La dichiarazione di successione non veritiera integra il reato di falso ideologico

08 Giugno 2016

La sentenza in oggetto ha il merito di concorrere alla definizione della fisionomia del reato di cui all'art. 483 c.p. tanto sotto il profilo dell'elemento...
Massima

Integra il delitto di falsificazione ideologica di atto pubblico la presentazione di una dichiarazione di successione contenente indicazioni difformi dal vero poiché essa contiene autocertificazioni che, a monte, obbligano il privato a dichiarare il vero.

Il caso

La pronuncia in commento trae origine da un ricorso proposto avverso una sentenza di condanna, confermata in appello, a carico di due soggetti i quali, dopo avere formato un falso testamento olografo, per ottenerne la registrazione e pubblicazione affermavano falsamente la propria qualità di eredi della de cuius nella dichiarazione di successione presentata al notaio.

La questione

Le questioni di diritto affrontate dalla sentenza in commento sono le seguenti:

  • ai fini del reato di falso in scrittura privata è necessario provare l'esistenza di un dolo di profitto in capo all'agente?
  • la dichiarazione di successione è da considerare alla stregua di un atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell'art. 483 c.p.?
Le soluzioni giuridiche

La prima delle questioni giuridiche affrontate dalla sentenza in discorso attiene alla ricostruzione dell'elemento psicologico dei reati di falso, avuto particolare riguardo, nel caso di specie, alla definizione del dolo nella fattispecie prevista dall'art. 485 c.p., nella quale sono state sussunte le condotte di falsificazione della scheda testamentaria poste in essere dagli imputati. Questi, con il loro ricorso, sostengono la mancanza dell'elemento soggettivo, identificato nella necessaria sussistenza della (piena) rappresentazione e volontà di aver realizzato il documento falsificato e conseguentemente di averne fatto uso, unitamente al contestuale perseguimento della finalità di trarre profitto dalla falsificazione. Nel tentativo di contrastare la ricostruzione del dolo del reato di cui all'art. 485 c.p. come semplice coscienza e volontà dell'immutatio veri, i ricorrenti sembrano volersi richiamare ad un indirizzo minoritario in giurisprudenza (vd. Cass. pen., sez. V, 5 dicembre 2008, n. 2076) che, ai fini della sussistenza del dolo del reato de qua ritiene altresì necessaria la presenza di un'intenzione delittuosa ulteriore rispetto alla mera consapevolezza di realizzare una falsità, in ossequio al dettato codicistico. Tale opzione interpretativa sembra presupporre una diversa valutazione dell'obiettività giuridica propria della struttura dei reati di falso, normalmente identificata nella tutela della genuinità (materiale) e della veridicità (ideologica) di determinati documenti e dalla quale esulerebbero, pertanto, le nozioni di danno o di profitto, bastando al perfezionarsi del reato il mero pericolo che dalla contraffazione o dall'alterazione possa derivare alla pubblica fede. Secondo una differente ricostruzione occorrerebbe, invece, la prova dell'avvenuta lesione o messa in pericolo dei singoli interessi garantiti dall'integrità dei mezzi documentali, di talché il reato di falso sarebbe da considerarsi plurioffensivo, con conseguente diversa articolazione dell'elemento psicologico, il quale dovrebbe necessariamente esigere la volontà di arrecare, tramite l'alterazione del vero, un pregiudizio ovvero, trattandosi di reati di pericolo, la rappresentazione di questo.

La Corte ribadisce sul punto l'orientamento tradizionale, in forza del quale l'aspetto soggettivo del delitto in esame è integrato dalla rappresentazione e volizione del falso e, in particolare, dalla consapevolezza di agire contro il dovere giuridico di dichiarare il vero, potendosi escludere il dolo nelle sole ipotesi, non ricorrenti tuttavia nel caso sottoposto alla Corte, in cui la falsità risulti essere semplicemente dovuta ad una negligenza o leggerezza, non essendo prevista nel vigente sistema la figura del falso documentale colposo. Nell'aderire al predetto orientamento, peraltro, la sentenza de qua precisa come il dolo del reato di falso in scrittura privata debba consistere altresì nel perseguimento, da parte dell'agente, di un vantaggio o un danno per sé o per altri, senza che occorra, tuttavia, il perseguimento di finalità illecite, poiché l'oggetto di esso è costituito dal fine di trarre un vantaggio di qualsiasi natura, legittimo od illegittimo, così sconfessando la tesi dei prevenuti.

La seconda questione affrontata dalla sentenza concerne la natura della dichiarazione di successione, dalla cui soluzione discende la definizione delle conseguenze che derivano, sotto il profilo penale, dall'aver reso la dichiarazione in questione con un contenuto falso.

Come noto, la condotta incriminata dal reato di cui all'art. 483 c.p. incide su un comune oggetto materiale: il documento che deve possedere i requisiti giuridici dell'atto pubblico. La Cassazione, con la pronuncia in discorso, è stata chiamata a decidere se la falsità delle attestazioni contenute nella dichiarazione di successione integri il reato di cui all'art. 483 c.p..

La Corte di Cassazione respinge la tesi avanzata dai ricorrenti che pretendeva valutarsi la dichiarazione di successione quale atto destinato ad enucleare unicamente il quantum dovuto dai dichiaranti per saldare l'imposta dovuta in riferimento alla successione e non la sussistenza di rapporti di parentela, ossia come atto di natura meramente patrimoniale rilevante quale adempimento di natura fiscale. Nel ricorso, in particolare, i falsi eredi hanno adombrato una natura bifasica della dichiarazione di successione, in virtù della quale, nella fase procedimentale che precede l'intervento del pubblico ufficiale essa non avrebbe le caratteristiche di cui all'art. 2699 c.c. ma esclusivamente natura privata con conseguente impossibilità di configurare in questo segmento temporale il reato di falso. La natura pubblicistica, invece, verrebbe in rilievo solo nella fase successiva.

Di diverso avviso la Cassazione che, con la sentenza in commento, respinge la predetta tesi pur senza sconfessare la natura eterogenea della dichiarazione di successione, che è atto composito, formato dalla denuncia del dichiarante in ordine agli elementi da cui trae origine l'obbligo tributario, cui segue nello stesso documento l'atto del pubblico ufficiale, il quale determina e certifica l'ammontare della relativa imposta. La valutazione operata dai giudici di legittimità, presuppone la valutazione dell'atto contenente false attestazioni in modo non avulso dal procedimento in cui si colloca e dall'esito dello stesso, bensì come frammento di una più ampia serie procedimentale avente rilevanza pubblicistica, la quale finisce per riverberarsi sulla dichiarazione di successione, che assume in tal modo natura complessa, in parte ascrivibile alla nozione di “atto pubblico” ex art. 483 c.p.. Le conseguenze pubblicistiche di carattere fiscale della dichiarazione di successione si riflettono sulla sostanza della stessa, innervando di sé la natura giuridica dell'atto in sé.

Per giungere alla suesposta conclusione, riconducendo la dichiarazione di successione all'ampio genus dell'atto pubblico, la sentenza fa propri i principi elaborati dalla Suprema Corte in fattispecie analoghe riferite a differenti species documentali, ai quali è utile richiamarsi al fine di meglio comprendere gli esiti della vicenda in esame.

Alla luce di una giurisprudenza uniforme della Cassazione, rientrano nella nozione di atto pubblico anche tutti quegli atti che si collocano nel contesto di una complessa sequela procedimentale, fungendo da necessario presupposto di momenti procedurali successivi.

Invero, dopo la presentazione all'ufficio da parte del privato, la dichiarazione di successione costituisce il primo atto del procedimento amministrativo, assumendo natura pubblica, con l'effetto di venire sottratta alla disponibilità del denunziante, passando alla potestà certificativa ed autoritativa del pubblico ufficiale. Dal momento che il delitto previsto dall'art. 483 c.p. sussiste qualora l'atto pubblico, nel quale la dichiarazione del privato è trasfusa, sia destinato a provare la verità dei fatti attestati e, cioè, quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all'atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente, la valorizzazione degli effetti pubblicistici del procedimento in cui si inserisce la dichiarazione di successione consente di ritenere integrata l'obbiettività giuridica del reato, in presenza di dichiarazioni difformi rispetto al vero.

Si tratta del medesimo percorso argomentativo alla base di numerosi precedenti della Corte di cassazione, ad esempio nei casi in cui è stata ritenuta la sussistenza del reato in presenza di una falsa autodichiarazione, resa ai sensi dell'art. 46 d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, circa le condizioni di reddito fungenti da presupposto per l'ottenimento di un abbonamento mensile a tariffa agevolata ai servizi di trasporto comunale.

Appare evidente come, ad assumere valore selettivo, non sia tanto la funzione propria del singolo atto, in sé considerato, quanto piuttosto l'inserimento dello stesso in un più ampio contesto procedimentale avente, in ultima istanza, rilevanza pubblicistica.

Osservazioni

La sentenza in oggetto ha il merito di concorrere alla definizione della fisionomia del reato di cui all'art. 483 c.p. tanto sotto il profilo dell'elemento soggettivo quanto in punto di struttura oggettiva della fattispecie, rifacendosi, a tal fine, agli insegnamenti della prevalente giurisprudenza di legittimità.

Come rilevato, infatti, la sentenza annotata si pone nel solco di una giurisprudenza pacifica in punto di definizione del dolo delle falsità in scrittura privata e di individuazione dell'elemento oggettivo del reato di falso ideologico.

Dal primo punto di vista, la sentenza conferma la prassi applicativa propensa a ritenere che ai fini dell'integrazione del dolo del reato sia sufficiente la coscienza e volontà della semplice immutatio veri a prescindere dalla sua incidenza sulla sfera di interessi tutelati. Si tratta di orientamento risalente, con il quale la Cassazione, prendendo atto che per la punibilità del falso documentale il codice vigente ha eliminato, considerandola superflua, la condizione che l'alterazione della verità sia tale che possa derivarne pubblico o privato nocumento, asserisce che nei delitti di falso documentale il nocumento potenziale, anche laddove previsto (è il caso dell'art. 485 c.p.) possa consistere in qualsiasi pregiudizio, politico, economico o morale derivante dalla falsità, purché giuridicamente valutabile. Ciò in quanto, partendo da una definizione di “scrittura” come il documento che contiene manifestazioni, dichiarazioni o attestazioni di volontà atte a fondare o a suffragare una pretesa giuridica o a provare un fatto giuridicamente rilevante, ogni falsità che cada su un documento di tal genere ha necessariamente in sé l'attitudine a nuocere. In tal modo, tuttavia, a parere di parte della dottrina, si rischia di addivenire ad un sostanziale appiattimento della funzione selettiva del dolo specifico. Posto che, per ciò che riguarda il falso di cui all'art. 485 c.p., si è in presenza di un dolo di tal fatta, il problema sta nella volatilizzazione, ad opera della giurisprudenza, dello stringente significato finalistico impresso alla fattispecie dal legislatore, tramite la previsione del fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno.

La critica, mossa da una parte della dottrina, non attiene la circostanza che il vantaggio o il danno possano essere anche non patrimoniali, atteso che gli interessi sostanziali connessi in modo “variabile” alla fede pubblica ben possono esulare dalla sfera patrimoniale, ma attinge, piuttosto, la prassi giurisprudenziale in punto di prova del predetto elemento in capo all'agente rispetto al fatto concreto, che spesso finisce per essere considerato implicito nel fatto materiale, a prescindere dalla prova della rappresentazione e volizione degli elementi caratterizzanti la fattispecie obbiettiva nel suo complesso, anche sul piano offensivo. Da questo punto di vista, la sentenza de qua avalla la necessità di uno sforzo probatorio più pregnante, complice la peculiarità del caso di specie, ricco di elementi sintomatici della scoperta volontà dei ricorrenti di trarre vantaggio dalla falsificazione della scheda testamentaria, ricavabile da una serie di elementi di fatto adeguatamente valorizzati dai giudici di merito.

Per quanto concerne, invece, l'elemento di fattispecie consistente nell' “atto pubblico”, nulla innova la sentenza in discorso nell'individuare nella specifica rilevanza giuridica che abbia la documentazione pubblica dell'attestazione del privato il criterio di discrimen tra l'irrilevanza penale e l'ascrivibilità delle false dichiarazioni al reato di cui all'art. 483 c.p..

Vi è, peraltro, un elemento di novità, per cui la pronuncia in commento merita segnalarsi, ravvisabile nel tipo di dichiarazione rispetto alla quale viene effettuata la valutazione di rilevanza penale delle false dichiarazioni del privato, essendo i giudici di legittimità chiamati a pronunciarsi sulla specifica natura della dichiarazione di successione e sulle conseguenze delle falsità in essa contenute, con una decisione che contribuisce ad implementare un'ulteriore fattispecie concreta alla variegata casistica applicativa della norma de qua.

La nozione di “atto pubblico” ex art. 483 c.p., infatti, si colora, per effetto della pronuncia in oggetto, di un'ulteriore ipotesi, costituita proprio dalla dichiarazione di successione nella quale siano trasfuse le false attestazioni del privato. Attraverso l'implementazione della dichiarazione di successione nella nozione di “atto pubblico”, che è elemento integrativo di carattere normativo, la sentenza in esame contribuisce ad un'estensione dell'area di incriminazione connessa al falso documentale ideologico, in una prospettiva di maggior definizione dell'area offensiva del reato.

Guida all'approfondimento

A. Sereni, Il dolo nelle falsità documentali, Aa.Vv., Le falsità documentali, a cura di Ramacci, Padova, 2001, 329

F. Bricola, Considerazioni esegetiche sul dolo specifico del reato di falso in scrittura privata, in Arch. pen., 1960, 65

F.G. Capitani, Il privato ‘bara' quando autocertifica un dato inveritiero. Qualunque sia il dato, commette un reato, in www.dirittoegiustizia.it, 2012, 268

A. Foti, Attestazione incompleta: l'omissione di specifiche informazioni integra il reato?”, in www.dirittoegiustizia.it, 2014, 1, 44

V. Lazzari, Falsità ideologica del privato in atto pubblico e obbligo giuridico di attestare il vero, in RGU, 1999, II, 607

R. Guerrini, Aspetti problematici della falsità ideologica descritta dall'art. 483 c.p., in IP, 1985, 679

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