In caso di parto anonimo la madre può essere interpellata: lo dicono le Sezioni Unite

Alberto Figone
03 Aprile 2017

La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite prende le mosse dalla sentenza della Corte cost. n. 278/2013, in ordine al diritto del figlio, nato da parto anonimo, di accedere alle informazioni di accedere alle informazioni sulla madre biologica.
Massima

In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte cost. n. 278/2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l'anonimato non sia rimossa in seguito all'interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità.

Il caso

La Corte d'appello di Milano aveva respinto il reclamo di un soggetto maggiorenne, nato da parto anonimo, il quale aveva fatto istanza al Tribunale minorile (che si era espresso in senso negativo) di verificare, attraverso un interpello riservato, la persistenza della volontà della propria madre di non essere nominata. Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, divenuto irrevocabile quel provvedimento, propone ricorso ex art. 363 c.p.c., chiedendo l'enunciazione nell'interesse della legge, del principio, cui la Corte milanese avrebbe dovuto attenersi nel decidere. Stante la particolare rilevanza della questione, il Primo Presidente ha richiesto l'intervento delle Sezioni Unite.

La questione

La questione sottoposta all'esame delle Sezioni Unite prende le mosse dalla sentenza della Corte cost. n. 278/2013, in ordine al diritto del figlio, nato da parto anonimo, di accedere alle informazioni sulla madre biologica. Ci si chiede se l'attuazione di detto diritto richieda o meno uno specifico intervento legislativo, ad oggi assente, a fronte dei differenti orientamenti assunti dalla giurisprudenza di merito.

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, l'art. 28 comma 5 l. n. 184/1983 attribuisce al figlio adottivo, una volta raggiunta l'età di venticinque anni, il potere di richiedere informazioni relative alla propria origine ed all'identità dei genitori biologici. Analogo potere è attribuito al soggetto di età inferiore, purché maggiorenne, ove sussistano gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. La richiesta va inoltrata al Tribunale per i minorenni, il quale potrà accoglierla al termine di un'istruttoria, finalizzata ad acquisire il consenso dei genitori e ad accertare se l'accesso alle notizie non possa arrecare un rilevante turbamento al richiedente (comma 6). Nel contempo, l'art. 28, comma 7, escludeva l'accesso alle informazioni per il caso in cui la madre avesse dichiarato di non voler essere nominata nell'atto di nascita ai sensi dell'art. 30, comma 1, d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (nuovo ordinamento dello stato civile). Nella ratio legis, dunque, la scelta compiuta dalla madre al momento del parto si connotava così per l'assolutezza e l'irreversibilità.

Con sentenza del 25 novembre 2005, n. 425, la Corte Costituzionale aveva ritenuto non fondata la questione di costituzionalità dell'art. 28, comma 7, l. n. 184/1983 per dedotto contrasto con gli artt. 2, 3 e 32 Cost.. In quell'occasione la Consulta, procedendo ad un bilanciamento tra il diritto della madre a mantenere l'anonimato e quello del figlio alla propria identità personale, aveva ritenuto di dare preminenza al primo; ciò per non disincentivare il diritto della gestante in difficoltà di partorire in una struttura sanitaria appropriata, senza il rischio di essere interpellata in un imprecisato futuro, su richiesta di un figlio mai conosciuto e già adulto, con una compromissione del diritto all'oblio.

Successivamente è intervenuta al riguardo la Corte EDU, con sentenza 25 settembre 2012, n. 33783 (Godelli c. Italia), assumendo una posizione difforme. Si è infatti ritenuta contrastante con l'art. 8 CEDU la disciplina italiana che escludeva ogni possibilità per il figlio adulto, nato a seguito di parto anonimo e successivamente adottato da terzi, di chiedere vuoi l'accesso alle informazioni non identificative delle sue origini familiari, vuoi la verifica della persistente volontà della madre biologica di non essere identificata. Coerentemente la Corte Costituzionale con sentenza 22 novembre 2013, n. 278 ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 28, comma 7, l. n. 184/1983 nella parte in cui non prevede, attraverso un procedimento stabilito dalla legge in grado di assicurare la massima riservatezza, la possibilità per il Giudice di interpellare la madre che abbia richiesto di non essere nominata nell'atto di nascita, ai fini di un'eventuale revoca di tale dichiarazione, su richiesta del figlio. La Corte tiene ad evidenziare come la scelta per l'anonimato impedisca l'insorgenza di una “maternità giuridica”, con effetti stabilizzati per il futuro; quella scelta non può tuttavia precludere all'instaurazione di rapporti relativi alla “genitorialità sociale”, nel caso in cui la madre intenda rivedere la posizione a suo tempo assunta. La Corte Costituzionale, in chiusura del suo argomentare osserva: «sarà compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all'anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto».

Sulla scorta della pronuncia della Consulta si sono formati due diversi indirizzi nella giurisprudenza di merito. Secondo un primo orientamento, nella perdurante mancanza di un intervento del Parlamento, l'interpello della madre non potrebbe avvenire da parte del Giudice, con la conseguente impossibilità per il figlio di richiedere informative sulla madre medesima. In diversa prospettiva, si ritiene che la norma dichiarata incostituzionale non potrebbe essere applicata ed il Giudice dovrebbe dare attuazione al diritto fondamentale del figlio a conoscere la propria identità, secondo metodologie idonee a garantire l'anonimato della madre ed il suo diritto all'autodeterminazione.

Dopo che la Corte d'appello di Milano, con decreto non impugnato, aveva aderito al primo indirizzo, respingendo il ricorso di un figlio maggiorenne adottato volto a conoscere l'identità della madre, il Procuratore Generale presso la Cassazione propone ricorso ai sensi dell'art. 363 c.p.c. nell'interesse della legge. Come è noto, si tratta di un ricorso che non incide sul provvedimento impugnato, essendo finalizzato solo a stimolare l'intervento del Giudice di legittimità, al fine di un auspicato componimento giurisprudenziale, in nome delle funzione nomofilattica della Corte di Cassazione. La peculiarità della fattispecie ha indotto il Primo Presidente ad assegnare il ricorso alle Sezioni Unite.

La sentenza qui annotata, dopo una puntuale ricostruzione degli interventi della Corte Costituzionale e di quella EDU di cui si è detto, evidenzia come la pronuncia della Consulta n. 278/2013 sia stata di accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata. La norma dichiarata illegittima (art. 28, comma 7, l. n. 184/1983) ha cessato, dunque, di avere efficacia, con conseguente eliminazione del relativo divieto ivi contemplato. Più specificatamente, osservano le Sezioni Unite che la citata pronuncia rappresenta «una sentenza additiva di principio o di meccanismo»; per effetto di essa «la disposizione dell'art. 28 comma 7 non è rimasta invariata, ma vive nell'ordinamento con l'aggiunta di questo principio informatore, capace di esprimere e di fissare un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato ed i diritti della madre». Venendo al punto nodale della questione, le Sezioni Unite osservano che, pur avendo la Consulta richiesto l'intervento del legislatore per riformare la lacuna incostituzionale e concretizzare un procedimento ad hoc, ciò «non esonera gli organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia il suo compito, dall'applicazione diretta di quel principio, né implica un divieto di reperimento dal sistema delle regole più idonee per la decisione dei casi loro sottoposti».

L'immediata applicabilità della sentenza della Consulta non trova ostacoli nel fatto che manchi ancora una regolamentazione del relativo procedimento. Dovrà farsi riferimento, allora, alla disciplina dei procedimenti in camera di consiglio, sulla scorta di quei protocolli adottati dai Tribunali che hanno già ritenuto di dar corso alle domande del figlio nelle fattispecie quali quella in esame. In altri termini l'intervento legislativo è privo di carattere infungibile; l'effettività dell'esercizio del diritto non può essere subordinato ad una normativa che lo disciplini.

Osservazioni

La sentenza in commento evidenzia come oggi al Giudice si chieda non solo di applicare ed interpretare la norma, ma anche di “crearla” nella perdurante assenza del legislatore. L'inerzia legislativa non può infatti in alcun modo ostacolare o impedire l'esercizio di diritti fondamentali della persona, riconosciuti a livello costituzionale ed europeo. L'elemento più rilevante della sentenza in esame non consiste nell'accertamento della natura giuridica della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, quanto nell'individuazione delle regole procedimentali da attuarsi, una volta dichiarato che, pur in difetto di intervento normativo, «sussiste la possibilità per il Giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre, che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata». Evidentemente devono essere adeguatamente contemperati i due diritti contrapposti, quello del figlio e quello della madre a mantenere l'anonimato, quale espressione di un più generale diritto all'oblio. I protocolli adottati presso il Tribunale vengono così ad assumere valore normativo, nell'attesa di un intervento legislativo che avrebbe dovuto essere varato già nel 2013; di tali protocolli la sentenza annotata dà ampio conto quale modello cui rifarsi.

Ancora una volta si deve stigmatizzare come il legislatore sia lento nel rispondere al bisogno di giustizia e comunque poco attento a raccogliere gli inviti della Corte Costituzionale, in presenza di declaratoria di illegittimità di precetti normativi. D'obbligo il riferimento alla sentenza n. 170/2014 sul c.d. divorzio imposto (Corte cost., 11 giugno 2014, n. 170). Come è noto, la Consulta aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 l. n. 164/1982, nella parte in cui non prevedevano che la sentenza modificativa del sesso, pur provocando lo scioglimento del matrimonio, consentisse comunque ai coniugi di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata. In quell'occasione la Corte aveva invitato il legislatore ad intervenire sul punto «con la massima sollecitudine per superare la rilevata condizione di illegittimità della disciplina». Solo con la l. n. 76/2016 (e, quindi, due anni dopo quella sentenza) è stato introdotto l'istituto delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. L'art. 1, comma 27, di detta legge ha disciplinato finalmente quella fattispecie, ammettendo la conversione del matrimonio in unione civile, ove entrambe le parti (oramai dello stesso sesso) abbiano deciso di mantenere in essere il vincolo tra di loro; l'inverso, invece, non avviene, onde in caso di mutamento di sesso di una delle parti dell'unione civile, questa si scioglie (art. 1 comma 26), ben potendo le stesse celebrare comunque un matrimonio. Nell'attesa della disciplina normativa, la Corte di Cassazione aveva affermato che il matrimonio tra colui che aveva mutato sesso e il coniuge doveva continuare ad avere validità fino all'introduzione normativa di una diversa tipologia di unione (Cass. 21 aprile 2015, n. 8097). In altri termini, la Cassazione ha introdotto nel nostro ordinamento un'inedita forma di matrimonio sottoposto a termine, malgrado il matrimonio sia sempre stato qualificato come actus legitimus, non assoggettabile a condizione e/o termine.

Certamente, l'intervento delle Sezioni Unite, con la decisione qui annotata, non ha risolto tutti i problemi, in particolare quello che si presenta nel caso in cui, dalle indagini esperite per conto del Tribunale minorile, risultasse l'intervenuto decesso della madre biologica del richiedente. Sul punto, peraltro, era già recentemente intervenuta la stessa Cassazione, che ha evidenziato come il diritto all'oblio rappresenti un diritto personalissimo della madre, con la conseguenza che, alla sua morte, nessuna preventiva autorizzazione sarebbe da richiedere, e, dunque, il figlio potrebbe legittimamente accedere alle informazioni circa la madre biologica (Cass. 21 luglio 2016, n. 15024) (A. Cagnazzo, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche, in IlFamiliarista.it).

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