Trasferimento gratuito di strumenti finanziari a mezzo bancogiro: è donazione (diretta) e occorre la forma solenne

Mauro Di Marzio
02 Agosto 2017

Se il titolare di strumenti finanziari (in questo caso si trattava di quote di fondi e di titoli di Stato) li trasferisce gratuitamente ad un terzo semplicemente ordinando alla banca presso cui i titoli sono depositati di «spostarli» su un diverso conto titoli di un terzo, si realizza una donazione?
Massima

Il trasferimento per spirito di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli dal beneficiante a quello del beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l'esecuzione di un ordine di bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta; ne deriva che la stabilità dell'attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell'atto pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l'ipotesi della donazione di modico valore.

Il caso

Un uomo gravemente malato, con tutta probabilità ben consapevole della fine che si approssima, dà ordine alla propria banca di trasferire strumenti finanziari per un cospicuo importo da un suo conto deposito titoli ad un diverso conto del quale è titolare la sua convivente: ordine che la banca esegue mediante una operazione di bancogiro, e cioè, in buona sostanza, attraverso un bonifico dall'uno all'altro conto. Giorni dopo l'uomo muore senza testamento. Ne sorge una controversia che vede opposta la figlia alla convivente: la prima agisce in giudizio deducendo la nullità del trasferimento dei titoli, avvenuto gratuitamente, trattandosi di donazione, indubbiamente di non modico valore, mancante della forma solenne richiesta dall'art. 782 c.c.; la convenuta si difende sostenendo, tra l'altro, che non si tratta di donazione diretta, bensì indiretta, per la quale la forma scritta non è richiesta, ai sensi dell'art. 809 c.c..

Nelle fasi di merito il giudizio giunge a risultati contrastanti: il tribunale dà ragione alla figlia, mentre la corte d'appello assegna la vittoria alla convivente, ritenendo che la donazione indiretta possa realizzarsi anche a mezzo di un solo negozio, quale l'ordine di trasferimento dei titoli impartito dal beneficiante alla banca.

La figlia ricorre dunque per cassazione, riproponendo la tesi sostenuta nel corso del giudizio di merito: si tratta, secondo lei, di donazione diretta, effettuata senza la forma scritta e per questo nulla. La causa è avviata alla sezione di competenza, la quale però rileva l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul quesito se la donazione indiretta possa o meno realizzarsi a mezzo di un unico negozio, e rimette dunque gli atti alle Sezioni Unite, anche in considerazione della particolare importanza della questione.

La questione

Se il titolare di strumenti finanziari (in questo caso si trattava di quote di fondi e di titoli di Stato) li trasferisce gratuitamente ad un terzo semplicemente ordinando alla banca presso cui i titoli sono depositati di «spostarli» su un diverso conto titoli di un terzo, si realizza una donazione? Ed è una donazione «vera e propria», ossia una donazione diretta, oppure una donazione mediante la quale lo scopo di liberalità è realizzato solo per via mediata da un diverso atto negoziale?

Le soluzioni giuridiche

Le Sezioni Unite danno ragione alla figlia.

Esse muovono da una ricognizione dei casi in cui la giurisprudenza ha riconosciuto la sussistenza di una donazione indiretta, come tale affrancata dalla necessità della forma solenne. In taluni casi la donazione indiretta si realizza uno actu:

i) il contratto a favore di terzo;

ii) la cointestazione della somma di denaro, appartenente in realtà ad uno solo dei cointestatari, depositata su un conto acceso presso un istituto di credito;

iii) la cointestazione di buoni postali fruttiferi;

iv) l'adempimento del debito altrui eseguito dal terzo per spirito di liberalità verso il debitore;

v) la compravendita, o altro negozio oneroso, ad un corrispettivo di gran lunga inferiore o superiore al valore del bene trasferito;

vi) la rinuncia abdicativa.

Altre volte il risultato liberale si raggiunge mediante la combinazione di più negozi o atti, come nel caso della intestazione di beni a nome altrui, nella quale la dazione del denaro, anche quando fatta dal beneficiante al beneficiario, assume un valore semplicemente strumentale rispetto allo scopo di fare acquistare la proprietà del bene a quest'ultimo.

Le Sezioni Unite rammentano poi che, al contrario, la donazione diretta è stata riconosciuta:

i) in caso di trasferimento effettuato dal depositante del libretto di deposito a risparmio;

ii) in caso di emissione di titoli di credito in favore del beneficiario, come cambiali, assegni bancari o assegni circolari;

iii) in caso di accollo interno effettuato per spirito di liberalità.

La sentenza, quindi, scegliendo di tralasciare il discusso inquadramento dogmatico delle liberalità non donative, si sofferma sulla distinzione tra queste ultime ed il contratto di donazione, alla luce del compiuto scrutinio del dato giurisprudenziale, escludendo per tale via che possa essere qualificato come liberalità non donativa il trasferimento di strumenti finanziari, effettuato per spirito di liberalità, da un conto ad un altro attraverso l'operazione di bancogiro. Difatti tale operazione non dà luogo ad una relazione negoziale trilatera, ed in definitiva non determina l'arricchimento del donatario ed il depauperamento del donante per spirito di liberalità mediante il ricorso ad uno strumento giuridico diverso dalla donazione. Viceversa, l'intervento della banca costituisce mera esecuzione di un atto negoziale ad essa esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, atto negoziale che, solo, giustifica lo spostamento patrimoniale dall'uno all'altro. Si è dunque di fronte non ad una donazione attuata indirettamente, ma di una donazione tipica, nel contesto della quale l'operazione di bancogiro costituisce mera modalità esecutiva del trasferimento dei titoli dall'uno all'altro.

Osservazioni

Il tema delle liberalità non donative è da decenni oggetto di un ampio dibattito dottrinale, con rilevanti risvolti pratici, giacché dalla sua soluzione discendono importanti conseguenze operative, essenzialmente con riguardo alla soggezione del disponente alle formalità del contratto di donazione pur in presenza di atti che, a stretto rigore, donazioni, non sono. Le liberalità non donative trovano il principale riferimento normativo nell'art. 809 c.c., il quale individua le norme dettate per le donazioni «applicabili agli altri atti di liberalità» (così la rubrica della disposizione), ossia agli «atti diversi da quelli previsti dall'art. 769 c.c.», che definisce il contratto di donazione come caratterizzato per un verso dallo spirito di liberalità e, per altro verso, dall'arricchimento dall'una all'altra parte.

In generale costituisce liberalità non donativa qualsiasi liberalità attuata attraverso uno strumento giuridico connotato, in astratto, da una finalità tipica distinta da quella considerata dagli artt. 769 ss. c.c., e tuttavia sorretto da una causa concreta coincidente con quella della donazione vera e propria. In altre parole, ferma la sussistenza dello spirito di liberalità e dell'arricchimento, propri di qualunque liberalità, donativa o no, si ha contratto di donazione laddove l'intento liberale si raggiunge in via diretta attraverso la disposizione di un proprio diritto o l'assunzione di una obbligazione. Se, invece, il medesimo intento è realizzato attraverso strumenti giuridici diversi dalla donazione, si è in presenza di una liberalità non donativa.

Tentando di semplificare, sembra potersi dire che, nel dibattito dottrinale, taluni vanno alla ricerca dell'elemento unificatore delle liberalità, donative o meno, nel tentativo di individuare il tratto distintivo di una omogenea categoria di atti di liberalità. Altri sottolineano piuttosto le differenze.

Il tratto unificante (la tesi è di Giorgio Oppo) è stato individuato, nella prima metà del secolo scorso, nell'intento di liberalità, inteso quale causa del negozio: causa, beninteso, nell'accezione all'epoca accolta di «funzione economico sociale». E, tuttavia, la nozione stessa di intento di liberalità è rimasta poi sfuggente ed incerta, essendo stata talora intesa in senso soggettivo, così da scivolare nel campo dei motivi, talora come spontaneità (il che rimanda al codice civile previgente), talora come intento di arricchire.

Si è proposto, allora, di individuare l'elemento di riconoscimento della categoria delle liberalità nell'effetto di arricchire. Ma — al di là del fatto che vi sono donazioni che non arricchiscono, quali quelle alle quali sia apposto un onere tale da assorbire totalmente il valore dell'attribuzione compiuta: art. 793 c.c. — questa impostazione finisce per svalutare la distinzione, che è invece netta, tra atti di liberalità e atti a titolo gratuito: ognuno intende, senza che occorra spiegare in dettaglio il perché, che l'offerta di «due al prezzo di uno», praticata dal supermercato vicino casa, mi consente di acquistare gratuitamente una saponetta pagandone un'altra, ma non dà luogo ad un atto di liberalità.

In tempi più recenti si è sostenuto che le liberalità si identificano — secondo quanto del resto sancisce l'art. 769 c.c. — e attraverso l'arricchimento, e attraverso lo spirito di liberalità: spirito di liberalità inteso però non in senso soggettivo, ma come funzione del negozio, in quanto volto a soddisfare un interesse di natura non patrimoniale del disponente: «L'interesse specifico perseguito dall'autore della liberalità — spiega Giuseppe Amadio — potrà essere vario (la beneficienza, il riconoscimento di meriti, la conservazione della memoria familiare, l'affetto amicale, e via discorrendo) purché esso resti un interesse non economico. Interesse che, in quanto "oggettivato" nell'accordo (o comunque obiettivamente percepibile dal complessivo comportamento contrattuale delle parti), trascende la sfera dei motivi individuali per caratterizzare la causa concreta dell'operazione negoziale».

Venendo ai responsi giurisprudenziali, il caso per così dire paradigmatico di liberalità non donativa, su cui si sofferma anche la sentenza in commento, è evidentemente quello dell'intestazione di un bene a nome altrui, tema del quale non è qui il caso di discorrere. Una liberalità non donativa può tuttavia ricorrere anche in presenza di atti non negoziali, quali l'astenersi dall'interrompere la prescrizione; il non indicare la natura personale del denaro impiegato nell'acquisto di un bene in comunione legale dei coniugi; il realizzare un'opera sul fondo altrui con rinuncia all'indennità dell'art. 936 c.c. (Cass. 27 luglio 2000, n. 9872). E può realizzarsi mediante il deposito di somme presso una banca con successiva emissione di libretti di deposito intestati ai futuri eredi (Cass. 18 novembre 1974, n. 3669); mediante il versamento da parte del cointestatario di somme proprie su un conto bancario cointestato con firma e disponibilità disgiunte (Cass. 10 aprile 1999, n. 3499: è la sentenza invocata nel nostro caso dalla convivente per difendere la validità del proprio acquisto); mediante il deposito da parte di uno dei contitolari di titoli in un conto in contitolarità (Cass. 22 settembre 2000, n. 12552); mediante l'effettuazione, successivamente alla donazione, di migliorie apportate da parte del donante sul bene donato (Cass. 4 agosto 1982, n. 4381); mediante la permuta di un immobile con buoni del tesoro oggetto di una pregressa donazione tra le parti (Cass. 9 maggio 1979, n. 2658); mediante la sostituzione a sé di un diverso acquirente, al quale viene fornito il denaro per il pagamento del prezzo, nell'arco temporale tra il preliminare e il definitivo (Cass. 19 marzo 1980, n. 1851); mediante il mandato ad amministrare con obbligo di versare la rendita al beneficiario (Cass. 6 giugno 1969, n. 1987); mediante l'assunzione del debito altrui realizzata per spirito di liberalità (Cass. 3 giugno 1982, n. 3394); mediante la vendita di un immobile per un corrispettivo pari al valore catastale, manifestamente inferiore a quello reale, così da dar luogo ad un negotium mixtum cum donatione (Cass. 8 luglio 1983, n. 4618).

Nel caso esaminato dalle Sezioni Unite, è stato ritenuto superfluo soffermarsi sulla complessiva configurazione dogmatica della categoria delle liberalità non donative: correttamente si è ritenuto sufficiente osservare che la liberalità era stata in questo caso posta in essere non già attraverso strumenti giuridici diversi dalla donazione, ma direttamente, ossia con un atto a tutti gli effetti di donazione.

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