Legge n. 40/2004 e selezione degli embrioni affetti da malattie genetiche

15 Gennaio 2016

La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, commi 3, lett. b), e 4 l. 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui si contempla come ipotesi di reato la condotta del sanitario di selezione degli embrioni, anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l'impianto nell'utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili.
Massima

La Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, commi 3, lett. b), e 4 l. 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui si contempla come ipotesi di reato la condotta del sanitario di selezione degli embrioni, anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l'impianto nell'utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), l. 22 maggio 1978, n. 194 e accertate da apposite strutture pubbliche.

Va, invece, dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 1 e 6, l. n. 40, in cui si prevede il divieto, penalmente sanzionato,di «soppressione di embrioni», anche ove trattasi di embrioni soprannumerari risultati affetti da malattie genetiche a seguito di selezione finalizzata ad evitarne l'impianto nell'utero della donna.

Il caso

Il giudizio di legittimità costituzionale è stato proposto dal Tribunale di Napoli nell'ambito di un procedimento penale a carico di un gruppo di professionisti rinviati a giudizio per aver realizzato la produzione di embrioni umani per fini diversi da quelli previsti dalla l.19 febbraio 2004, n. 40. Essi, infatti, avevano disposto una selezione eugenetica e la soppressione di embrioni affetti da patologie.

Il Tribunale pertanto ha sollevato una duplice questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, commi 3, lett. b), e 4, e dell'art. 14, commi 1 e 6, l. n. 40, nella parte in cui si contemplano quali ipotesi di reato rispettivamente, la selezione eugenetica e la soppressione degli embrioni soprannumerari «senza alcuna eccezione», non facendo, quindi, salva l'ipotesi in cui una tale condotta sia «finalizzata all'impianto nell'utero della donna dei soli embrioni non affetti da malattie genetiche o portatori sani di malattie genetiche» e la soppressione concerna, conseguentemente, gli embrioni soprannumerari affetti, invece, da siffatte malattie.

Secondo il Tribunale, tali ipotesi violerebbero gli artt. 2, 3 e 32 Cost., nonché l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo.

La questione

Secondo il Tribunale remittente, l'art. 13, commi 3, lett. b), e 4, l. n. 40 del 2004, si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con il principio di ragionevolezza e con il diritto alla salute, per contraddizione rispetto alla finalità di tutela della salute dell'embrione di cui all'art. 1 della medesima legge n. 40. Tale norma violerebbe altresì l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, «laddove ha affermato che il diritto al rispetto della vita privata e familiare include il desiderio della coppia di generare un figlio non affetto da malattia genetica (in tal senso, Corte EDU, Costa e Pavan contro Italia, sent.28 agosto 2012, § 57)».

Invece, secondo il Tribunale di primo grado, l'art. 14, commi 1 e 6, l. n. 40 del 2004 violerebbe il diritto di autodeterminazione, garantito dall'art. 2 Cost., e il principio di ragionevolezza, rispetto al disposto dell'art. 6 l. 22 maggio 1978, n. 194, che consente agli operatori sanitari di praticare l'aborto terapeutico – anche oltre il termine di 90 giorni dall'inizio della gravidanza – in presenza di «processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro». Inoltre, esso si porrebbe in contrasto con l'art. 8 CEDU, poiché assoggettare a sanzione penale l'operatore medico che proceda alla soppressione degli embrioni soprannumerari affetti da malattie genetiche, costringerebbe le coppie a subire in ogni caso l'impianto di embrioni affetti da malattie genetiche con pregiudizio per la salute dalla donna. La coppia, infatti, sarebbe costretta a seguire necessariamente la strada dell'interruzione volontaria della gravidanza.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 3, lett. b), e comma 4. Essa ha statuito che selezionare gli embrioni da trasferire al fine di tutelare il prioritario interesse alla salute della donna non è più reato. A tale riguardo, quando siano accertati dalle preposte strutture pubbliche processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, il sanitario dovrà procedere all'impianto dei soli embrioni sani preventivamente individuati tali con la diagnosi genetica preimpianto.

La Consulta ha dichiarato costituzionalmente legittimo, invece, il divieto di soppressione degli embrioni, anche quando sono soprannumerari, previsto dall'art. 14, commi 1 e 6, in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. ed all'art. 117, comma 1 Cost., in relazione all'art. 8 CEDU.

Con la sentenza in esame, dunque, la selezione eugenetica degli embrioni cessa di essere un reato, se finalizzata a evitare che vengano impiantati embrioni affetti da gravi malattie trasmissibili, così come già previsto dalla legge sull'aborto. Permane, invece, il divieto di distruzione degli stessi embrioni, quale che sia la loro condizione di salute.

Sostanzialmente, la Corte ha adeguato l'impianto penalistico della legge n. 40 cit. rispetto alle sue precedenti pronunce, in particolare, rispetto alla sentenza 5 giugno 2015 n. 96, con la quale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1 nella parte in cui non si consentiva il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie genetiche trasmissibili alla prole, qualificabili per analogia secondo il criterio normativo di gravità previsto dalla l. 194/1978.

Avendo affermato il diritto della coppia di selezionare l'embrione sano da quello malato, la previsione di cui all'art. 13, comma 3, lett. b), che prevede una sanzione penale a carico del sanitario che esegua la selezione a tutela della salute della donna evitando di trasferire l'embrione malato, non ha più ragione di esistere. E «ciò al fine esclusivo della previa individuazione», in funzione del successivo impianto nell'utero della donna, «di embrioni cui non risulti trasmessa la malattia del genitore comportante il pericolo di rilevanti anomalie o malformazioni (se non la morte precoce) del nascituro», alla stregua del «criterio normativo di gravità». La sentenza della Corte in commento completa, quindi, la quadratura del cerchio.

Con riferimento, invece, all'art. 14, commi 1 e 6, la Corte Costituzionale ha precisato che il divieto previsto dalla legge risulta conforme al principio di ragionevolezza, rientrando nella discrezionalità del legislatore tutelare la dignità dell'embrione – sebbene malato –. Difatti, la malformazione degli embrioni non giustifica un trattamento deteriore rispetto a quello riservato agli embrioni sani, prospettandosi «l'esigenza di tutelare la dignità dell'embrione, alla quale non può parimenti darsi, allo stato, altra risposta che quella della procedura di crioconservazione».

La discrezionalità del legislatore può essere censurata solo ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto od arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza. Secondo la Consulta, un vizio del genere non è ravvisabile nella scelta del legislatore di vietare e sanzionare penalmente la condotta di «soppressione di embrioni», ove pur riferita agli embrioni che, in esito a diagnosi preimpianto, risultino affetti da grave malattia genetica. Infine, la Corte ha rigettato la questione anche in relazione al «diritto di autodeterminazione» ed ai parametri europei poiché «il divieto di soppressione dell'embrione malformato non comporta l'impianto coattivo nell'utero della gestante».

Osservazioni

Con riguardo alla tutela dell'embrione e all'ultimo profilo richiamato, la Corte costituzionale, con la precedente sentenza 8 maggio 2009 n. 151, aveva riconosciuto il fondamento costituzionale di tale tutela nell'art. 2 Cost. Tuttavia, – al pari della tutela del concepito – era stata ritenuta suscettibile di «affievolimento», ma soltanto in relazione alle ipotesi di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale – come il diritto alla salute della donna – che, in termini di bilanciamento, fossero risultati prevalenti.

Secondo la Corte, nel caso all'esame, non sussiste alcun diritto da bilanciare: la tutela della salute della donna o le esigenze autodeterminative della coppia. Nell'ipotesi dell'aborto, il diritto alla vita del feto risulta “affievolito” solo se entra in conflitto con altri diritti di pari rilievo costituzionale che, all'esito del bilanciamento, risultino prevalenti. Fino ad oggi, alla luce della sentenza n. 27/1975 della Corte Costituzionale che ha permesso la liberalizzazione dell'aborto volontario, l'unico interesse prevalente è risultato quello alla vita e alla salute della madre. Nel caso dell'embrione malformato, ma non impiantato, e d'ora innanzi non più impiantabile, la Corte – per il momento – non ha individuato contrapposti interessi la cui tutela ne giustifichi la soppressione.

Ma è facile intuire che altri interessi prevalenti potrebbero delinearsi nel prossimo futuro e non possiamo non citare il caso pendente dinanzi alla Corte Costituzionale relativo alla possibilità di destinare gli embrioni soprannumerari alla ricerca scientifica e dunque alla conseguente soppressione.

È utile chiarire altresì che la sentenza in commento ha recepito all'interno del nostro ordinamento la giurisprudenza della Corte Edu che ha riconosciuto l'esistenza del diritto della famiglia ad un figlio sano, che, nell'ordinamento italiano, sarebbe garantito dalla disciplina sull'aborto, ma negato da quella sulla procreazione medicalmente assistita. In particolare, punto di riferimento risulta la già richiamata sentenza della Corte Edu 28 agosto 2012, riguardante il caso Costa e Pavan c. Italia, con cui è stato dichiarato illegittimo il divieto della l. n. 40/2004 circa la diagnosi genetica preimpianto specie in relazione alla normativa italiana in tema di interruzione volontaria di gravidanza. Ma la pronuncia non chiarisce qual è il criterio di riferimento per ritenere prevalente il diritto della famiglia di avere un bambino sano rispetto al diritto alla dignità dell'embrione.

La decisione fa riferimento alla diagnosi preimpianto allo scopo di evitare di impiantare un embrione malato che può portare alla nascita di un bambino affetto da una malattia genetica e, richiamando la precedente pronuncia n. 96/2015, si afferma che «quanto è divenuto lecito non può – per il principio di non contraddizione – essere più attratto nella sfera del penalmente rilevante». Invero, con la sentenza n. 96 è stata censurata la legge 40 nella parte in cui non consentiva alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche il ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Tale pronuncia ha condannato l'irragionevolezza e l'illogicità della previsione normativa che non consentiva alle coppie portatrici di malattie genetiche gravi di accedere alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto salvo poi riconoscere il diritto, alle medesime condizioni, di ricorrere alle comuni diagnosi prenatali e all'aborto.

Questo precedente, peraltro, ha avuto il merito di definire la gerarchia dei valori in gioco: in primis il diritto alla salute della donna, in secundis il diritto di procreare e costituire una famiglia. Diritti che debbono essere necessariamente bilanciati con il diritto alla vita spettante all'embrione.

Appare allora inevitabile che la sentenza in esame sia fonte di contraddizioni poiché è indice della difficoltà di bilanciare, nell'ordinamento italiano, la tutela dell'embrione rispetto ad altri diritti rilevanti. Se è pacifico il principio già affermato dalla Corte secondo cui non sussiste l'obbligo di impiantare tutti gli embrioni prodotti con la fecondazione assistita, desta preoccupazione la tutela del principio di autonomia e dignità dell'embrione, garantito, dalla stessa legge censurata, all'art. 1. Se, difatti, si afferma di volerne tutelare la dignità umana, si riconosce al tempo stesso la sua condanna al “congelamento”.

D'altro canto, lo stesso concetto di embrione malato non è chiaro, atteso che la presenza di un danno genetico nell'embrione non è certo che sviluppi in tutti i casi una malattia. Ciò che, viceversa, appare evidente è l'apertura verso forme di selezione a fini eugenetici e la configurazione per l'embrione malato di un diritto alla vita «affievolito».

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