24 Cost., rilevandosi, al riguardo, che il codice di rito, proprio con riguardo all'estinzione del processo per mancata prosecuzione o riassunzione, prevede una serie di cautele che escludono che il giudizio possa “estinguersi” senza la consapevolezza delle parti in causa (o, almeno, dei loro procuratori), dovendosi, d'altro canto, escludersi che, alla stregua delle ragioni precedentemente evidenziate, emerga una contraddizione fra le disposizioni previste dall'art. 310, primo comma, c.p.c. e dallo stesso art. 2945, comma terzo, c.c. (Cass. 18 gennaio 2006, n. 825). Pertanto, l'effetto interruttivo della prescrizione, sia istantaneo sia permanente, si produrrà anche quando si tratti di una pronuncia in rito suscettibile di passaggio in giudicato formale, come una declaratoria di inammissibilità della domanda, ad esempio perché proposta in appello (Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2016, n. 1516; Cass. 10 aprile 2013, n. 8686; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23017; Cass. 6 settembre 2006, n. 19125; Cass. 9 marzo 2006, n. 5104; Cass. 22 gennaio 2002, n. 696).

Guida all'approfondimento
  • F.E. Anzilotti Nitto dè Rossi, Interruzione della prescrizione per effetto di domanda giudiziale ed estinzione del processo, in Mass. giur. lav., 1994, 6, 720;
  • R. Oriani, Processo di cognizione e interruzione della prescrizione, Napoli, 1977, passim;
  • R. Poli, Giusto processo e oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc., 2010, 1, 48;
  • A. Saletti, L'appello nel rito del lavoro e nel procedimento sommario dopo la riforma, in Riv. dir. proc., 2013, 6, 1423;
  • M.C. Vanz, Effetto interruttivo permanente della prescrizione: un delicato punto d'equilibrio tra errori in rito ed esigenze di tutela del diritto sostanziale della parte, in Giur. it., 2013, 5, 1158.

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