Separazione consensuale: annullamento per violenza e rescissione

Alberto Figone
12 Maggio 2017

Il Tribunale di Milano si pronuncia sull'applicabilità all'accordo di separazione consensuale degli ordinari rimedi negoziali dell'annullamento per vizi della volontà e della rescissione.
Massime

L'azione di annullamento per vizio del consenso è esperibile avverso le clausole dell'accordo di separazione consensuale con cui i coniugi, nell'ambito della regolamentazione degli accordi, assumano obbligazioni dotate di una loro individualità. Non costituisce peraltro minaccia invalidante la mera rappresentazione interna di un pericolo, ancorché collegata a circostanze obiettivamente esistenti (nella specie si è escluso che la minaccia della madre di fissare la residenza abituale della figlia in luogo lontano dall'abitazione del marito potesse integrare gli estremi della violenza morale).

Non ogni squilibrio nel sinallagma può dar luogo alla rescissione del contratto, e degli accordi assunti in sede di separazione consensuale, ma solo quello che determini una manifesta iniquità delle clausole negoziali.

Il caso

In sede di separazione consensuale, due coniugi prevedono l'affidamento condiviso della figlia minore con collocamento presso la madre, la regolamentazione del regime di visita da parte del padre ed il suo contributo al mantenimento. Il marito assume altresì consistenti obbligazioni nei confronti della moglie (assegno di mantenimento, versamento di un ingente somma a titolo solidaristico, accollo delle spese familiari di carattere sanitario e per le vacanze); si impegna nel contempo a trasferimenti immobiliari in favore di moglie e figlia. Successivamente chiede l'annullamento delle condizioni di separazione relative ai rapporti patrimoniali o, comunque, la loro inefficacia per rescissione. Deduce infatti di essere stato costretto a firmare l'accordo di separazione, sotto la minaccia della moglie di trasferirsi lontano con la figlia, sì da impedirgli di esercitare il suo ruolo genitoriale. Il Tribunale, ritenuta ammissibile la domanda, la respinge nel merito, escludendo la ricorrenza di presupposti della violenza morale e della rescissione.

La questione

Le questioni di cui si occupa la pronuncia in esame attengono all'applicabilità all'accordo di separazione consensuale degli ordinari rimedi negoziali dell'annullamento per vizi della volontà e della rescissione. Ci si chiede in altri termini se l'accordo, pur una volta omologato dal tribunale, possa essere invalidato, ovvero dichiarato inefficace sulla base della disciplina generale in materia contrattuale.

Le soluzioni giuridiche

Molto si è discusso in dottrina sulla natura giuridica del procedimento di separazione consensuale, ed in particolare sui rapporti tra l'accordo sottoscritto dai coniugi davanti al Presidente ed il successivo decreto di omologazione. Inizialmente si era attributo al decreto il rango di fatto costitutivo della separazione: in un'ottica prettamente pubblicistica, il consenso dei coniugi assumeva così il ruolo di mero presupposto processuale, privo di contenuto negoziale autonomamente efficace ed avente l'unico scopo di permettere l'avvio dell'apposita procedura. Secondo la diversa posizione “privatistica”, la separazione consensuale si struttura invece sulla concorde volontà dei coniugi di separarsi (e di definire altri eventuali aspetti della vita coniugale e familiare); la successiva omologazione assumerebbe una valenza di semplice condizione (sospensiva) di efficacia delle pattuizioni contenute in tale accordo (salvo per quanto riguarda i patti relativi all'affidamento e al mantenimento dei figli minorenni, sui quali il giudice è dotato di un potere di intervento più penetrante, come risulta dall'art. 158, comma 2, c.c.), di per sé perfetto ed autonomo. Un indirizzo intermedio attribuisce pari dignità all'accordo delle parti ed al provvedimento di omologazione, considerati entrambi facenti parte di una fattispecie complessa a formazione progressiva. L'adesione per l'una o l'altra tesi è densa di conseguenze pratiche; seguendo la concezione pubblicistica, l'accordo di separazione non sarebbe passibile di annullamento per vizi del consenso, potendosi configurare solo il ricorso agi ordinari strumenti impugnatori avverso il decreto di omologa. A conclusioni differenti si perviene invece, valorizzando il profilo negoziale della separazione, con conseguente esperibilità dell'azione di annullamento, non limitata alla materia contrattuale, ma estensibile ai negozi relativi a rapporti giuridici non patrimoniali (genus cui appartengono quelli di diritto familiare).

La giurisprudenza più recente ha affermato che la separazione consensuale trova la sua unica fonte nel consenso dei coniugi, mentre l'omologazione attribuisce efficacia dall'esterno all'accordo, inteso come negozio giuridico bilaterale. Da tale presupposto si è ritenuta l'applicabilità delle disciplina generale sull'invalidità dei contratti per incapacità di intendere e di volere di uno dei coniugi, ovvero per vizi della volontà (Cass., 22 novembre 2013, n. 26202; Cass., 21 marzo 2011,n. 6343; Cass., 30 aprile 2008, n. 10932), superandosi una concezione ormai risalente, secondo cui solo il Presidente avrebbe dovuto accertare la capacità dei coniugi e la corretta formazione del loro volere (App. Milano, 22 febbraio 1983, in; Trib. Genova 13 febbraio 1981). Del pari, si è affermata la legittimazione dei terzi, con l'azione revocatoria (ordinaria o fallimentare) (Cass. 22 gennaio 2015, n. 1144; Trib. Reggio Emilia 5 novembre 2013, in Fam. dir. 2014, 362), ovvero con quella di simulazione, in presenza di pattuizioni lesive di legittimi diritti o aspettative di natura patrimoniale (escludendosi così ogni contestazione in ordine allo status) (Cass. 20 marzo 2008, n. 7450). A tale orientamento si uniforma la pronuncia in esame, che ha cura peraltro di limitare, anche quando la domanda provenga da uno dei coniugi, l'eventuale caducazione dell'accordo omologato al solo contenuto eventuale della separazione e non anche a quello essenziale (“costituito dalle c.d. convenzioni di diritto di famiglia, relative prevalentemente alla cessazione del dovere di convivenza, alla regolamentazione degli altri obblighi previsti dall'art. 143 c.c., nonché all'esercizio della responsabilità genitoriale”). Ciò in quanto, le clausole dell'accordo di separazione che, all'interno della più generale regolamentazione dei rapporti, “prevedono la creazione di trame obbligatorie presentano una loro propria individualità, quali espressioni di libera autonomia contrattuale delle parti”.

Una volta ritenuta ammissibile la domanda di annullamento dell'accordo di separazione per violenza morale, si pone la questione della sua fondatezza. Come è noto, la violenza, di cui agli artt. 1434 ss. c.c. consiste nella minaccia di un male ingiusto e notevole, tale da indurre una persona sensata alla stipula di un contratto, che altrimenti non avrebbe posto in essere. La mera rappresentazione interna di un pericolo non può costituire minaccia, tanto più quando la valutazione del pericolo stesso sia disancorata dalle norme di diritto applicabili e dai relativi principi. Sulla scorta di tali premesse, il Tribunale ha escluso che la prospettazione della madre di trasferire la residenza della figlia minore lontano dal padre e di impedirgli di mantenere relazioni con la stessa, potesse costituire una minaccia giuridicamente rilevante; sarebbe stato infatti il giudice, in base alle circostanze del caso, a disciplinare il miglior regime di affidamento, anche contro le richieste materne, ove il padre non avesse acceduto alle richieste della consorte. Del pari la sentenza in esame rigetta da domanda di rescissione, avanzata dall'attore (non è ben chiaro se ai sensi dell'art. 1447 o 1448 c.c.), nel presupposto dell'assunzione di obbligazioni a condizioni inique. Rileva il Tribunale come le condizioni reddituali del marito attore, se pur riferite ad anni di imposta differenti da quello della separazione, non avrebbe dato conto di una manifesta iniquità, mentre “l'ordinamento non assegna rilevanza, in generale, ad ogni negozio in cui si verifichi uno squilibrio del sinallagma”

Osservazioni

La pronuncia in commento è assai interessante, nella parte in cui evidenzia il profilo prettamente negoziale della separazione consensuale, che trova la sua fonte nell'accordo delle parti, rispetto al quale l'omologazione si pone solo come condizione di efficacia (e non di validità). Le medesime considerazioni valgono a fortiori per gli accordi raggiunti in sede di negoziazione assistita, soggetti ad autorizzazione, ovvero a nulla-osta del pubblico ministero. Muovendo da tale presupposto, il Tribunale esclude che la minaccia della madre di chiedere la collocazione della figlia minore e di portarla seco in luogo lontano possa integrare gli estremi della violenza, quale causa di invalidità dell'accordo. Il male prospettato avrebbe potuto essere evitato, ove fosse stato richiesto l'intervento del giudice, tenuto ad improntare ogni decisione all'interesse morale e materiale della prole. Difetta pertanto un nesso di causalità diretta tra la lamentata minaccia ed il pregiudizio dedotto, ossia l'adesione ad una separazione consensuale a condizioni decettive. Il Tribunale tiene inoltre ad evidenziare come la valutazione in ordine all'incidenza negoziale della minaccia debba essere contestualizzata e, dunque tener conto, di tutte le circostanze del caso concreto, non essendo sufficiente il richiamo astratto alla “persona sensata” di cui all'art. 1435 c.c.. In questo senso l'”elevato bagaglio culturale e professionale” del marito, il quale, nel corso del procedimento era stato assistito dal suo difensore, rendeva poco verosimile la sussistenza di una situazione di metus tale da assecondare richieste ingiuste della moglie; del resto, aggiunge il Tribunale, nessun fondato timore di trasferimento della figlia poteva essere individuato nel padre, il quale si era reso inadempiente agli obblighi assunti in sede di separazione.

Altro aspetto non meno interessante della decisione riguarda l'estensibilità dell'azione di rescissione agli accordi di separazione consensuale, se conclusi in stato di pericolo, ovvero per lesione. Il pericolo di danno grave alla persona, cui si riferisce l'art. 1447 c.c., può riguardare anche i diritti della personalità, ivi compreso quello all'identità personale, sub specie di identità genitoriale. Sta di fatto che, anche in questo caso, si tratterebbe comunque nella specie di un metus ab intrinseco, che avrebbe potuto essere scongiurato con il ricorso al giudice. Come evidenzia il Tribunale milanese, l'iniquità delle condizioni è presupposto fondamentale della fattispecie, in quanto la legge tutela non tanto un'indifferenziata libertà del contraente, quanto la specifica libertà di evitare negozi dannosi. L'iniquità delle condizioni contrattuali viene comunemente considerata una sproporzione oggettiva e tecnica tra i valori delle prestazioni assunte dalle parti, da valutare in base alle circostanze sia oggettive (entità del rischio dedotto) che soggettive (condizioni economiche delle parti), senza che, peraltro, occorra una lesione aritmeticamente predeterminata, come nel caso dell' art. 1448 c.c.. Nella specie detta iniquità viene comunque esclusa, sia sulla scorta degli elementi reddituali agli atti, sia per la pendenza fra le stesse parti del giudizio divorzile, che potrebbe dar luogo ad un diverso assetto delle reciproche obbligazioni.

Guida all'approfondimento

A. Figone, La violenza, in Commentario al codice civile, Giuffrè, 2005.

S. Sesta, Codice della famiglia, Giuffrè, 2015.

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