I rimedi avverso l'ordinanza determinativa delle modalità esecutive ex art. 612 c.p.c.

30 Maggio 2017

In caso di inadempimento di un obbligo di fare o di disfare, il creditore può ricorrere al giudice dell'esecuzione in modo che questi determini le modalità di esecuzione. Sempre che si tratti di un fare fungibile e che sia necessario invadere la sfera di autonomia dell'obbligato. Il giudice dell'esecuzione detta le modalità con ordinanza, opponibile ex art. 617 c.p.c.. Tuttavia, quando non si limita a dettare le predette modalità, non vi è certezza in merito al rimedio da utilizzare. Allo stato si attende un intervento delle Sezioni Unite volto a garantire la certezza del diritto.
L'ambito di applicazione della norma

L'esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare è il secondo tipo di esecuzione specifica prevista nel nostro ordinamento. Con questa forma di esecuzione si realizzano gli obblighi positivi di fare, oppure quelli, originariamente negativi, consistenti nel divieto di fare, ma che, a seguito della violazione di questo divieto, sono divenuti anch'essi positivi, in quanto trasformati nell'obbligo di eliminare ciò che è stato fatto in violazione dell'originario obbligo di non fare. Il fondamento di diritto sostanziale di questo procedimento esecutivo lo si rinviene negli artt. 2931 e 2933 c.c.. Le situazioni sostanziali tutelabili possono avere ad oggetto sia un'obbligazione in senso proprio, sia un diritto reale, sia un diritto della personalità (MANDRIOLI, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2014).

Il limite alla utilizzabilità di questo tipo di esecuzione non è dato, dunque, dalla natura del diritto da cui è sorto l'obbligo di fare o di non fare, quanto piuttosto dalla obiettiva possibilità di realizzare in senso giuridico il risultato di un altrui comportamento indipendentemente dalla volontà del soggetto obbligato o addirittura contro la sua volontà. Il procedimento esecutivo in esame consente, infatti, di attuare coattivamente i soli obblighi di fare che hanno ad oggetto una prestazione fungibile, vale a dire quella che può essere eseguita dal debitore o da un terzo con identica soddisfazione per il creditore. Per poter attuare questo tipo di esecuzione non basta però che la prestazione sia fungibile, occorre anche che quell'adempimento non possa avvenire senza l'invasione della sfera di autonomia del debitore. Quando, invece, l'obbligazione di fare o di disfare non postula alcuna invasione dell'altrui sfera di autonomia, l'esecuzione specifica non è affatto necessaria. Se, infatti, la prestazione è fungibile e se la sua esecuzione può avvenire senza violare la sfera di autonomia del debitore, nulla impedisce al creditore di soddisfarsi autonomamente, salvo poi farsi rimborsare il costo dell'opera.

Un ulteriore limite alla possibilità di fare ricorso alla tutela esecutiva in esame lo si rinviene nell'art. 2933, comma 2, c.c.; tale limite non è imposto da necessità naturali, bensì da una valutazione di carattere politico legislativo, esso consiste nel divieto di ricorrere alla sanzione della distruzione quando essa implichi pregiudizio all'economia nazionale: si pensi alle cose insostituibili o di eccezionale importanza per l'economia nazionale, in quanto incidenti sulle fonti di produzione o di distribuzione della ricchezza. In questo caso, l'interesse privato del creditore all'esecuzione in forma specifica cede di fronte all'interesse pubblico, con la conseguenza che la tutela del creditore potrà realizzarsi solo nella forma del risarcimento pecuniario. Si tratta ovviamente di un limite che avendo carattere eccezionale non è suscettibile di applicazione analogica (MANDRIOLI, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, in Dig. disc. priv., VII, Torino, 1998).

Il procedimemto

L'esecuzione in questione, come ogni altra forma di esecuzione forzata, inizia dopo la notifica dei c.d. atti preliminari, ovvero titolo esecutivo ed atto di precetto. La norma non specifica il contenuto del precetto né prevede la necessità di inserirvi una descrizione dell'obbligo rimasto inadempiuto. Ciononostante si ritiene che una descrizione, seppur sommaria, sia necessaria, al fine di porre l'obbligato in condizione di sapere cosa il creditore si aspetta.

In seguito alla predetta notifica il creditore deposita un ricorso, sottoscritto da un difensore munito di procura, presso la cancelleria del tribunale del luogo in cui l'obbligo deve essere adempiuto (art. 26 c.p.c.), quale giudice dell'esecuzione, con il quale, specificata la prestazione contenuta nel titolo, chiede che siano determinate le modalità dell'esecuzione. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti il procedimento esecutivo inizia con la proposizione del detto ricorso (PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012; VERDE, Diritto processuale civile, Bologna, 2012; Cass. 20 gennaio 1994, n. 457; Cass. 21 aprile 1964, n. 932), anche se non manca nella dottrina più risalente chi individua il momento iniziale nel provvedimento con il quale il giudice dell'esecuzione dispone la comparizione della parte obbligata (DENTI, L'esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953) e chi, invece, ravvisa l'inizio del procedimento nella notificazione dell'atto di precetto (SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1966).

Ricevuto il ricorso, il cancelliere procede a formare il fascicolo d'ufficio, in cui sono inseriti gli atti processuali, nonché il titolo ed il precetto debitamente notificati. Il giudice designato, esaminato il ricorso, provvede ad attuare il contraddittorio disponendo l'audizione delle parti; dopodiché con ordinanza determina le modalità esecutive designando l'ufficiale giudiziario che deve procedere all'esecuzione e le persone che devono provvedere al compimento dell'opera non eseguita oppure all'eliminazione di quella già compiuta in violazione di un obbligo di non fare. Tali designazioni sono necessarie, in quanto il giudice che ha emesso una sentenza di condanna di una parte all'adempimento di un obbligo di fare o di non fare non può certo autorizzare il titolare del correlativo diritto a provvedere egli stesso e direttamente all'esecuzione di tale obbligo a spese della controparte in difetto di spontaneo ed esatto adempimento da parte dell'obbligato, se occorre invadere la sfera di autonomia di quest'ultimo.

Al riguardo, già a partire dai primi anni di applicazione della norma, è sorto il problema se in sede di determinazione delle modalità esecutive il giudice dell'esecuzione possa integrare il contenuto del titolo esecutivo. La questione si intreccia con quella – più ampia – concernente i poteri del giudice dell'esecuzione: in particolar modo, se costui abbia poteri decisori o se invece abbia soltanto poteri meramente ordinatori. In altre parole, vi è da chiedersi, ove il giudice dell'esecuzione statuisca in ordine all'esistenza o alla portata del titolo esecutivo, se si sia in presenza di un potere che gli compete, per cui gli atti relativi da lui compiuti soggiacciono al regime dei provvedimenti esecutivi o se invece ponga in essere un provvedimento abnorme, impugnabile come sentenza in senso sostanziale.

Al riguardo, si afferma comunemente che il giudice dell'esecuzione debba innanzitutto verificare che nel titolo sia indicata la prestazione dovuta, la quale deve essere determinata o almeno determinabile; egli, inoltre, deve interpretare la sentenza, individuando la sua portata precettiva sulla base delle statuizioni contenute nel dispositivo e delle considerazioni enunciate nella motivazione, che costituiscono le premesse logiche e giuridiche della decisione; può anche modificare le modalità già determinate nel titolo, quando risulti l'impossibilità di compiere l'esecuzione secondo le direttive ivi descritte. Ciò che non è chiaro è quale sia l'ampiezza del potere del giudice dell'esecuzione di interpretare, specificare ed integrare il contenuto dell'obbligo contenuto nel provvedimento di condanna: ci si chiede infatti fino a che punto l'ordinanza del giudice dell'esecuzione possa supplire all'eventuale difetto di concretezza nell'accertamento della sanzione contenuto nella sentenza di condanna, dovendosi escludere ogni reciproca fungibilità tra la sentenza di condanna e l'ordinanza in questione. Esse, infatti, assolvono funzioni diverse: la prima consiste nell'accertamento della sanzione, ovvero della situazione sostanziale realizzabile, l'altra nello stabilire le modalità pratiche necessarie per quella realizzazione.

. I rimedi avverso il provvedimento del giudice dell'esecuzione

Come accennato, la questione attinente alla latitudine dei poteri del giudice dell'esecuzione è strettamente collegata al problema concernente l'impugnabilità dell'ordinanza del g.e.: di regola, detto provvedimento è modificabile e revocabile ex art. 487 c.p.c. dal giudice che l'ha pronunciata ed impugnabile con l'opposizione agli atti esecutivi.

Il regime appena descritto opera tuttavia solo se l'ordinanza si mantiene “nei limiti”, ovvero se l'ufficio esecutivo si limita a designare gli organi della procedura ed a determinare le modalità pratiche dell'esecuzione.

Se, invece, contiene statuizioni contrastanti con il contenuto del titolo o decide controversie insorte sulla portata sostanziale del titolo, oppure si pronuncia sulla conformità al titolo della pretesa esecutiva dell'istante si ritiene che perda la sua natura esecutiva. Fino a pochissimo tempo fa, in questi casi, la giurisprudenza prevalente e costante, applicando il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, era solita attribuire all'ordinanza natura di sentenza ed in quanto tale la riteneva appellabile. La tesi dell'appellabilità veniva invocata o sul presupposto che l'ordinanza in questione costituiva una decisione emessa all'esito di un giudizio di opposizione all'esecuzione o come rimedio contro un provvedimento abnorme, che ha invaso la sfera del potere cognitivo.

Quest'indirizzo è stato costantemente ribadito per decenni, anche se in dottrina si è osservato criticamente che se si vuole riconoscere all'appello la natura di rimedio contro l'abnormità dell'atto occorre negare al giudice dell'esecuzione la possibilità di specificare il contenuto della sentenza di condanna, riducendo la sua funzione alla designazione dell'ufficiale giudiziario e delle persone necessarie a provvedere all'esecuzione.

Sulla base di questa premessa, diverse sono state le tesi prospettate in dottrina al fine di conciliare l'integrabilità del titolo esecutivo con la natura esecutiva del provvedimento emanato dal giudice dell'esecuzione. Secondo un autorevole autore, ad esempio, tale conciliazione è realizzabile riconoscendo al creditore il potere di specificare nel precetto le modalità esecutive non contemplate nel titolo, ma essenziali per la concreta attuazione dell'obbligo. Il precetto avrebbe la funzione di enunciare al debitore, insieme al titolo, la pretesa esecutiva, mentre all'ordinanza spetterebbe solo il compito di attuarla (MONTESANO, Esecuzione specifica, in Enc. dir., Milano, 1966). Secondo altra parte della dottrina, invece, il rimedio avverso il provvedimento con cui il giudice ha esercitato poteri non meramente esecutivi è costituito dall'opposizione all'esecuzione ex art. 615 c.p.c., intesa come rimedio utilizzabile non solo nelle ipotesi in cui l'azione esecutiva è contestata dal debitore, ma anche in quelle in cui la parte o un terzo, e quindi anche il creditore, deducono un danno allo svolgimento dell'attività esecutiva (BORRE', Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966). Secondo un'altra parte ancora, il rimedio avverso le pronunce del giudice dell'esecuzione che esorbitano i suoi poteri invadendo il campo del vero e proprio accertamento sarebbe l'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. (BUCOLO, Sui rimedi avverso i provvedimenti pretorili di cui agli artt. 610 e 612 cod. proc. civ.: giudizio autonomo, appello o opposizione formale?, in Giur. it., I, 1967).

La questione, come si può vedere, non è ancora risolta; oggi, peraltro, forti incertezze si registrano non solo in dottrina, ma anche nella giurisprudenza della Suprema Corte.

Recentemente, infatti, la terza sezione civile della Corte è intervenuta più volte sulla questione, fornendo soluzioni differenti al problema. Nello specifico, mentre una decisione più recente ribadisce l'orientamento tradizionale, secondo il quale l'ordinanza che ha risolto una contestazione relativa alla portata sostanziale del titolo esecutivo acquista natura di sentenza in senso sostanziale di una opposizione all'esecuzione e come tale impugnabile con i mezzi ordinari (così Cass., sez. III, 8 dicembre 2016, n. 27185), un'altra pronuncia ne rappresenta il superamento. In essa, infatti, la Corte afferma che l'ordinanza che abbia illegittimamente risolto una questione in ordine alla portata sostanziale del titolo esecutivo ed all'inammissibilità dell'azione esecutiva intrapresa non è mai considerabile come una sentenza in senso sostanziale decisiva di un'opposizione all'esecuzione, ma è qualificabile come un provvedimento conclusivo della fase sommaria di una opposizione all'esecuzione, con la conseguenza che la parte interessata potrà tutelarsi introducendo il giudizio di merito ex art. 616 c.p.c. (Cass., sez. III, 21 luglio 2016, n. 15015). Alla luce dell'attuale contrasto, appare certamente auspicabile l'intervento delle Sezioni Unite al fine di comporre i contrasti emersi e garantire così la certezza del diritto.

Riferimenti
  • BORRE', Esecuzione forzata degli obblighi di fare e di non fare, Napoli, 1966;
  • BOVE - BALENA, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006;
  • BUCOLO, Sui rimedi avverso i provvedimenti pretorili di cui agli artt. 610 e 612 cod. proc. civ.: giudizio autonomo, appello o opposizione formale?, in Giur. it., I, 1967;
  • MANDRIOLI, Diritto processuale civile, IV, Torino, 2014;
  • DENTI, L'esecuzione forzata in forma specifica, Milano, 1953;
  • MANDRIOLI, Esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, in Dig. disc. priv., VII, Torino, 1998;
  • PROTO PISANI, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2012;
  • SATTA, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1966;
  • VERDE, Diritto processuale civile, Bologna, 2012.

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