Omicidio del convivente: no all'applicazione dell'aggravante ex art. 577, comma 2 c.p.

Andrea Venegoni
08 Giugno 2017

La Cassazione si pronuncia sull'applicabilità dell'aggravante di cui all'art. 577, comma 2, c.p., anche quando il reato è commesso in danno del convivente more uxorio.
Massima

In tema di omicidio, non si configura l'aggravante prevista dall'art. 577, comma 2, c.p. (delitto commesso in danno del coniuge) quando la persona offesa sia convivente "more uxorio" dell'autore del fatto.

Il caso

L'imputato è condannato in primo e secondo grado per il reato di tentato omicidio aggravato in danno della convivente. L'aggravante, in particolare, è quella di cui all'art. 577, comma 2, c.p. che prevede, in relazione al delitto di omicidio, un trattamento sanzionatorio più grave «se il fatto è commesso contro il coniuge», oltre che contro altri familiari.

Pertanto, la pena applicata nei primi due gradi, in sede di giudizio abbreviato, tiene conto anche della suddetta aggravante, che era stata contestata fin dall'originario capo di imputazione.

L'imputato ricorre in cassazione contro la sentenza della Corte d'appello, che ha confermato quella emessa dal GUP, deducendo, tra l'altro, errore di diritto per avere la Corte riconosciuto l'aggravante in questione, nonostante tra l'imputato e la parte lesa non sussistesse rapporto di coniugio, essendo gli stessi conviventi more uxorio.

La questione

La questione consiste nello stabilire se l'aggravante dell'omicidio, di cui all'art. 577, comma 2, c.p., prevista espressamente se il fatto è commesso nei confronti del “coniuge”, operi anche quando il fatto è commesso nei confronti del convivente more uxorio, di un soggetto, quindi, che, pur coabitando con l'autore del reato e conducendo con esso una vita analoga, di fatto, a quella matrimoniale, non è però a lui legato da formale vincolo di coniugio.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione ha escluso l'applicabilità dell'aggravante al convivente more uxorio, attesa la chiara lettera della legge che limita la stessa al solo coniuge, ed attesa la non equiparabilità giuridica delle due condizioni.

La sentenza è di notevole attualità ed importanza, se non altro per il dibattito che è entrato ormai a far parte della nostra società sulla rilevanza dei legami di vita personale diversi da quello tipico del matrimonio, di cui al codice civile. Non per nulla, dalla motivazione della Cassazione, si evince che il motivo in base al quale le sentenze dei gradi di merito avevano riconosciuto l'aggravante consisteva nella «evoluzione della interpretazione giurisprudenziale e dottrinale e del costume sociale» in merito a tale argomento.

Non si può negare, infatti, che, a livello sociale, tale evoluzione esista e, nel campo del diritto civile, abbia portato dapprima ad elaborazioni giurisprudenziali tendenti ad avvicinare sempre più le due situazioni, poi all'adozione di normative su specifici aspetti, fino ad arrivare ad una legge generale di regolamentazione dei rapporti diversi dal matrimonio, tra coppie dello stesso sesso od eterosessuali, la l., 20 maggio 2016, n. 76, non a caso intitolata «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze». Va, peraltro, osservato che la sentenza in questione è anteriore all'approvazione della suddetta legge e non avrebbe potuto, quindi, tenerne in considerazione gli aspetti che, eventualmente, avessero avuto rilevanza ai fini penalistici in relazione al caso concreto.

Anche in ambito penale il tema della rilevanza delle forme di convivenza diverse da quella matrimoniale è stato affrontato dalla giurisprudenza con riferimento ad una molteplicità di norme, non solo incriminatrici ; si pensi, per esempio, all'art. 384 c.p. (non punibilità nei delitti contro l'amministrazione della giustizia), all'art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), all'art. 649 c.p. (non punibilità e querela della persona offesa per fatti commessi a danno di congiunti) l'art. 199 c.p.p. (facoltà di astensione dei prossimi congiunti) o l'art. 76, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (in tema di patrocinio a spese dello Stato), o, ai fini processuali, alla determinazione della pena del reato di lesioni (art. 582 c.p.) ai fini della competenza del giudice di pace, come ricordato anche nella sentenza commentata.

In generale, l'orientamento prevalente della giurisprudenza penale è sempre stato quello di non equiparare la figura del coniuge a quella del convivente, tranne in alcune casi eccezionali, relative però a casi in cui venivano in discussione norme penali di favore per l'autore del fatto. Cass. pen., sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147, per esempio, ha ritenuto applicabile anche al convivente la causa di non punibilità di cui all'art. 384 c.p. che la lettera del codice prevede, per chi ha commesso alcuni delitti contro l'amministrazione della giustizia quali la falsa testimonianza ed altri, in relazione alla necessità di salvare "prossimi congiunti" da un grave nocumento alla libertà o all'onore. Gli appartenenti a quest'ultima categoria, ai sensi dell'art. 307 c.p., sono individuati espressamente negli «ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti». Nell'applicare la causa di non punibilità anche a chi ha commesso il reato per salvare il convivente more uxorio la Corte, in particolare, ha ritenuto necessario accogliere «una nozione di “famiglia” e di “coniugio”in linea con i mutamenti sociali che questi istituti hanno avuto negli ultimi decenni del secolo scorso, tenendo conto dell'evoluzione della società, ed adattando l'interpretazione di ciascuna regula juris ai mutamenti della realtà sociale».

Va detto, comunque, che anche in tema di applicazione di norme penali di favore, l'orientamento espresso nella sentenza sopra ricordata non è univoco. Cass. pen., sez. V, 21 novembre 2015, n. 28638, per esempio, ha escluso l'applicazione al convivente della causa soggettiva di esclusione della punibilità prevista per il coniuge dall'art. 649 c.p..

Peraltro, quando si verte in tema di interpretazione di norme incriminatrici, come nella specie, entrano in gioco principi fondamentali del diritto penale e del nostro ordinamento giuridico, quali il principio di legalità e della riserva di legge, che si articolano, tra le possibili manifestazioni, in quelli di determinatezza delle fattispecie e del divieto di analogia. Si tratta di principi posti a tutela della persona, non solo di rango formalmente costituzionale (art. 25 Cost.), ma, potremmo dire, percepiti come pilastri fondamentali dello stato di diritto e, quindi, di una società moderna, cosicchè travalicano il pur già determinante aspetto dell'inserimento in quella che si potrebbe definire la "costituzione formale" del nostro sistema.

Orbene, la norma in questione prevede la sussistenza dell'aggravante solo in relazione al reato commesso nei confronti del coniuge e, in mancanza, al momento del fatto, di una norma specifica che estenda lo stesso trattamento al reato commesso in danno del convivente, non può essere il mutamento di sensibilità sociale ad equiparare, nel diritto penale, le due situazioni.

Al riguardo, la sentenza stessa ritiene che il fatto che la legge limiti l'aggravante al solo coniuge ha un suo fondamento socio-giuridico.

La pronuncia ricorda, infatti, come la previsione dell'aggravante solo per il rapporto di coniugio riposi sul valore morale, sociale e giuridico della qualità di coniuge per la quantità dei doveri che comporta (ed in tali termini di era già espressa la Corte, sez. I, 20 ottobre 1971, dep. 1972, n. 1622), e ricorda come una possibile questione di legittimità costituzionale dell'art. 577, comma 2, c.p. sollevata sotto il profilo della disparità di trattamento del coniuge rispetto all'ex coniuge e al convivente more uxorio, sia stata già dichiarata manifestamente infondata, essendosi ritenuto non irrazionale il diverso trattamento normativo nei confronti del coniuge, tenuto conto della sussistenza del rapporto di coniugio e del carattere di tendenziale stabilità e riconoscibilità del vincolo coniugale (sez. 1, 22 febbraio 1988, n. 6037).

Anche la Corte Costituzionale ha già avuto modo di occuparsi della razionalità della diversità di trattamento, in diritto penale, tra coniuge e convivente more uxorio. In quel caso, si trattava della possibile estensione di una causa di non punibilità, quella di cui all'art. 649 c.p. Eppure, anche in quel caso, nella sent. n. 352/2000, è stato ritenuto che «non è irragionevole, né arbitrario che il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio contemplato nell'art. 29 Cost. e per la convivenza more uxorio, trattandosi di scelta che rientra nella discrezionalità dell'azione legislativa».

Osservazioni

In diritto penale, quindi, la specificità del settore non ha permesso fino ad ora di arrivare a posizioni condivise sulla rilevanza delle convivenze more uxorio, anche perché, come rilevato, nell'applicazione delle norme penali entrano in gioco anche principi e valori di uguale, se non superiore, rango.

Ma la materia è, come detto, in evoluzione e l'aspetto più rilevante sarà ora vedere l'impatto anche in diritto penale delle nuove norme di recente introduzione nel nostro sistema: in primo luogo la l. n. 76/2016 che, come è stato messo in luce dalla dottrina, sebbene non sia una normativa specificamente penalistica, può certamente avere effetti anche in questo settore. Si pensi al comma 20 che equipara, a determinati fini, alla figura del “coniuge” quella del partner delle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Ancora più specificamente, poi, il d.l., 19 gennaio 2017, n. 6, emesso in attuazione della suddetta legge, il quale, attraverso l'introduzione di un nuovo articolo (art. 574-ter c.p.), prevede che tutte le leggi penali in cui figura la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato debbono intendersi riferite anche alla parte di un'unione civile.

Sebbene, dunque, il caso specifico oggetto della sentenza fosse quello di una coppia eterosessuale convivente (e quindi è da valutare se rientrante nella nuova normativa che sembra disposta in primo luogo in relazione alle coppie dello stesso sesso), è comunque certo che, in generale, anche il diritto penale non potrà sottrarsi nel prossimo futuro alla evoluzione della materia dei rapporti formalmente diversi dal matrimonio.

Guida all'approfondimento

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F. G. CAPITANI, Meno grave uccidere la convivente che la moglie, in Dir. e giust., fasc. 8, 2017

A. MERLI, Note introduttive al tema: "La rilevanza penalistica della convivenza more uxorio" (dopo la legge Cirinnà e il decreto legislativo di attuazione in materia penale), in Dir. Pen. cont., 10 maggio 2017

G. COCCO, Il fondamento e i limiti dei rapporti familiari come causa di non punibilità o di perseguibilità a querela di parte, in Resp. civ. e prev., fasc. 4, 2015, 1048B

G. L. GATTA, Unioni civili tra persone dello stesso sesso e convivenze di fatto: i profili penalistici della legge Cirinnà, in Dir. Pen. cont., 2016

G. LEO, Convivenza more uxorio e casi di non punibilità dei reati contro l'amministrazione della giustizia, in Dir. pen. proc., 2005, n. 47, 421

V. PEZZELLA, Convivente more uxorio e coniuge: per il codice penale non è la stessa cosa, in Giur. merito 2009, 3093, fasc. 12

A. ROIATI, Lo statuto penale del coniuge separato, del divorziato e della persona “comunque convivente” nell'orizzonte della famiglia “liquida”, in Riv. it. dir e proc. pen., 2014, 1440, fasc. 3

G. STAMPANONI BASSI, Osservazioni a Cass. Pen., 30 aprile 2015, sez. II, n. 34147 , in Cass. pen., fasc.3, 2016, 993

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