Inammissibile l’impugnazione del riconoscimento del figlio per compiacenza

Alberto Figone
28 Settembre 2017

Il Tribunale di Trento si è pronunciato in merito all'ammissibilità dell'azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c., proposta da colui che, al momento del riconoscimento, era consapevole di non essere il genitore biologico di una minore
Massima

È inammissibile l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità di in figlio nato fuori del matrimonio, proposta da colui che, al momento del riconoscimento, era consapevole di non essere genitore biologico.

Il caso

Un uomo riconosce come propria la figlia di sei anni che la compagna, di origini straniere e conosciuta via chat, aveva già avuto prima di conoscerlo e di trasferirsi con la bambina in Italia. Poco dopo, la relazione sentimentale si interrompe e l'uomo prende a disinteressarsi completamente della figlia, sotto tutti gli aspetti. Lo stesso impugna poi il riconoscimento per difetto di veridicità. Il Tribunale dichiara inammissibile la domanda e, in accoglimento della riconvenzionale del curatore speciale della figlia minore, condanna l'attore al risarcimento dei danni da costei patiti per l'interruzione del rapporto parentale.

La questione

La sentenza affronta due interessanti questioni, relative rispettivamente: i) all'ammissibilità dell'impugnazione del riconoscimento di figlio, nato fuori del matrimonio, da parte del padre che effettuò il riconoscimento stesso con la consapevolezza del difetto di veridicità; ii) alla risarcibilità del danno patito dal figlio per l'interruzione del rapporto con colui che ebbe a riconoscerlo.

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, l'art. 263 c.c. prevede che il riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio possa essere impugnato per difetto di veridicità. L'azione è esperibile dall'autore del riconoscimento, da colui che fu riconosciuto e da tutti coloro che vi abbiano interesse (e, dunque, la legittimazione diverge da quella propria del regime dell'azione di disconoscimento di paternità, per i figli nati all'interno del matrimonio). Prima della riforma della filiazione, di cui alla l. n. 219/2012 e d.lgs. n. 154/2013, l'azione di impugnazione del riconoscimento era imprescrittibile e, dunque, lo status di figlio (in allora “naturale”) poteva essere sempre messo in discussione. In oggi, anche questa azione (come già quella di disconoscimento di paternità) è soggetta a rigorosi termini decadenziali (e non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall'annotazione del riconoscimento nell'atto di nascita), salvo che per il figlio, il quale continua a beneficiare del regime di imprescrittibilità.

Una delle fattispecie che si è presentata con maggior frequenza all'esame della giurisprudenza, riguarda l'impugnazione di riconoscimenti non veritieri, fatti per compiacenza da chi già sapeva, al momento dell'atto, di non essere il padre biologico del figlio riconosciuto. I motivi potrebbero essere i più vari, anche se irrilevanti sotto l'aspetto giuridico. Assai dibattuta in questi anni la stessa ammissibilità dell'azione, siccome avanzata da colui che, prima, costituisce uno status filiationis in contrasto con il dato biologico e successivamente pretende di demolirlo, adducendo proprio la mancanza di un vincolo di sangue. Parte della giurisprudenza di merito aveva già ritenuto in questo caso inammissibile la domanda di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, assumendo trattarsi sostanzialmente di una revoca del riconoscimento, che l'art. 256 c.c. esclude (Trib. Napoli 11 aprile 2013, Trib. Roma 17 ottobre 2012; ma v. anche Trib. Firenze 30 luglio 2015 cha ha ritenuto inammissibile l'azione anche se proveniente da terzi interessati). Altre decisioni (Trib. Milano 6 giugno 2016; Trib. Treviso 26 gennaio 2016) sono invece pervenute alla conclusione opposta, confortate da una pronuncia ormai risalente, che il Tribunale di Trento richiama (Cass. 24 maggio 1991, n. 5886). La riforma della filiazione nulla di specifico ha disposto, ancorchè un intervento sul punto sarebbe stato più che auspicabile; sotto l'aspetto formale, l'attuale formulazione dell'art. 263, comma 1, c.c. sembrerebbe legittimare l'impugnazione del riconoscimento, effettuato nella consapevolezza della non veridicità, purché la domanda sia proposta entro un anno dall'annotazione del riconoscimento stesso (salva l'applicazione della disciplina transitoria di cui all'art. 104, d.lgs. n. 104/2013); il termine di cinque anni, di cui al comma 3 dovrebbe fare riferimento solo al riconoscimento in buona fede.

Il Tribunale di Trento affronta la questione in una diversa prospettiva. Se inizialmente, l'ordinamento mostrava un chiaro favor nei confronti della verità del rapporto di filiazione, ove rispondente ad un legame di tipo genetico, in nome di interessi pubblicistici sottesi all'attribuzione dello status, in oggi la preminente tutela dei diritti del minore, sancita da documenti internazionali, oltre che dalla legislazione interna, conduce a conclusioni difformi. Osserva il Tribunale come, accanto alla genitorialità connessa al legame di sangue, se ne ponga un'altra (“sociale”), in forza della quale una persona si assume l'obbligo di mantenere, istruire ed educare un minore. L'attribuzione della responsabilità genitoriale, in conseguenza del riconoscimento del figlio, determina un discrimen, in caso di difetto di veridicità, a seconda dell'atteggiamento di buona o mala fede di chi lo effettuò. Il falso riconoscimento, reso con la consapevolezza della falsità, se da un lato integra gli estremi di reato, dall'altro presuppone la specifica volontà di costituire un rapporto di filiazione, indipendente dal legame biologico, ma espressione di una genitorialità sociale. Chi si è dichiarato falsamente genitore non può, dunque, trarre vantaggio da una situazione di fatto cui ha dato causa; nel bilanciamento tra il favor veritatis ed il favor alla conservazione dello status familiae acquisito, va privilegiato quest'ultimo, con conseguente declaratoria di inammissibilità della domanda di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

Sovente alla domanda di impugnazione del riconoscimento di figlio nato fuori del matrimonio, si accompagna quella riconvenzionale (del figlio se maggiorenne o di un suo curatore speciale, se minore) di risarcimento del danno conseguente alla sottrazione dello status acquisito. Nel caso di specie, il curatore aveva chiesto anche la condanna dell'attore al risarcimento del danno non patrimoniale da totale privazione della figura genitoriale, dopo l'“abbandono” appena un anno dopo il riconoscimento. Il Tribunale premette che, essendo stata dichiarata inammissibile l'impugnazione del riconoscimento, la falsità dello stesso non è valorizzabile ai fini risarcitori, come del resto anche l'esperimento dell'azione, in quanto espressione dell'esercizio di un diritto. È dunque la stessa violazione dei doveri di assistenza e di mantenimento dei figli, sanciti dagli artt. 3 e 30 Cost., ad integrare gli estremi di un danno endofamiliare di natura non patrimoniale, suscettibile di risarcimento ex art. 2059 c.c.; ciò con la precisazione che il principio vale «anche quando un genitore omette di svolgere il ruolo, volontariamente assunto con il riconoscimento», anche se non veritiero. Si tratta di un pregiudizio in re ipsa, essendo dato “di comune esperienza che il figlio, nei cui confronti il genitore assume un atteggiamento di assoluta trascuratezza e noncuranza… subisce uno stato di afflizione per la privazione di beni fondamentali”, ossia dei diritti della personalità costituzionalmente rilevanti. Il pregiudizio non è suscettibile di una precisa quantificazione in termini monetari, dovendosi necessariamente ricorrere ad una liquidazione in via equitativa. Al riguardo, il Tribunale ritiene di poter fare riferimento alle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano per la perdita del genitore, «previa congrua riduzione in ragione della sostanziale diversità tra le due fattispecie». Quel criterio, peraltro, è stato recentemente disatteso proprio dallo stesso Tribunale ambrosiano in una fattispecie di risarcimento del danno lamentato da una figlia maggiorenne, nei cui confronti il padre aveva esperito vittoriosamente azione di impugnazione del riconoscimento per compiacenza, dopo essersi comunque disinteressato di lei per anni. Si era infatti in quell'occasione optato per una quantificazione in termini strettamente equitativi, avuto riguardo a tutti gli elementi della peculiare fattispecie. La sentenza qui annotata, sulla scorta del dato concreto, perviene alla quantificazione del danno «in misura prossima al 10%, del valore minimo di cui alla citata tabella», attualizzato nella misura di Euro 16.000,00.

Osservazioni

La sentenza in esame afferma, con ampiezza di argomentazioni, l'inammissibilità dell'azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità ex art. 263 c.c., proposta da colui che, al momento del riconoscimento, era consapevole di non essere il genitore biologico di una minore. Si afferma così che la genitorialità non presuppone necessariamente l'esistenza di un legame genetico, potendo anche derivare dall'assunzione degli obblighi di crescita e mantenimento di un figlio, pur conseguenti ad un non riconoscimento non veritiero. Al centro delle argomentazioni del Tribunale sta l'interesse del minore, così come sancito nelle Convenzioni di New York e di Strasburgo, nonché nell'art. 8 CEDU, secondo l'interpretazione della Corte EDU. In ogni azione di stato si pone sempre una questione di bilanciamento tra due interessi tra loro di regola configgenti: quello alla verità delle origini e l'altro al mantenimento dello status acquisito. Se inizialmente si riteneva prevalente il favor veritatis, anche in ossequio a principi pubblicistici di indisponibilità dello Stato, in oggi prevale invece l'atteggiamento opposto, specie proprio quando il figlio sia minorenne. Si vuole così tutelare il diritto del minore a mantenere la propria identità personale, per lo meno in quelle situazioni in cui la privazione dello status sarebbe fonte di pregiudizio; ciò a maggior ragione quando lo status stesso sia stato attribuito a fronte di un atto volontario di riconoscimento, con la consapevolezza della falsità. Portando alle estreme conseguenze detto ragionamento, nella giurisprudenza di merito si è addirittura respinta (con argomentazioni su cui molto si può discutere) la domanda di disconoscimento di paternità, promossa dal curatore speciale di un minore, nominato a fronte di richiesta inoltrata al PM dal genitore biologico, malgrado fosse assodato che la nascita fosse avvenuta nel contesto di una relazione extraconiugale. Vero è che in oggi la genitorialità non presuppone necessariamente la procreazione o la pronuncia del Giudice (come nell'adozione); l'art. 4, l. n. 40/2004 esclude infatti l'esperimento delle azioni di stato, quando il figlio sia stato concepito con il ricorso alle fecondazione eterologa (inizialmente vietata), a fronte di richiesta condivisa da entrambi i genitori. Del resto, come ricorda lo stesso Tribunale trentino, quella previsione normativa è stata preceduta da significative (e ben note) pronunce della Consulta e della Corte di Cassazione. In oggi è per di più acquisito il concetto di genitorialità sociale, ossia della volontaria assunzione dei doveri di cura e di assistenza verso un minore, con cui non si hanno legami di sangue, all'interno di nuovi modelli familiari, composte da persone di sesso diverso, ovvero uguale. Proprio l'esigenza di valorizzare questa nuova genitorialità, per garantire la funzione della responsabilità genitoriale anche in caso di eventuale cessazione della relazione tra adulti, ha portato la giurisprudenza a pronunciare l'adozione in casi particolari ex art. 44 lett. d) l. n. 184/1983 a favore del convivente del genitore, sia quando il minore era già stato concepito da uno dei due partners, sia quando la sua nascita abbia realizzato un desiderio di avere un figlio da parte delle coppie same sex, che non possono procreare in via naturale.

Certo, quanto meno con riferimento al caso del falso riconoscimento per compiacenza, la riforma della filiazione avrebbe dovuto espressamente intervenire, essendosi da tempo affrontata la questione della relativa ammissibilità. Come anticipato, la lettera dell'art. 263 c.c. non vieta l'impugnazione del riconoscimento, ancorché il comma 1 lo subordini ad un rigoroso termine annuale dall'annotazione a margine dell'anno di nascita. Vero è che la stessa riforma ha limitato l'operatività dell'impugnazione, prevedendo termini decadenziali, che l'avvicinano all'azione di disconoscimento di paternità. L'imprescrittibilità, per entrambe le azioni demolitive dello status rimane solo per il figlio; dunque, solo il titolare dello status filiationis può decidere autonomamente (se minore di anni quattordici tramite un curatore eventualmente nominato dal Tribunale) se agire per la rimozione di uno stato non veritiero, accettando di vedere mutata la propria identità personale.

Altro aspetto assai interessante della sentenza in esame è quello che riguarda il profilo risarcitorio. Nel caso di specie il padre, dopo il falso riconoscimento, si era subito allontanato dalla vita della figlia, di fatto abbandonata. Una ormai risalente decisione della Suprema Corte (richiamata dai giudici trentini) aveva affermato che la violazione dei doveri inerenti la (allora) potestà (oggi responsabilità) genitoriale può dar luogo, oltre che alle specifiche misure previste dal diritto di famiglia (si pensi agli artt. 330 e 333 c.c.) anche al risarcimento del danno non patrimoniale. Si tratterebbe di un danno in re ipsa, incidendo su diritti fondamentali del minore, inteso come persona, ascrivibile al più ampio genus dell'illecito endofamiliare. Il Tribunale di Trento ricorda all'uopo come la violazione di diritti costituzionalmente rilevanti costituisca una di quelle fattispecie in cui può procedersi alla liquidazione dei danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. (v. in termini Cass. 16 febbraio 2015, n. 3079; Cass. 22 luglio 2014, n. 16657; ma già prima Cass. 7 giugno 2000, n. 7713). La questione più dibattuta riguarda peraltro non già l'an debeaur, bensì il quantum. Si tratta certamente di un danno da valutarsi in via equitativa ex art. 1226 c.c., salvo che non sia comprovato anche un danno biologico, a fronte di una compromissione della salute fisica o psichica. Il Tribunale di Trento ritiene di applicare, con correttivi, i criteri elaborati dal Tribunale di Milano quanto alla perdita del genitore in conseguenza di un fatto illecito. Certo che la situazione del minore che viene volontariamente abbandonato da un genitore vivente non pare possa essere equiparata a quella di chi è colpito da un lutto che lo priva del genitore. Proprio partendo da questo presupposto, una recente sentenza di merito già richiamata aveva optato per un criterio equitativo “puro” per liquidare il danno patito da una maggiorenne, a fronte dell'accoglimento dell'impugnazione di un falso riconoscimento, fatto per compiacenza. Considerazioni analoghe potrebbero ripetersi in caso di deprivazione della figura paterna, pur nella permanenza dello status. Fatto sta che la pronuncia è significativa, siccome espressione di principi generali propri del rapporto di filiazione, a prescindere dalla veridicità o meno del riconoscimento; la responsabilità genitoriale è un munus, obbligando i genitori ad un percorso di assistenza, cura e mantenimento dei figli. Quando tale munus non venga rispettato, ben può configurarsi anche il concorrente rimedio risarcitorio, in presenza di un danno ingiusto arrecato al minore.

Guida all'approfondimento

M. Dogliotti e A. Figone, Le azioni di stato, Giuffrè, 2015

A. Figone, La riforma della filiazione e della responsabilità genitoriale, Torino, 2014

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