Dichiarazione di adottabilità e stato di abbandono del minore: extrema ratio del nostro ordinamento

Marina Pavone
03 Agosto 2017

Il caso portato all'attenzione della Corte tocca, nell'ambito dei rapporti familiari, il delicato tema della limitazione del diritto del minore a vivere con i propri affetti e nel proprio ambiente...
Massima

La pronuncia di adottabilità di un minore impone particolare rigore atteso il prioritario diritto di quest'ultimo di vivere con i genitori nell'ambito della propria famiglia. La dichiarazione dello stato di abbandono, quale limite unico del predetto diritto, è l'extrema ratio alla quale si ricorre non in presenza di generici giudizi di incapacità genitoriale, ma solo qualora si ravvisino precisi elementi atti a dimostrare il reale, attuale e concreto pregiudizio per il figlio, a causa dell'irreversibile inidoneità dei genitori di allevarlo e prendersene cura per loro assoluta inadeguatezza. Pertanto, la dichiarazione di adottabilità è legittima in presenza di «fatti gravi, indicativi in modo certo dello stato di abbandono morale e materiale, che devono essere specificamente dimostrati in concreto, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale non basati su precisi elementi idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio».

Il caso

Il Tribunale per i Minorenni di Brescia dichiara non luogo a procedere sullo stato di adottabilità di una minore, nata nel 2010, dall'unione di due genitori entrambi tossicodipendenti.

La Corte d'appello di Brescia, sezione per i minorenni, su gravame del PM, in data 29 marzo 2016 (sent. n. 205/2016), riforma la sentenza evidenziando le gravi fragilità della madre che si è allontanata dalla comunità di recupero per seguire un nuovo compagno, a sua volta violento, con il quale ha generato un'altra figlia; rilevando che la donna - come da C.T.U. - appare “fredda” con la minore e richiamando le risultanze dei servizi sociali per i quali la genitrice ha dimostrato difficoltà in rapporto al nucleo familiare anche nei confronti della secondogenita avuta dal nuovo compagno. Parimenti il padre, pur avendo mostrato una relazione calda e vicina con la minore, persegue nell'assunzione di alcolici, negando la reiterata dipendenza, e mostra un comportamento non costante. Infine, le figure parentali più vicine, quali quella del nonno e della sua compagna, seppure adeguate a svolgere tale ruolo, non sono ritenute adatte ad assolvere la funzione di genitori. Di fatto, a detta della Corte d'appello, la minore ha manifestato l'esigenza di una condizione più stabile, dal punto di vista sia abitativo che affettivo, meno mutevole e provvisoria, tanto che, non essendo pronosticabile l'acquisizione della capacità genitoriale da parte del padre e della madre in tempi compatibili con le esigenze della figlia, l'adozione viene ritenuta l'unica soluzione praticabile (anche rispetto all'affido etero familiare).

Avverso questa decisione la madre, il nonno materno e la di lui compagna, nonché, la nonna materna ricorrono per Cassazione ritenendo l'atto de quo - ciascuno dispiegando le proprie doglianze, di fatto sovrapponibili e riconducibili alla inosservanza di due norme di riferimento - violativo degli artt. 1 e 8, l. n. 184/1983 e dell' art. 3, Conv. New York sui diritti del fanciullo, della Conv. Strasburgo 25 gennaio 1996 e della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, 7 dicembre 2000 per aver omesso, la Corte d'appello, la valutazione di più recenti relazioni dei sevizi sociali che evidenziano il positivo percorso intrapreso dalla madre e la progressiva assunzione di consapevolezza del suo ruolo genitoriale, nonché, per non aver valutato l'interesse superiore del minore.

La Suprema Corte, preliminarmente, richiama come principio acquisito in tema di adozione, il prioritario diritto del figlio a vivere con i genitori e nell'ambito della propria famiglia, motivo per il quale la valutazione dello stato di adottabilità necessita di una rigorosa analisi, nel perseguimento del superiore interesse del minore. Lo stato di abbandono, che ne costituisce il limite, deve essere pronunciato, dunque, come extrema ratio, laddove siano riscontrati fatti gravi, dimostrati in concreto, circa l'incapacità genitoriale, atteso che il pregiudizio per il figlio deve essere reale e risultare sulla scorta di una valutazione resa all'attualità e alla concretezza, tenendo conto, altresì, della volontà di recupero del rapporto da parte dei genitori.

Ciò premesso, la Cassazione, nell'accogliere i ricorsi, evidenzia, in primis, l'errore della Corte d'appello che aveva dato atto della disponibilità dei nonni di occuparsi della minore per poi escludere tale ipotesi sulla base di una presunta inidoneità degli stessi, fondata su rilievi dogmatici e privi di dimostrazione.

In secondo luogo, i Giudici di legittimità rilevano come non sia stata adeguatamente approfondita e motivata l'inidoneità della madre (presupposto che, proprio per la difformità dalla pronuncia della Corte d'appello rispetto a quella del giudice di prime cure, avrebbe dovuto essere fondato su un maggiore rigore nell'accertamento); non siano state tenute in considerazione le relazioni dei Servizi sociali che rimandano ad «una figura materna attenta e partecipe nella cura della bambina» né valutati gli ulteriori elementi sintomatici di un mutato atteggiamento materno (la figlia secondogenita appariva «sana, con buona e costante crescita, sempre pulita ed adeguatamente vestita») ignorando, financo, una situazione personale della madre di chiara evoluzione.

La pronuncia impugnata, pertanto, viziata da una valutazione ancorata a rilievi dogmatici, circa l'incapacità dei nonni, nonché, superficiale, e a tratti non pertinente, degli elementi potenzialmente sintomatici di un'evoluzione in positivo della capacità genitoriale materna, viene cassata con rinvio alla corte d'appello di Brescia, in diversa composizione, alla quale competerà svolgere i «conferenti accertamenti di fatto uniformandosi ai princìpi esposti».

La questione

La questione in esame è la seguente: posto l'indiscusso diritto del minore a vivere ed essere educato e curato nell'ambito della propria famiglia, sulla base di quali parametri di riferimento e con quale approccio deve essere condotta, da parte del giudice, la valutazione dello stato di abbandono del figlio, come premessa necessaria della dichiarazione di adottabilità di quest'ultimo, avendo cura di realizzare realmente e concretamente il prevalente interesse del minore?

Le soluzioni giuridiche

Preliminarmente, la Corte si richiama ad alcuni princìpi cardine, in tema di adozione, nonché, al quadro normativo che ne sorregge gli istituti.

Presupposto fondamentale, riconosciuto a livello sia nazionale che sovranazionale, è il prioritario diritto del figlio di crescere ed essere educato all'interno della propria famiglia di origine vivendo, nei limiti del possibile, con i genitori (art. 1, l. 4 maggio 1983, n. 184) tanto che, a sostegno della effettiva realizzazione di tale diritto, laddove vi siano carenze o difficoltà della famiglia, sono predisposti interventi solidaristici finalizzati a rimuoverne le cause, sociali ed economiche, preclusive di una serena crescita del minore.

Nei casi in cui tale diritto appaia irrealizzabile, per incapacità totale dei genitori, tale da compromettere un sereno sviluppo del bambino, prevale il valore prioritario dell'interesse dell'individuo e, di conseguenza, il diritto del minore a crescere nella propria famiglia di origine cede all'esigenza oggettiva dello stesso di essere inserito all'interno di un idoneo nucleo familiare. Tale è la ratio sottesa alla dichiarazione giudiziale dello stato di adottabilità per la quale: «Sono dichiarati in stato di adottabilità dal Tribunale per i minorenni del distretto nel quale si trovano, i minori di cui sia accertata la situazione di abbandono perché privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purchè la mancanza di assistenza non sia dovuta a causa di forza maggiore di carattere transitorio» (art. 8, l. 4 maggio 1983, n. 184 come modificato dalla l. n. 149/2001). La sussistenza dell'abbandono, pertanto, è il presupposto necessario ed imprescindibile per la dichiarazione di adottabilità, da valutarsi con rigore estremo, da parte del giudice del merito, che si configura «solo in presenza di una situazione di carenza di cure materiali e morali, da parte dei genitori e degli stretti congiunti (…) tale da pregiudicare, in modo grave e non transeunte, lo sviluppo e l'equilibrio psico-fisico del minore stesso» (Cass. civ.,sez. I, n. 11019/2006). In tale ambito d'indagine la situazione dev'essere accertata in concreto sulla base di riscontri obiettivi, «non potendo la verifica dello stato di abbandono del minore essere rimessa ad una valutazione astratta, compiuta ex ante, alla stregua di un giudizio prognostico fondato su indizi privi di valenza assoluta».

A tale orientamento si è conformata la Corte nella sentenza in oggetto, nella quale vengono ripresi detti principi di riferimento ed, in linea con la giurisprudenza maggioritaria, viene evidenziata, altresì, l'importanza di un maggiore rigore accertativo, di un riscontro concreto a formare il libero convincimento del giudice, orientato da valutazioni attuali, non dogmatiche né apodittiche, caratterizzato da «indagini e approfondimenti riferiti alla situazione presente, tenendo conto della positiva volontà di recupero del rapporto genitoriale da parte dei genitori» (Cass. civ.,sez. I, n. 24445/2015).

Pertanto, è legittima la dichiarazione di adottabilità del figlio nella misura in cui fondi le radici in uno stato di abbandono endemico e radicale del minore, dimostrato in concreto, in presenza di fatti gravi e non basato su giudizi sommari, privi di precisi elementi idonei a dimostrare un reale e concreto pregiudizio del bambino, essendo la dichiarazione dello stato di abbandono l'extrema ratio da invocare soltanto in presenza di una comprovata incapacità irreversibile e totale da parte dei genitori, o dei parenti sino al IV grado.

Osservazioni

Il caso portato all'attenzione della Corte tocca, nell'ambito dei rapporti familiari, il delicato tema della limitazione del diritto del minore a vivere con i propri affetti e nel proprio ambiente, in nome di una tutela superiore, l'interesse del minore, che non potrebbe essere realizzata in ambito “domestico”, laddove la presenza del familiare (genitore o parente prossimo), con la sua condotta attiva o omissiva, determinerebbe un arresto dello sviluppo del bambino.

Di fatto, è emerso quanto lo stato di abbandono sia un concetto complesso e poco definito dal punto di vista normativo che si estrinseca, in linea generale nella assenza, o anche carenza, di cure e di assistenza nei confronti del figlio, permanente ed irreversibile, dunque, non transeunte, e di forza tale da compromettere il sereno ed equilibrato sviluppo psico-fisico del minore. Tale stato, ricorre quando i genitori, a prescindere dalla volontà di assolvere i loro doveri verso i figli, non siano fattivamente in grado di garantire al minore quel minimo di cure, apporto affettivo, sostegno psicologico indispensabile per un armonioso sviluppo della sua personalità.

Parimenti vago ed indefinito appare l'interesse del minore, un concetto in sé piuttosto fumoso, perché non schematizzato, e troppo spesso richiamato, quasi inflazionato, per giustificare le più mutevoli e multiformi decisioni, nonostante assurga a principio cardine in tema di diritto minorile.

Dal canto suo la giurisprudenza ha trattato, nel tempo, con preciso rigore la problematica de qua, richiamando al medesimo approccio il giudice il quale, nella sua indagine, deve rintracciare ed interpretare gli elementi, potenzialmente sintomatici, di una relazione genitoriale o parentale patologica e giungere ad una pronuncia di adottabilità del figlio solo in presenza di un radicato e specifico stato di abbandono, da intendersi come soluzione estrema dovendosi, invece, prediligere la scelta che consenta al minore di vivere con i propri genitori o parenti.

Si esige, pertanto, rigore accertativo e preciso approfondimento anche di tutti, viceversa, gli elementi indicativi di una volontà positiva di recupero del rapporto genitoriale, di una acquisita capacità di cura del minore, attraverso la lente di una valutazione resa all' attualità (sulla scorta, per esempio, di relazioni dei Servizi Sociali aggiornate, perizie recenti, etc.) considerando, altresì, la gradualità degli strumenti che l'ordinamento fornisce per intervenire, alla luce del carattere della residualità del ricorso all'adozione (come da unanime giurisprudenza costituzionale, della CEDU e della Corte di Giustizia).

Ed ancora. Una valutazione completa della situazione di abbandono impone di considerare, in un'ottica previsionale, le possibili conseguenze sullo sviluppo psicofisico della personalità del fanciullo, esaminato non in astratto ma in concreto, cioè in relazione al suo vissuto, alle sue caratteristiche fisiche e psicologiche, alla sua età ed al suo grado di sviluppo (Cass. civ.,sez I, n. 13911/2014) senza cadere, però, nell'errore di utilizzare la lente di un modello familiare ideale e perfetto.

Si tenga presente che la finalità ultima di tale istituto, infatti, è quella di dare una famiglia idonea al minore che ne sia privo, non certamente quella di inserirlo in un nucleo familiare considerato migliore, secondo diffusi parametri sociali. Sul punto, nel richiamare i principi costituzionali (art. 30 Cost.) e le norme civilistiche (artt. 147, 330, 333 c.c.) che indicano i criteri di riferimento dei diritti/doveri dei genitori e le garanzie fondamentali da assicurare ai minori, la giurisprudenza ha affermato che «una semplice educazione non ottimale dei figli, come, più in generale, un'impostazione sotto qualche aspetto criticabile del rapporto genitoriale per carenza, cultura o caratteriali o intellettive dei genitori, come pure un semplice tenore povero di vita dovuto ad insufficienza di mezzi economici e, meno che mai, il confronto con le condizioni di vita migliori che i minori potrebbero trovare in eventuali famiglie adottive, non possono essere sufficienti, in linea di principio, a sradicarli dalla famiglia e a farli dichiarare in stato di adottabilità» (Cass. civ. n. 3369/1990).

In definitiva, si tratta di un tema di assoluta delicatezza che tocca le corde più intime della vita di relazione in ambito familiare e che, proprio per la peculiarità degli interessi coinvolti, merita il massimo grado di attenzione da parte di tutti gli operatori spettando, ancora una volta, al diritto vivente il compito di individuare, caso per caso, gli elementi peculiari della situazione in esame e valutarne gli aspetti distintivi ed indicativi, approfondirli adeguatamente e motivare attentamente, in maniera logica e precisa, le scelte che ne conseguono, per realizzare un interesse del minore che sia reale e concreto e non soltanto lettera morta.

Guida all'approfondimento

M. Dogliotti, Affidamento e adozione, Giuffrè, 1990

M. Dogliotti, Adozione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2004

A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Adozione e affidamento dei minori, Milano, 2001

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