Per la Corte EDU deve essere garantito il diritto al cambiamento di sesso anche senza la prova dell’incapacità di procreare

12 Agosto 2015

La disposizione normativa che preveda, tra le condizioni per ottenere l'autorizzazione giudiziale al mutamento di sesso, anche la prova dell'incapacità definitiva di procreare della persona transessuale, è da considerarsi in violazione dell'art. 8 CEDU, che sancisce il diritto alla vita privata.
Massima

La disposizione normativa che preveda, tra le condizioni per ottenere l'autorizzazione giudiziale al mutamento di sesso, anche la prova dell'incapacità definitiva di procreare della persona transessuale, è da considerarsi in violazione dell'art. 8 CEDU, che sancisce il diritto alla vita privata. Tale previsione non può considerarsi un'ingerenza legittima e “necessaria” in una società democratica, come disposto dall'art. 8, par. 2, CEDU: essa, invero, non tiene conto delle evoluzioni a livello internazionale ed europeo in tema di rettifica di sesso, frustrando l'identità della persona transessuale e comprimendone la libertà di scelta e, così, il conseguente diritto di vedersi riconosciuto lo status sociale conforme alla propria identità sessuale.

Il caso

Il 30 settembre 2005, Y.Y., persona transessuale di cittadinanza turca, adiva il tribunal de grand instance (TGI) di Mersin (Turchia) per ottenere l'autorizzazione all'intervento chirurgico di rettifica di sesso. Nato donna, Y.Y. sin da piccolo si era identificato di sesso maschile, i familiari e gli amici lo avevano accettato come tale e, in seguito a plurimi tentativi di suicidio, egli aveva intrapreso un percorso psicologico che si era concluso con l'indicazione dell'esistenza di un conflitto tra la propria identità biologica e quella attuale e della necessità di un intervento medico volto a permettergli di armonizzare la percezione intima di sé con le proprie caratteristiche fisiche. Il TGI, considerando che non fossero soddisfatte tutte le condizioni previste dall'art. 40 del codice civile turco applicabile, respingeva la domanda. Nello specifico, le relazioni mediche sollecitate dal giudice disponevano che il ricorrente non versasse nell'incapacità definitiva di procreare che invece la norma richiede quale condizione preliminare per l'autorizzazione. La decisione veniva confermata anche in ultima istanza.

Il 5 marzo 2013, Y.Y. inoltrava al TGI nuova domanda di cambiamento di sesso ai sensi dell'art. 40 del codice civile. Nel frattempo, si era sottoposto ad un intervento di mastectomia ed aveva intrapreso una cura ormonale volta ad aumentare il livello del tasso di testosterone. Il TGI verificava le condizioni necessarie all'autorizzazione e, pur rilevando che il ricorrente fosse ancora in grado di procreare, accoglieva la domanda.

Ciò nonostante Y.Y. adiva la Corte EDU, per violazione dell'art. 8 CEDU, che sancisce il diritto alla vita privata e familiare; pur essendo stata autorizzata al cambiamento di sesso Y.Y. lamentava l'eccessivo tempo trascorso tra la prima richiesta e la concessa autorizzazione, la violazione della normativa CEDU ad opera della normativa interna turca e, conseguentemente reclamava la condanna dello Stato turco al pagamento di un'equa soddisfazione a suo favore.

La Corte valuta che il principio dell'autonomia personale debba intendersi come il diritto di operare scelte relative al proprio corpo e rileva come sia ampiamente riconosciuto a livello internazionale che il transessualismo sia uno status che giustifica - per se - un trattamento medico volto ad aiutare le persone interessate. La Corte di Strasburgo, considerando che l'ingerenza operata dalla norma del codice civile turco che prevede l'impossibilità di procreare come condizione per l'autorizzazione alla rettifica di sesso sia illegittima e non conforme ai valori sui cui poggia una società democratica (elementi che l'art. 8, par. 2, CEDU prevede affinché la limitazione del diritto alla libertà personale sia legittima), conclude che vi è stata violazione dell'art. 8 CEDU ed accorda al ricorrente una equa soddisfazione ai sensi dell'art. 41.

La questione

La questione posta alla Corte EDU è la seguente: può configurarsi violazione dell'art. 8 CEDU, ossia del diritto alla vita privata della persona transessuale cui non venga concessa autorizzazione all'intervento di rettifica di sesso, da parte dell'autorità giurisdizionale, poiché non versa nella situazione di incapacità definitiva di procreare, condizione pregiudiziale disposta dalla normativa nazionale? Può configurarsi una tale violazione anche laddove l'autorizzazione all'intervento sia stata concessa, ma solo a distanza di molti anni ed a seguito di un primo diniego?

Le soluzioni giuridiche

A livello procedurale, la Corte ha considerato di poter ricevere il ricorso anche se al momento della presentazione della domanda, le pretese del ricorrente risultavano soddisfatte. L'autorizzazione all'intervento chirurgico di rettifica di sesso, tuttavia, giungeva dopo 7 anni ed a seguito di un diniego; anche in quest'ultima sede, peraltro, il giudice aveva rilevato che il ricorrente non compiesse il requisito della incapacità definitiva di procreare stabilito dalla legge. La seconda decisione di accoglimento costituisce dunque, secondo la Corte, il riconoscimento sostanziale della violazione della vita privata subita dal ricorrente entro il periodo intercorrente tra le due pronunce.

Nel merito, la Corte di Strasburgo considera che vi sia stata violazione dell'art. 8 CEDU. La Corte adotta un approccio dinamico, in linea con l'evoluzione della società, guardando alla posizione assunta da alcune istituzioni europee, nonché al trend normativo ed alla prassi degli Stati membri del Consiglio d'Europa, che si muove nel senso di eliminare, quale condizione preliminare per la rettifica, qualsiasi intervento chirurgico di sterilizzazione. La tendenza che incoraggia la Corte è volta ad innalzare il principio dell'autonomia decisoria, inteso quale motore dello sviluppo personale dell'individuo transessuale.

Osservazioni

La pronuncia si colloca nel solco della giurisprudenza sviluppatasi in seno alla Corte di Strasburgo in tema di transessualismo e compie, in questo ambito, un passo avanti. Nella decisione resa il 11 luglio 2002 nel caso Christine Goodwin c. Regno Unito (Corte EDU n. 28957/1995), la Corte aveva considerato che, conformemente al principio di sussidiarietà, compete agli Stati contraenti decidere le misure necessarie volte a garantire i diritti sanciti nella CEDU e che, per risolvere, nei propri ordinamenti, le questioni connesse al riconoscimento giuridico delle condizioni inerenti alla sfera sessuale delle persone transessuali che abbiano subito un'operazione chirurgica, gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento (par. 85).

In quella stessa sede, la Corte aveva altresì precisato che si dovesse attribuire minor rilievo all'assenza di un consensus europeo circa i metodi adottati per risolvere le questioni giuridiche e pratiche connesse con il transessualismo, piuttosto che all'esistenza di elementi chiari ed incontestati che manifestino una progressiva tendenza internazionale, tesa non solo verso un'accettazione sociale delle persone transessuali, ma anche verso il riconoscimento giuridico della nuova identità sessuale dei transessuali operati (par. 85).

Nel valutare l'esistenza di tale tendenza a livello internazionale, la Corte richiama, tra le altre, la Raccomandazione CM/Rec (2010)5 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri sulle misure per combattere la discriminazione basata sull'orientamento sessuale o l'identità di genere, nonché la Risoluzione n. 1728/2010 dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa sulla discriminazione basata sull'orientamento sessuale e l'identità di genere. Tra gli appelli ivi contenuti, vi è la raccomandazione agli Stati contraenti a garantire, nelle disposizioni legislative e nella prassi, il diritto delle persone transessuali ad ottenere documenti ufficiali che riflettano l'identità di genere scelta, senza alcun obbligo previo di subire la sterilizzazione o altre procedure mediche quali un'operazione di conversione sessuale o una terapia ormonale. La Corte nota anche come, recentemente, molti Stati contraenti abbiano modificato la propria legislazione interna in tema di accesso ai trattamenti di rettifica di sesso e di riconoscimento giuridico, abolendo l'esigenza di infertilità o sterilità (conviene ricordare che l'art. 2 l. 14 aprile 1982, n. 164, prevede che – solo laddove lo reputi necessario - «il giudice istruttore dispone con ordinanza l'acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell'interessato»).

Si restringe, così, il margine di apprezzamento degli Stati contraenti, eroso dall'incedere del principio dell'autonomia personale dell'individuo transessuale. Il passaggio è oltremodo chiaro nel parere conforme comune dei giudici Keller e Spano, che sviluppano il ragionamento relativo alla non conformità con la CEDU della sterilità definitiva come condizione preliminare all'accesso alla rettifica di sesso. È quanto evidenziato, d'altronde, anche nella dichiarazione congiunta stilata nel 2014 dall'OMS ed altre agenzie dell'ONU - Eliminating forced, coercive and otherwise involuntary sterilization: la sterilizzazione quale condizione previa alla rettifica di sesso e dello stato civile non può considerarsi come atto volontario. Sembra pertanto evidente come, in un caso come quello in commento, il margine di apprezzamento degli Stati non solo debba restringersi, ma «devrait être réduite à un minium».

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