Autorità di giudicato dell'ordinanza di convalida e di quella che prende atto della sanatoria della morosità

Mauro Di Marzio
28 Febbraio 2017

L'ordinanza di convalida di licenza o sfratto per finita locazione acquista efficacia di cosa giudicata sostanziale sull'esistenza della locazione, sulla qualità di locatore dell'intimante e di conduttore dell'intimato e sull'intervento di una causa di cessazione o risoluzione del rapporto e non solo. Mentre l'ordinanza con la quale viene dichiarata sanata la morosità non è idonea al giudicato.
Massima

L'ordinanza di convalida di licenza o sfratto per finita locazione acquista efficacia di cosa giudicata sostanziale non solo sull'esistenza della locazione, sulla qualità di locatore dell'intimante e di conduttore dell'intimato e sull'intervento di una causa di cessazione o risoluzione del rapporto, ma altresì sulla qualificazione di esso, se la scadenza del medesimo, richiesta e accordata dal giudice, è strettamente correlata alla tipologia del contratto. Viceversa l'ordinanza con la quale viene dichiarata sanata la morosità non è idonea al giudicato.

Il caso

Partiamo dall'antefatto. Un locatore agisce in giudizio nei confronti del conduttore intimando con un medesimo atto tanto lo sfratto per morosità, quanto la licenza per finita locazione. Il conduttore, trattandosi di locazione abitativa, provvede ai sensi dell'art. 55, l. n. 392/1978, cosiddetta dell'equo canone, alla sanatoria banco iudicis della morosità intimata. Il giudice pronuncia ordinanza con la quale per un verso dichiara perfezionata la sanatoria e, per altro verso, convalida la licenza per finita locazione alla data indicata nell'intimazione, che è quella del 4 marzo 2004.

Poi riassumiamo il fatto su cui si è pronunciata la Suprema Corte. Il conduttore, una volta convalidata la licenza, fa al locatore causa di equo canone. E cioè assume di aver corrisposto, a far data dall'inizio del rapporto, ossia, secondo lui, dal 5 marzo 1988, un canone superiore a quello derivante dall'applicazione dei parametri legali stabiliti dagli artt. 12 e seguenti della citata legge, chiedendo la restituzione a titolo di indebito di quanto corrisposto oltre il dovuto. Il locatore si difende come può: è cioè sostiene di aver inizialmente stipulato un contratto di comodato, cui sarebbe seguito, soltanto nel 1994, un contratto di locazione, stipulato verbalmente, secondo il regime dei patti in deroga.

Respinta la domanda in primo grado, per motivi che non sappiamo indicare, e che per la verità è arduo anche ipotizzare, essa è parzialmente accolta in appello: la Corte d'appello, cioè, afferma che la natura del contratto intercorso tra le parti, quale locazione abitativa sottoposta alla disciplina dell'equo canone, era coperta da giudicato per effetto della pronuncia dell'ordinanza di convalida di licenza per finita locazione; la stessa Corte, tuttavia, ritiene che il conduttore abbia dato la prova del pagamento di un canone superiore a quello legale soltanto per il periodo 1994-2004, e non per l'intero arco temporale di durata del rapporto, ossia a far data dal 5 marzo 1988.

La sentenza è impugnata per cassazione in via principale dal conduttore ed in via incidentale dal locatore:

  • il primo sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato nel non avvedersi che, per effetto dell'ordinanza di convalida di licenza per finita locazione, si sarebbe formato un giudicato anche sulla contestuale e preliminare intimazione di sfratto per morosità (quindi sulla maggior misura del canone), perché la morosità era stata sanata senza eccezioni e riserve da parte del conduttore;
  • il secondo sostiene che la Corte d'appello avrebbe errato nell'attribuire autorità di giudicato all'ordinanza di convalida della licenza per finita locazione.
La questione

La vicenda in discorso pone in realtà almeno tre distinte questioni:

  1. se con un medesimo atto si possa simultaneamente intimare sia lo sfratto per morosità che la licenza per finita locazione: questione sulla quale peraltro la Suprema Corte non era nella specie chiamata a pronunciarsi;
  2. se l'ordinanza di convalida di licenza o sfratto possegga autorità di cosa giudicata, ed in quali limiti;
  3. se possegga autorità di cosa giudicata l'ordinanza con cui il giudice della convalida pone fine al subprocedimento di sanatoria giudiziale della morosità, dichiarando che essa è stata sanata.
Le soluzioni giuridiche

Con mano sicura e precisa la Cassazione rigetta tanto il ricorso principale quanto quello incidentale.

Sotto il primo aspetto — e cioè con riguardo alla censura secondo cui, a seguito dell'ordinanza pronunciata dal giudice a chiusura del procedimento a monte, si sarebbe formato il giudicato anche in ordine al pagamento di un canone eccedente la misura legale — la Corte afferma un principio che non sembra avere precedenti esattamente in termini, ma che è da ritenere senz'altro corretto, con le precisazioni che tra breve si faranno: e cioè che l'ordinanza con la quale viene dichiarata sanata la morosità non è idonea al giudicato. Essa, infatti, presuppone l'ammissione della parte conduttrice al godimento di un beneficio, il cui unico effetto, qualora sia seguita dal pagamento dei canoni scaduti ai sensi dell'art. 55, l. n. 392/1978, è l'esclusione della «risoluzione del contratto», ai sensi dell'ultimo comma della norma. Si tratta di una modalità di conclusione del procedimento sommario di sfratto per morosità che comporta una pronuncia del giudice che, prescindendo dal merito della controversia, di fatto lo estingue, per ragioni di rito; perciò è inidonea ad acquisire l'autorità della res iudicata.

Sotto il secondo aspetto — e cioè con riguardo all'autorità di giudicato dell'ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione — la Corte richiama il proprio costante insegnamento secondo cui l'ordinanza di convalida di licenza-sfratto dà luogo alla formazione del giudicato che si estende anche alla natura del rapporto, se essa costituisce premessa logica necessaria della decisione adottata.

Osservazioni

Esaminiamo il primo dei problemi precedentemente indicati, quello del cumulo di intimazione di sfratto per morosità e finita locazione. Nella pratica il cumulo si presenta in diversi frangenti.

Può accadere — e questo il caso che ci riguarda — che la morosità, trattandosi di locazione abitativa, sia suscettibile di sanatoria giudiziale, pronosticando la quale l'intimante agisca anche per la licenza alla futura scadenza, così da precostituirsi, quantomeno, un titolo da utilizzare una volta cessato il rapporto. Ma può parimenti accadere che l'azione per convalida di licenza sia introdotta nel caso che la morosità appaia, per così dire, dubbia già agli occhi dello stesso intimante, ovvero di discutibile gravità.

Non manca di presentarsi, poi, il cumulo delle domande di sfratto per finita locazione e per morosità, ancororché si tratti di eventualità nella pratica meno frequente: difatti, l'ipotesi di simultanea formulazione della domanda di sfratto per finita locazione e sfratto per morosità presuppone la priorità logica della domanda di finita locazione — mentre il provvedimento più ambito dal locatore è normalmente quello di sfratto per morosità — giacché solo l'infondatezza di essa e, dunque, l'accertamento negativo della cessazione del contratto per scadenza del termine, potrebbe permettere di ritenere risolto il rapporto per inadempimento del conduttore.

Orbene, non sembra potersi dubitare dell'ammissibilità del cumulo così realizzato. In particolare, l'inammissibilità non potrebbe essere desunta dall'intima contraddittorietà delle due domande — se il contratto è cessato per scadenza del termine non si può essere risolto del morosità, e viceversa — dal momento che esse vanno singolarmente scrutinate secondo l'ordine di preferenza proposto dall'intimante (v. Cass. 29 aprile 1996, n. 3942, in fattispecie in cui il locatore, appunto, aveva svolto, in via subordinata rispetto alla domanda di risoluzione per inadempimento, domanda di rilascio per intervenuta scadenza del contratto). Le due domande tipiche, di morosità e finita locazione, vanno insomma spiegate in via subordinata (Trib. Modena, 24 aprile 2008).

In caso di cumulo questi i possibili esiti:

  • qualora l'intimato non compaia ovvero compaia e non si opponga, il giudice emetterà la convalida della domanda principale, ma non statuirà sulla subordinata, dal momento che l'esame di essa rimarrà preclusa dall'accoglimento dell'altra;
  • qualora l'intimato compaia e si opponga tanto alla domanda principale quanto alla subordinata, il giudice non potrà emettere alcuna convalida e dovrà disporre la trasformazione del rito, potendo però pronunciare, su istanza del locatore, l'ordinanza provvisoria di rilascio come eventualmente richiesta;
  • qualora l'intimato compaia e si opponga alla principale ma non si opponga alla subordinata occorrerà, perché il giudice possa convalidare, che l'intimante rinunci alla domanda principale, ovvero che essa venga travolta, come nel nostro caso, dall'intervenuta sanatoria, dal momento che l'ordinanza di convalida non ha attitudine a decidere — neppure implicitamente, come accadrebbe se il giudice, senz'altro aggiungere, convalidasse la subordinata — nel senso del rigetto della domanda principale.

Passiamo alla questione del giudicato dell'ordinanza di convalida.

La giurisprudenza attribuisce senza riserve natura giurisdizionale al procedimento per convalida e attitudine ad acquistare efficacia di cosa giudicata sostanziale all'ordinanza prevista dall'art. 663 c.p.c., fin da Cass. 25 novembre 1949, n. 2505, FI, 1950, I, 554. Tale opinione costituisce la premessa logica delle decisioni con cui la Corte costituzionale ha esteso all'ordinanza di convalida l'applicazione dei rimedi dell'opposizione di terzo e dell'impugnazione per revocazione, previste dagli artt. 404 e 395 c.p.c. ed originariamente esperibili esclusivamente contro le sentenze. Il giudice delle leggi, cioè, nell'esporre l'ordinanza di convalida all'opposizione di terzo ed alla revocazione, ha necessariamente riconosciuto ad essa la stessa efficacia di una sentenza definitiva, ammettendo, pertanto, che nella medesima è contenuto un accertamento la cui stabilità non è possibile altrimenti infirmare (Corte cost. 7 giugno 1984, n. 167; Corte cost. 12 dicembre 1989, n. 558; Corte cost. 20 febbraio 1995, n. 51).

La giurisprudenza di legittimità, aderendo alla medesima impostazione, ha in più occasioni ripetuto che l'ordinanza di convalida ha, tra le parti, una volta preclusa l'opposizione ex art. 668 c.p.c., efficacia di cosa giudicata sostanziale, pari a quella di una sentenza di condanna al rilascio dell'immobile locato (Cass. 2 aprile 2009, n. 8013; Cass. 19 luglio 2008, n. 20067; Cass. 8 novembre 2007, n. 23302; Cass. 4 febbraio 2005, n. 2280).

Con riguardo all'ordinanza di convalida non opposta ai sensi dell'art. 668 c.p.c. si è poi chiarito che essa rende incontestabile tra le parti l'esistenza della locazione, la qualità di locatore e di conduttore dell'intimante e dell'intimato e la cessazione o risoluzione del rapporto, secondo si tratti di licenza o sfratto per finita locazione oppure sfratto per morosità (Cass. 1° dicembre 1994, n. 10270). Di regola, invece, il provvedimento di convalida non copre di giudicato la natura del rapporto, salvo che la sua definizione costituisca necessario antecedente logico del provvedimento. Sicché, nel regime ex legge n. 392 del 1978, ove le locazioni ad uso abitativo avevano una durata minima di quattro anni e quelle per uso diverso la durata minima di sei anni, se la convalida veniva pronunciata per una scadenza di quattro anni dall'inizio della locazione, ciò implicava un accertamento in ordine alla natura abitativa del rapporto e, in tale ipotesi, la convalida costituiva giudicato implicito sulla qualificazione d'uso della locazione (Cass. 28 settembre 1991, n. 10172). Val quanto dire che, se l'accertamento dell'esistenza, validità e natura giuridica di un contratto, fonte di un rapporto obbligatorio, costituisce il presupposto logico-giuridico di un diritto derivatone, il giudicato si estende al predetto accertamento e pertanto spiega effetto in ogni altro giudizio, tra le stesse parti, nel quale il medesimo contratto è posto a fondamento di ulteriori diritti, inerenti al rapporto (Cass. 29 settembre 1997, n. 9548).

Con particolare riguardo all'ordinanza di convalida di licenza o sfratto per finita locazione si trova parimenti affermato che l'ordinanza di convalida di licenza o sfratto per finita locazione, preclusa l'opposizione tardiva, acquista efficacia di cosa giudicata sostanziale non solo sull'esistenza della locazione, sulla qualità di locatore dell'intimante e di conduttore dell'intimato, sull'intervento di una causa di cessazione o risoluzione del rapporto, ma altresì sulla qualificazione di esso, se la scadenza del medesimo, richiesta e accordata dal giudice, è strettamente correlata alla tipologia del contratto (Cass. 23 giugno 1999, n. 6406).

Sempre in ordine ai limiti oggettivi del giudicato, è da osservare che l'ordinanza di convalida di sfratto per morosità non copre di giudicato l'entità della morosità indicata in atto introduttivo: il combinato disposto degli artt. 664 e 669 c.p.c., infatti, mostra con evidenza che l'entità della morosità può essere posta in discussione sia mediante opposizione al decreto ingiuntivo, sia nel corso del separato giudizio nel quale il locatore eventualmente agisca per la realizzazione del suo credito.

Resta da dire, in ultimo, che, stando alla giurisprudenza della Cassazione, l'efficacia di giudicato propria dell'ordinanza di convalida non preclude che la locazione sia dichiarata risolta in un successivo giudizio per un inadempimento anteriormente verificatosi (Cass., 17 luglio 2008, n. 19695).

Esaminiamo infine il problema dell'eventuale autorità del provvedimento che chiude la fase di sanatoria della morosità.

La sanatoria eseguita in udienza, così come quella effettuata nel termine assegnato dal giudice, secondo quanto correttamente affermato nella pronuncia in commento, cancella l'effetto risolutorio dell'inadempimento del conduttore e, pertanto, provoca l'estinzione del processo, da pronunciarsi con ordinanza.

Talora è stato affermato che l'ordinanza di estinzione, adottata dal giudice in seguito alla sanatoria della morosità è equiparabile ad una pronunzia di rigetto della domanda di risoluzione del contratto di locazione insita nell'intimazione di sfratto per morosità (Cass., 18 ottobre 2001, n. 12743). E l'affermazione non contraddice quanto si è appena detto: e cioè si deve distinguere il caso in cui, effettuata la sanatoria, il locatore nulla dica, dal caso in cui invece egli sostenga che la purgazione della mora, per qualunque ragione, non ha avuto luogo. Tale ordinanza, difatti, va pronunciata solo nell'ipotesi che non sorgano contestazioni sulla efficacia della purgazione della mora, mentre, nel caso opposto, quali che siano le doglianze dell'intimante, la causa dovrà sempre proseguire, attraverso il consueto snodo della decisione sull'ordinanza provvisoria di rilascio, se richiesta, e della trasformazione del rito, per pervenire ad una decisione in punto di idoneità della sanatoria.

In definitiva, l'ordinanza che prende atto dell'intervenuta sanatoria, non controversa tra le parti, non contiene alcun accertamento avente efficacia di giudicato, in ordine all'esistenza della morosità, e tantomeno in ordine al pagamento eseguito in sede di sanatoria. Altra questione è se le dichiarazioni delle parti raccolte dal giudice abbiano efficacia probatoria eventualmente confessoria, ma non era di questo che la SC era stata chiamata ad occuparsi.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.