Il “secondo” riconoscimento del figlio deve essere effettivamente rispondente all'interesse del minore

15 Giugno 2017

È legittima una sentenza di riconoscimento che tiene luogo del consenso mancante dell'altro genitore quando il figlio minore abbia espresso una volontà contraria?
Massima

Il risultato dell'audizione della figlia minore, capace di discernimento, la quale si sia opposta decisamente al riconoscimento da parte del padre, deve essere apprezzato dal Giudice del merito nel contesto della valutazione, in concreto, del suo interesse a realizzarsi nel contesto delle relazioni affettive che consentano uno sviluppo armonico della sua identità sotto il profilo psichico, culturale e relazionale.

Il caso

Il Tribunale di Roma accoglieva la domanda proposta da W nei confronti della D, intesa ad ottenere l'autorizzazione, sostitutiva del consenso della convenuta, che lo aveva negato, al riconoscimento della figlia naturale della coppia, AD, nata nel 2003.

Accertata la paternità biologica dell'attore, veniva rilevato che il riconoscimento corrispondeva all'interesse della minore, non essendo al riguardo ostativi nè i precedenti contrasti fra i genitori, esclusa peraltro la prova certa di un comportamento lesivo dell'attore nei confronti della madre della minore, nè il parere, risultante da una consulenza prodotta dalla convenuta, circa l'insussistenza di idonea capacita genitoriale in capo al W, formulato su base esclusivamente documentale.

La Corte di appello di Roma, pronunciando sul gravame proposto dalla D, confermava la decisione di primo grado.

Con sentenza del 24 dicembre 2013, n. 28645, la Suprema Corte cassava detta decisione, in relazione alla violazione del principio, disatteso dalla corte distrettuale, inerente alla necessità dell'ascolto della minore.

Svoltosi il giudizio di rinvio, nel quale si procedeva, previa nomina da parte del Collegio di un curatore speciale della minore, all'audizione della stessa, la Corte di appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, ha affermato che il riconoscimento da parte del W corrispondeva all'interesse della minore, sia per i vantaggi normalmente connessi alla bigenitorialità, sia per l'arricchimento sotto il profilo affettivo derivante dal rapporto con il genitore, che, nel frattempo, aveva costituito un nucleo familiare, con due figli in California, sia per l'assenza di elementi ostativi, da identificarsi con il pericolo di un serio pregiudizio allo sviluppo psicofisico della minore.

Sotto tale profilo è stato rilevato che l'accanimento con il quale il W, la cui paternità risultava dalle prove genetiche svolte nel primo grado del giudizio, aveva intrapreso varie azioni giudiziarie in relazione alla vicenda in esame, poteva interpretarsi come la manifestazione del desiderio di stabilire una relazione giuridica e affettiva con la figlia, laddove le risalenti condotte violente nei confronti della D non erano significative di una personalità violenta e aggressiva.

Nè poteva assumere rilievo la vicenda giudiziaria che aveva coinvolto il W negli Usa per ragioni di natura fiscale, laddove la situazione psicopatologica denunciata non aveva il requisito dell'attualità, essendo stata prodotta dalla madre una relazione non attendibile, in quanto l'esperto che l'aveva redatta non aveva mai esaminato il padre.

L'interesse della minore al riconoscimento non poteva essere escluso sulla base delle sue dichiarazioni, di segno contrario, rese in sede di audizione, da attribuirsi ad informazioni errate sulle condotte paterne ed al timore di turbare l'attuale situazione familiare.

E' stata, infine, esclusa la necessità di una consulenza psicologica sulla personalità del W in quanto una valutazione dell'effettiva capacità genitoriale dello stesso era riservata alla successiva applicazione del regime di affido e all'esercizio delle relative facoltà.

Per la cassazione di tale decisione la D propone ricorso.

La questione

La questione che la Suprema Corte si trova a dover risolvere è se possa legittimamente emettersi, ai sensi dell'art. 250 c.c., una sentenza di riconoscimento che tiene luogo del consenso mancante dell'altro genitore quando il figlio minore abbia espresso una volontà contraria.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, nell'accogliere il ricorso proposto dalla madre, ha osservato che la decisione della corte distrettuale, disattendendo sostanzialmente la volontà della minore, ha violato il principio, affermato dalla giurisprudenza (in tal senso Cass., 25 maggio 1982, n. 3118) e dalla prevalente dottrina, secondo cui il riconoscimento deve essere effettivamente rispondente all'interesse del figlio.

In proposito, deve richiamarsi il costante orientamento giurisprudenziale in merito alla necessità di un accertamento in concreto dell'interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all'esigenza di uno sviluppo armonico dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale (Cass., 23 settembre 2015, n. 18817; Cass., 8 novembre 2013, n. 25213; Cass., 19 ottobre 2011, n. 21651; Cass., 27 giugno 2006, n. 14840; Cass., 30 maggio 1997, n. 4834; Cass. 24 settembre 1996, n. 8413).

In tale quadro l'audizione del minore assume un particolare rilievo, costituendo la «prima fonte del convincimento del giudice»; di conseguenza «deve essere disposta d'ufficio e la sua omissione determina un vizio del procedimento» (in termini, Cass. 24 dicembre 2013, n. 28645).

Aggiungono i giudici nomofilattici che l'esigenza di attribuire rilievo, ai fini del convincimento, a quanto emerso in sede di audizione, deve essere maggiormente avvertita alla luce delle modifiche introdotte all'art. 250 c.c. con la l., 10 dicembre 2012, n. 219, ove si consideri che, ai sensi del novellato secondo comma di detta norma, «il riconoscimento del figlio che ha compiuto i quattordici anni non produce effetto senza il suo assenso», il quale, a differenza del rifiuto del consenso da parte dell'altro genitore, non comporta alcuna successiva valutazione in sede giudiziale.

Ne consegue che, una volta valutata positivamente la capacità di discernimento (nella specie la corte di appello ha affermato che «la minore è apparsa un'adolescente matura, consapevole della sua condizione, in grado di interagire adeguatamente con l'interlocutore e di rispondere in maniera ponderata alle domande»), il risultato dell'audizione della figlia, che si è opposta decisamente al riconoscimento, avrebbe dovuto essere apprezzato, valutando, in concreto, il suo interesse a realizzarsi nel contesto delle relazioni affettive che consentano uno sviluppo armonico della sua identità sotto il profilo psichico, culturale e relazionale.

Naturalmente le valutazioni del giudice, in quanto doverosamente orientate a realizzare !'interesse del minore, che può non coincidere con le opinioni dallo stesso manifestate, potranno in tal caso essere difformi (v. anche CEDU 9 agosto 2006, in ric. n. 18249/02): al riguardo si ritiene sussistente un onere di motivazione direttamente proporzionale al grado di discernimento attribuito al minore stesso (Cass., 17 maggio 2012, n. 7773).

Il prioritario interesse del minore va in ogni caso contemperato con il diritto del genitore che trova tutela nell'art. 30 Cost. e che può essere sacrificato soltanto in presenza del rischio della compromissione dello sviluppo psicofisico del minore (Cass. 3 febbraio 2011, n. 2645; Cass., 3 gennaio 2008, n. 4; Cass., 11 gennaio 2006, n. 395): a tale valutazione globale, da effettuarsi sulla base delle concrete emergenze di ogni singola vicenda processuale, non si sottrae il vaglio della personalità del richiedente (Cass., 16 novembre 2005, n. 23074).

Osservazioni

Con la sentenza in commento la Suprema Corte sottolinea la necessità dell'accertamento in concreto, nel procedimento previsto dall'art. 250, comma 4, c.c., dell'interesse del figlio minore infraquattordicenne.

Sul punto gli orientamenti della giurisprudenza oscillano tra due contrapposti indirizzi.

La tesi prevalente, movendo dalla presunzione che il secondo riconoscimento risponde di regola ai bisogni affettivi e alle esigenze economiche e sociali del minore, in quanto la presenza di entrambi i genitori è elemento essenziale di identificazione della persona e fattore che contribuisce alla crescita e all'educazione equilibrata del minore, ritiene che il rifiuto sia legittimo solo in presenza di seri e specifici motivi che evidenzino la contrarietà dell'interesse del minore al secondo riconoscimento (Cass., 26 novembre 1998, n. 12018; Cass., 5 febbraio 1985, n. 790; Trib. min. Milano, 10 febbraio 2010; App. Roma, 9 novembre 1993; Trib. min. Torino, 29 dicembre 1986).

Secondo altro orientamento – al quale aderisce la pronunzia in esame – la convenienza del riconoscimento rispetto all'interesse del minore non può essere valutata in via presuntiva e astratta, ma deve essere compiuta in concreto, dovendo, quindi, verificarsi che effettivamente il secondo riconoscimento corrisponda ad un reale interessamento del genitore per il figlio e non arrechi alcun pregiudizio a quest'ultimo, avendo riguardo sia alle ragioni addotte dall'altro genitore per negare il consenso, sia alle effettive esigenze morali e materiali del minore, considerate l'età, la sua condizione attuale e quella in cui potrebbe versare a seguito del secondo riconoscimento (Cass., 10 gennaio 1998, n. 151; Cass., 21 agosto 1993, n. 8861; Cass., 13 novembre 1986, n. 6649; Trib. min. Catania, 17 aprile 1997). In quest'ottica si accentua il ruolo del giudice nell'accertamento e si riconosce che egli non solo ha la facoltà di valutare liberamente gli elementi di prova forniti dalle parti, ma anche di integrarli con quelli che gli sembrano più opportuni, avvalendosi, quindi, dei più ampi poteri inquisitori. Recependo questa giurisprudenza, la specificazione, introdotta dalla riforma della filiazione, secondo cui il giudice può assumere «ogni opportuna informazione» (ad esempio, chiedendo una relazione ai servizi sociali o disponendo una consulenza tecnica), accentua ulteriormente la discrezionalità del giudice nell'accertamento.

Nel quadro sopra delineato si inserisce, peraltro, nella giurisprudenza più recente anche la preoccupazione di individuare un ragionevole punto di equilibrio tra l'interesse del minore a non vedere turbata in senso deteriore la dimensione affettiva, materiale e sociale della sua esistenza, da un lato, e l'interesse del genitore a vedere riconosciuta la propria genitorialità, dall'altro, interesse qualificato anch'esso come diritto soggettivo primario, costituzionalmente garantito. In questa prospettiva si è allora affermato che il sacrificio del diritto alla genitorialità può avvenire soltanto in presenza di un fatto impeditivo di importanza proporzionata al valore del diritto sacrificato, ossia ove si dimostri che dal secondo riconoscimento può derivare un trauma così grave da pregiudicare in modo serio lo sviluppo psicofisico del minore (Cass., 3 gennaio 2008, n. 4).

Secondo l'orientamento accolto dalla dottrina prevalente, precedentemente alla novellazione del 2012 e del 2013, oggetto esclusivo del giudizio in parola deve considerarsi la rispondenza del secondo riconoscimento all'interesse del minore (M. Dogliotti, Che cosa è l'interesse del minore?, in DFP, 1992, 1093). Tuttavia, la decisione deve essere assunta tenendo conto anche dell'interesse del genitore che intendeva compiere il secondo riconoscimento (U. Majello, Filiazione naturale e comunità familiare, 5).

E' stato osservato in dottrina (G. Ferrando,La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali, in Corr. Giur. 2013, 4, 525) che la ratio della riforma del 2012 è quella di salvaguardare, per quanto possibile, la relazione tra il figlio e il genitore che riconosce per secondo. Da un lato, il termine di trenta giorni che il giudice assegna al genitore che rifiuta il consenso serve a verificare la sua effettiva determinazione di insistere nel rifiuto. Nel caso in cui l'opposizione venga proposta, se è palesemente fondata il giudice la accoglie, altrimenti detta i provvedimenti provvisori e urgenti a recuperare la relazione tra genitore e figlio. Con la decisione finale il giudice accoglie l'opposizione, oppure pronuncia sentenza che tiene luogo del consenso mancante. In questo caso, e si tratta di una novità rilevante, il giudice assume anche i provvedimenti opportuni in ordine all'affidamento, al mantenimento del figlio e al suo cognome. La legge 219, come già la riforma del 1975, prevede la necessità del consenso per ogni "secondo" riconoscimento, risultando tale anche quello che avviene a poche ore o giorni di distanza dall'altro. Sarebbe stato più opportuno richiedere il consenso solo per i riconoscimenti "tardivi" in quanto solo in questo caso si pone un problema di tutela dell'interesse del minore nei confronti di un evento che potrebbe alterare gli equilibri in cui è vissuto fino a quel momento. Nello stesso tempo si evita di attribuire al genitore che ha riconosciuto per primo una sorta di potere di veto che può talvolta dar luogo ad abusi.

Guida all'approfondimento

G. Ferrando e G. Laurini (a cura di), La riforma della filiazione, in Quaderni di Notariato, Milano, 2013, 85 ss.

E. Lamarque, Prima i bambini. Il principio dei best interests of the child nella prospettiva costituzionale, Milano, 2016

M. Sesta, L'accertamento dello stato di figlio dopo il decreto legislativo n. 154/2013, in Fam. e dir., 2014, 5, 454

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