Il divieto italiano di ricerca sugli embrioni al vaglio della Corte europea dei diritti umani

Matteo Winkler
08 Gennaio 2016

Il divieto di ricerca sugli embrioni, previsto dall'art. 13 l. 19 febbraio 2004, n. 40 non è contrario all'art. 8 CEDU che riconosce e protegge il diritto di ciascun individuo al rispetto della sua vita privata.
Massima

Il divieto di ricerca sugli embrioni, previsto dall'art. 13 l. 19 febbraio 2004, n. 40 non è contrario all'art. 8 CEDU che riconosce e protegge il diritto di ciascun individuo al rispetto della sua vita privata.

Il caso

Con la sentenza resa il 27 agosto 2015 nel procedimento Parrillo c. Italia giunge al vaglio della Corte europea dei diritti umani la l. 19 febbraio 2004, n. 40, in particolare il suo art. 13 e il corrispettivo divieto di sperimentazione sugli embrioni umani.

La vicenda da cui il caso trae origine riguarda la signora Adelina Parrillo, compagna del regista Stefano Rolla, morto nell'attacco alla base italiana di Nassiriya, in Irak, il 12 novembre 2003. Quando il compagno era ancora in vita, i due conviventi avevano deciso di fare ricorso alla tecnica di procreazione medicalmente assistita (PMA) della fecondazione in vitro. Gli embrioni però non poterono essere impiantati proprio per l'avvenuta morte del compagno della ricorrente, la quale giunse all'opposta decisione di donarli alla scienza a fini di ricerca. Alla richiesta della signora di effettuare la donazione, tuttavia, il centro a cui si era rivolta opponeva il divieto contenuto nel citato art. 13.

Con ricorso diretto alla Corte di Strasburgo la ricorrente argomentava nel senso della contrarietà di detto divieto, da un lato, all'art. 8 CEDU in materia di rispetto della vita privata e, dall'altro, dell'art. 1 del Primo Protocollo alla CEDU, che protegge il diritto di proprietà.

Con la sentenza in epigrafe la Corte si è pronunciata su entrambi i profili, rigettandoli il primo per infondatezza nel merito e il secondo per inammissibilità. Gli embrioni dovranno così essere distrutti, come stabilisce la legge italiana.

La questione

Come si è accennato, la questione sottoposta alla Corte di Strasburgo concerne la compatibilità con la CEDU del divieto di sperimentazione sugli embrioni previsto dall'art. 13 l. n. 40/2004. Al suo primo comma tale norma vietaogni tipo di sperimentazione su embrioni. La stessa disposizione continua consentendo, al secondo comma, la ricerca «clinica e sperimentale» sugli embrioni, purché essa persegua «finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso», e comunque in assenza di metodologie alternative. Restano «comunque» proibiti, come si legge nel comma successivo, la produzione di embrioni umani, la loro selezione a scopo eugenetico, gli interventi di clonazione e la produzione di ibridi o chimere (attraverso la fecondazione di gameti umani con gameti di specie diversa), che sono accompagnate da sanzioni penali (sui cui v. la recente sent. C. Cost., 11 novembre 2015, n. 229).

A dire della ricorrente queste disposizioni sarebbero contrarie al suo «diritto al rispetto della vita privata», come affermato nell'art. 8 CEDU, e al diritto al libero godimento di beni di sua proprietà (recte, al «diritto al rispetto dei suoi beni») di cui all'art. 1 del Primo Protocollo alla CEDU, beni che la ricorrente assumeva essere appunto gli embrioni contesi.

Le soluzioni giuridiche

Quanto alla prima questione, la Corte esclude l'incompatibilità del divieto di sperimentazione su embrioni con il diritto al rispetto della vita privata affermato dalla ricorrente. In tema il governo italiano aveva anzitutto sostenuto, in difesa della legge, che quello di donare gli embrioni non è un diritto includibile nella nozione di «vita privata» (par. 121), puntualizzando inoltre che detto divieto era stato oggetto di un acceso dibattito in sede di discussione parlamentare e di un apposito referendum dichiarato invalido per mancanza di quorum (par. 127). A tali argomentazioni la ricorrente aveva risposto che si tratta di un divieto «illogico», che impone la distruzione di materiale che invece potrebbe essere usato per la ricerca, «perseguendo così un fine nobile» (par. 134).

Al riguardo la Corte europea puntualizza che «in realtà la questione sottoposta alla Corte concerne la restrizione del diritto asserito dalla ricorrente di decidere il destino dei suoi embrioni, un diritto intimamente legato alla “vita privata”» (par. 152). In questo senso, «il concetto di “vita privata” secondo il significato dell'art. 8 CEDU è un concetto vasto non suscettibile di definizione esaustiva» (par. 153). Anzi, «la capacità della ricorrente di esercitare una scelta cosciente e ponderata sulla sorte dei suoi embrioni tocca un aspetto intimo della sua vita personale e dunque discende dal suo diritto all'autodeterminazione» tradizionalmente ricondotto nell'alveo dell'art. 8 CEDU (par. 159). Non vi è pertanto alcun dubbio che il divieto previsto dall'art. 13 l. n. 40/2004 costituisca un'interferenza con la vita privata della ricorrente, della quale resta però da valutare la legittimità e la proporzionalità ai sensi dell'art. 8, comma 2, CEDU.

Sotto il primo profilo (legittimità), la misura appare legittima perché compresa nell'«obiettivo di proteggere la morale e i diritti e le libertà degli altri», senza che il termine «altri» includa comunque gli embrioni (par. 167).

Sotto il secondo profilo (necessità e proporzionalità), la misura è altresì «necessaria in una società democratica» in quanto, trattandosi di materia in grado di «sollevare questioni morali ed etiche sensibili», ed inoltre mancando un consenso europeo sul punto (17 Stati su 40 consentono la ricerca, mentre alcuni altri la vietano espressamente), gli Stati contraenti godono in materia di un margine di apprezzamento piuttosto largo. La Corte ribadisce che tale margine non è in ogni caso illimitato, e spetta sempre alla Corte medesima verificarne l'estensione attraverso un «adeguato bilanciamento» tra gli interessi opposti dallo Stato e quelli degli individui affetti dalla misura impugnata.

La conclusione della Corte è perciò negativa per l'assenza di violazione della Convenzione: le illogicità evidenziate nella legislazione italiana non sono in grado di limitare il diritto invocato dalla ricorrente, in quanto il legislatore nazionale sembra aver adeguatamente preso in considerazione le diverse opzioni derivanti dalle differenti visioni della materia, sia laiche sia religiosamente orientate (par. 185). Inoltre, decisivo è l'esito del referendum popolare del 2005, che ha riguardato proprio la norma impugnata (par. 187). Infine, «non vi è prova che il compagno [della ricorrente], che avrebbe avuto il medesimo interesse negli embrioni in questione al tempo della fertilizzazione, avrebbe fatto la stessa scelta» (par. 196). Per tutte queste ragioni, non si ravvisa violazione dell'art. 8 CEDU.

Quanto alla seconda questione, cioè l'asserita violazione del diritto di proprietà, la Corte la dichiara inammissibile, sulla base del fatto che gli embrioni non possono considerarsi «beni» oggetto di proprietà. E ciò, si badi, non a motivo del «problema sensibile e controverso di quando abbia inizio la vita», sul quale la Corte non ritiene necessario pronunciarsi, bensì alla luce dello stesso art. 1 del Primo Protocollo, che ha un «ambito di applicazione meramente economico e patrimoniale». La norma non è dunque applicabile, e da qui l'inammissibilità.

Osservazioni

Non è la prima volta che la Corte di Strasburgo si confronta con il tema della PMA, com'è noto già oggetto di numerose pronunce anche sul piano nazionale che hanno effettivamente demolito l'impianto originario della l. n. 40/2004 (da ultimo C. Cost., 10 giugno 2014, n. 162). Si segnala in particolare il caso S.H. c. Austria, deciso il 1° aprile 2010 (ric. n. 57813/00), ove la Corte europea ha dichiarato la legge austriaca, che limitava l'accesso alla fecondazione eterologa alle coppie ricorrenti, contraria al combinato disposto dell'art. 8 e dell'art. 14 CEDU.

La sentenza in epigrafe tratta comunque un tema molto specifico, che non è quello della fecondazione eterologa né quello, pure controverso e affrontato da svariata giurisprudenza, della «diagnosi pre-impianto», bensì quello della possibilità, per una persona, di donare degli embrioni pienamente idonei all'impianto al precipuo scopo di sottoporli a ricerca scientifica. La questione è rilevante non solo per la tenuta complessiva del divieto sancito dall'art. 13 della l. n. 40/2004, ma anche perché essa risulta attualmente pendente dinanzi alla Corte costituzionale, proprio in attesa della pronuncia della Corte europea.

Senza voler in alcun modo speculare sulla posizione che assumerà la Corte costituzionale sul punto, va detto che la motivazione della Corte europea mostra in non pochi momenti un certo affanno, specialmente con riguardo alla questione della qualificazione degli embrioni come vita umana e, di conseguenza, come «soggetti» e non come «oggetti». Se con la conclusione raggiunta in tema di diritto di proprietà la Corte pare assumere che gli embrioni rappresentino qualcosa di più di un dato patrimoniale, dunque oggetto potenziale di transazioni economiche; essa fa ogni sforzo possibile per evitare, per evidenti ragioni di credibilità e integrità delle funzioni della stessa, di addentrarsi negli accidentati sentieri della bioetica.

Resta però il fatto, messo ben in evidenza dall'opinione concorrente del giudice Pinto De Albuquerque, che in passato la Corte europea non si era sottratta a una valutazione giuridica dello stato degli embrioni, come quando aveva affermato che «gli embrioni […] non hanno un diritto alla vita secondo il significato dell'art. 2 della Convenzione» (Evans c. Regno Unito, 10 aprile 2007, ric. n. 6339/05, par. 56).

Del tutto trascurato è poi un profilo tutt'altro che irrilevante. Se la finalità del divieto di cui all'art. 13 l. n. 40/2004 è di proteggere l'intrinseca dignità degli embrioni in quanto vita in potenza, che è scopo indubbiamente meritevole, è ben difficile comprendere del tutto come al loro utilizzo per fini altrettanto meritevoli risulti in ogni caso preferibile la loro distruzione. È probabilmente sul bilanciamento tra questi due interessi in apparenza contrapposti che la Corte avrebbe potuto, e forse dovuto, dire qualcosa di più.

Guida all'approfondimento

- A. Conti, P. Delbon, F. Policino, La sperimentazione sugli embrioni umani: linee di tendenza etico-giuridiche in Europa, in “Rivista italiana di medicina legale”, 2005, 549

- M. D'Amico, B. Liberali (a cura di), Il divieto di donazione di gameti fra Corte costituzionale e Corte europea dei diritti dell'uomo, Milano, , 2012

- V. Tigano, Tutela della dignità umana e illecita produzione di embrioni per fini di ricerca, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2010, 1747

- V. Tigano, La rilevanza penale della sperimentazione sugli embrioni tra la tutela del diritto alla vita e la libertà della ricerca scientifica, in “L'indice penale”, 2011, 125

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