Invalidi gli accordi in sede di separazione in vista di un futuro divorzio

Paolo Di Marzio
23 Marzo 2017

La Corte di Cassazione stabilisce che gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico-patrimoniale in vista del futuro divorzio sono invalidi.
Massima

Gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico–patrimoniale in prospettiva di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall'art. 160 c.c. Infatti, l'assegno di cui può essere gravato il genitore in favore del figlio, in sede di divorzio, deve essere calcolato in riferimento alle esigenze attuali del beneficiario, al tenore di vita goduto in costanza della convivenza dei genitori ed alle loro capacità economiche, non potendo invece essere fondato su un criterio di stima privo di riferimenti soggettivi, come l'ammontare della ‘retribuzione di un laureato al primo impiego.

Il caso

I coniugi, a seguito della nascita di due figli e dopo decenni trascorsi insieme, si sono separati giudizialmente. Il Tribunale ha previsto la corresponsione da parte del marito di un assegno di mantenimento per la moglie e per ciascun figlio, oltre al pagamento del 75% del mutuo contratto per l'acquisto della casa coniugale. Nel corso del giudizio era emerso che il marito aveva corrisposto di recente alla moglie una somma elevata, quasi due milioni di Euro. La pronuncia di separazione non è stata impugnata ed è passata in giudicato. La moglie propone quindi il giudizio di divorzio e domanda il riconoscimento di un assegno, per lei, di importo più che doppio rispetto a quello riconosciutole in sede di separazione; chiede, inoltre, di porre l'intero onere del mutuo contratto per l'acquisto della casa coniugale a carico del marito. Quest'ultimo replica domandando non riconoscersi alcun assegno divorzile alla moglie e chiedendo la riduzione dell'importo dell'assegno dovuto per il figlio più piccolo, comunque maggiorenne e per anni studente universitario, ma con scarso profitto.

La Corte d'appello di Milano, ricordata la natura assistenziale dell'assegno divorzile, ha ritenuto di dover desumere il “tenore di vita” delle parti, e le loro capacità patrimoniali, da quanto emergente dalla sentenza di separazione, non impugnata, senza reputare necessario alcun approfondimento istruttorio. Ha precisato la Corte di merito che il parametro del tenore di vita, ai fini della quantificazione dell'assegno divorzile, deve essere «bilanciato con gli altri criteri indicati dall'art. 5, l. n. 898/1970: «condizioni e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio e ragioni della decisione», specificando che «tali criteri agiscono come fattori di moderazione e diminuzione della somma considerata in astratto e possono valere anche ad azzerarla». Applicando detti criteri, la Corte lombarda ha stimato che alla moglie dovesse riconoscersi un assegno di mantenimento mensile di 2.000,00 Euro (meno di un terzo della richiesta). Tuttavia, ha evidenziato la Corte territoriale, il marito aveva corrisposto alla donna circa due milioni di Euro in prossimità dell'inizio del giudizio di separazione. All'esito di quel giudizio era stato comunque riconosciuto alla moglie il diritto all'assegno di mantenimento, e la pronuncia non era stata impugnata dalle parti. Pertanto, “in assenza di spiegazioni alternative”, la Corte lombarda ha ritenuto che l'elevato importo versato alla moglie dovesse intendersi come la corresponsione anticipata della somma dovuta dal marito quale assegno divorzile, versata in unica soluzione. Quanto al figlio non ancora autosufficiente, poi, che aveva abbandonato gli studi universitari ed era alla ricerca di un lavoro, la Corte d'Appello riteneva di accogliere la domanda del padre e riduceva l'ammontare dell'assegno dovuto per lui. Reputava, in proposito, corretto quantificare l'ammontare dell'assegno, visto che il giovane stava cercando un lavoro, in misura pari a quello che stimava essere il reddito medio iniziale di un giovane laureato (sebbene egli non fosse riuscito a terminare gli studi).

La questione

Le questioni oggetto della pronuncia in esame sono in realtà almeno due. La prima consiste nel definire se sia consentito al Giudice ricercare la volontà inespressa delle parti, e quindi porre il risultato dello sforzo interpretativo a fondamento della propria decisione. Problema che si intreccia con quello di verificare se possa riconoscersi validità all'(ipotetico) accordo raggiunto da marito e moglie, ancor prima del giudizio di separazione, in ordine all'ammontare della somma - peraltro contestualmente versata - che assumerà la valenza di un assegno di divorzio corrisposto una tantum quando lo scioglimento del matrimonio interverrà, in (un indefinito) futuro.

Una seconda questione è relativa alle modalità di calcolo dell'assegno da corrispondere in sede di divorzio ai figli bisognosi, occorrendo definire se sia lecito operare riferimento a criteri generali, come il reddito di un laureato al primo impiego, oppure debba confermarsi che occorre procedere ad un'adeguata soggettivizzazione della valutazione, legata, in primo luogo, all'ammontare delle disponibilità economiche dell'onerato ed alle necessità del beneficiario.

Le soluzioni giuridiche

Il Giudice di legittimità ha confermato che (pure) gli obblighi economici derivanti dal divorzio rientrano tra quei diritti e doveri degli sposi “previsti dalla legge per effetto del matrimonio”, che l'art. 160 c.c. qualifica come inderogabili. La conseguenza è che il patto intervenuto tra i coniugi all'epoca della separazione personale (o semmai prima), mediante il quale essi concordano la somma dovuta quale assegno una tantum in vista del futuro divorzio, deve considerarsi nullo. Nel caso di specie la Suprema Corte ha tenuto a ricordare che, in materia di assegno divorzile tra gli ex coniugi, occorre innanzitutto verificare se sussista l'inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge richiedente a conservare un “tenore di vita” analogo a quello goduto in corso del matrimonio. Se l'inadeguatezza è accertata, occorre quindi servirsi non solo del criterio del tenore di vita avuto in corso di matrimonio, ma pure dei parametri espressamente indicati all'art. 5 l. div., per calcolare quale sia il giusto ammontare dell'assegno assistenziale, in considerazione delle capacità di reddito, anche potenziale, dell'onerato come del beneficiario. La Suprema Corte ha quindi ritenuto “del tutto arbitraria” la valutazione operata dalla Corte d'appello, che aveva ritenuto di qualificare una (cospicua) dazione di denaro dal marito alla moglie, in prossimità temporale rispetto alla separazione personale dei coniugi, come il versamento anticipato di un assegno di divorzio corrisposto in un'unica soluzione, sull'accordo delle parti. «Gli accordi preventivi aventi ad oggetto l'assegno di divorzio sono affetti da nullità», scrive il Giudice di legittimità, «perché stipulati in violazione del principio fondamentale di indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall'art. 160 c.c. … di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione – specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio, potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio». Peraltro, tali accordi preventivi circa la determinazione del futuro assegno divorzile, stipulati all'epoca della separazione personale, ha chiarito la Suprema Corte, sono comunque nulli per illiceità della causa, data la natura assistenziale dell'attribuzione patrimoniale. Infine, neppure può trascurarsi che la previsione secondo cui l'assegno divorzile può essere corrisposto in un'unica soluzione è specificamente destinata a trovare applicazione soltanto nel corso di un giudizio di divorzio, rimanendo l'accordo raggiunto dalle parti sottoposto al vaglio giudiziale in quella sede.

La Corte di Cassazione ha poi confermato che il calcolo dell'ammontare di qualsiasi assegno da corrispondere in conseguenza del venir meno dell'unità della famiglia deve essere effettuato (anche) sul fondamento di fattori soggettivi, dovendo essere comunque parametrato sulle capacità economiche dell'obbligato e sulle necessità del beneficiato.

Osservazioni

Le valutazioni operate dalla Suprema Corte appaiono, nella loro sostanza e salvo profili marginali, tutte meritevoli di condivisione. La verità sembra essere che la Corte d'appello, nel pronunciare la sentenza ora riformata dalla Cassazione, ha operato con estrema disinvoltura, contraddicendo elaborazioni giurisprudenziali pluriennali, senza fornire adeguata giustificazione.

Il primo dato che colpisce, leggendo la sentenza della Corte territoriale, è che nessuna delle parti aveva domandato di attribuire alla dazione di quasi due milioni di Euro dal marito alla moglie, in prossimità della separazione personale, il significato di una liquidazione mediante versamento una tantum dell'assegno divorzile. Non sembra davvero vi fossero gli estremi perché la Corte d'appello decidesse sulla base di una volontà ipotetica delle parti, che ha ritenuto di poter individuare sulla base di una mera supposizione. Tanto sembra doversi affermare anche a prescindere dall'obbligo del giudice di sottoporre al contraddittorio delle parti gli elementi che ritiene di poter porre a fondamento della decisione, principio dell'ordinamento processuale che ha di recente trovato anche un riscontro normativo (cfr. art. 101, comma 2, c.p.c.).

È poi anche vero che la giurisprudenza di legittimità appare consolidata nell'affermare che pure le pretese patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio rientrano tra quei diritti e doveri, previsti dalla legge per effetto del matrimonio, che l'art. 160 c.c. qualifica come inderogabili. A questo proposito il discorso appare un po' meno scontato, perché i doveri di cui parla la norma codicistica sono riferiti agli sposi uniti in matrimonio, e potrebbe dubitarsi che debbano sopravvivere quando il matrimonio viene meno. Molti doveri derivano dal matrimonio, oltre quello di contribuire ai bisogni della famiglia anche con le proprie capacità di reddito. Ad esempio, il matrimonio obbliga alla coabitazione ed alla fedeltà, ma questi doveri vengono meno quando il matrimonio cessa. Più convincente appare l'argomento proposto dalla Suprema Corte - che giunge a parlare di nullità della causa del negozio - secondo cui, data la natura assistenziale dell'assegno divorzile, è possibile consentire alla corresponsione dello stesso in un'unica soluzione soltanto quando è ormai in corso il giudizio di divorzio e attraverso una procedura garantita, perché comunque sottoposta al controllo giudiziale, nella consueta finalità di contrastare eventuali prevaricazioni della parte forte sulla parte debole.

Ancora condivisibile appare la Corte di Cassazione quando lamenta alla Corte territoriale di non aver consentito lo sviluppo di alcuna istruttoria, volta a meglio accertare le capacità economiche dei coniugi, essendosi poi accontentata di ritenere equa l'attribuzione quale assegno di divorzio della somma ricordata, senza però aver individuato elementi di riscontro della correttezza dell'ammontare. Non può quindi che concordarsi con la Suprema Corte quando osserva, ancora, che l'attribuzione patrimoniale dal marito alla moglie della somma di due milioni di Euro, se non può valutarsi come la corresponsione di un assegno di divorzio una tantum, tuttavia, in considerazione della sua rilevante entità, deve comunque aver determinato un aumento delle disponibilità patrimoniali della donna, di cui dovrebbe necessariamente tenersi conto in sede di determinazione dell'ammontare dell'assegno di mantenimento che potrebbe esserle riconosciuto.

Un altro problema è rappresentato dalla modalità di calcolo adottata dalla Corte territoriale per quantificare l'assegno che ha riconosciuto al figlio, maggiorenne ma ancora non autosufficiente, che ancora ne ha diritto. La Corte di merito ha riconosciuto al figlio un assegno mensile pari al reddito (che ha stimato essere proprio) di un laureato al primo impiego, criterio ritenuto incongruo dalla Cassazione. In effetti, pur nell'assenza dell'indicazione di parametri predefiniti dalla legge, non sembra corretto utilizzare quale criterio di quantificazione dell'assegno dovuto in favore di un figlio, in sede di divorzio, un criterio esclusivamente oggettivo. L'assegno da corrispondere sarebbe pari sia per un padre benestante, come nel caso di specie, sia per un padre di condizioni economiche disagiate, il che appare evidentemente iniquo. Ma altrettanto iniquo appare non tener conto, nella quantificazione dell'assegno, delle reali esigenze del figlio, il suo progetto di vita e le sue aspirazioni.

Guida all'approfondimento

E. Russo, Sub art. 160 c.c., in Commentario Schlensiger, Giuffrè, 2004, 288 ss.

G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, Giuffrè, 1999, 425 ss.

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