Sì alla diagnosi preimpianto per una coppia fertile portatrice di malattia genetica trasmissibile

15 Settembre 2017

Il Tribunale di Milano valuta, alla luce di quanto stabilito dalla Consulta nella sent. n. 96/2015, una questione inerente la liceità dell'accesso delle coppie feritili portatrici di malattie genetiche ai trattamenti di PMA.
Massima

È ammesso il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita per le coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lett. b), l. n. 194/1978, accertati da apposite strutture pubbliche specializzate, giacché il diritto di mettere al mondo un figlio non affetto dalla medesima patologia genetica dalla quale è affetto uno dei due genitori costituisce una forma di espressione della vita privata e familiare dei ricorrenti, tutelata dall'art. 8 CEDU e dall'art. 7 Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, diritti ai quali, ai sensi degli artt. 6, 13 CEDU e 47 della citata Carta dei Diritti deve essere garantita una tutela effettiva. Pur in presenza di situazioni congiunturali particolarmente negative quali le esigenze finanziarie, il diritto alla salute non deve mai essere sacrificato, bensì tutelato e quindi, una volta accertato il diritto alla prestazione medica, qualora la struttura sanitaria pubblica dovesse trovarsi nell'impossibilità di erogarla tempestivamente in forma diretta, deve ritenersi che tale prestazione possa essere erogata in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie.

Il caso

Una coppia fertile portatrice di una malattia geneticamente trasmissibile ha citato in giudizio una struttura pubblica ospedaliera in seguito al diniego ad effettuare la diagnosi genetica preimpianto.

In particolare, i ricorrenti, considerato il rischio del 50% di trasmissione alla prole della malattia genetica – esostosi multipla ereditaria – del ricorrente, hanno evidenziato, con riferimento al fumus boni iuris l'avvenuta violazione del diritto alla salute e all'autodeterminazione dei genitori, nonché del diritto alla salute del nascituro; con riferimento al periculum in mora, hanno segnalato, invece, che iltrascorrere del tempo avrebbe comportato un aumento della percentuale di insuccesso delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Hanno chiesto, pertanto, in via principale, che venisse dichiarato e accertato il loro diritto di: i) ricorrere alle metodiche di procreazione medicalmente assistita (PMA), sottoponendosi ad un protocollo di PMA adeguato ad assicurare le più alte chances di risultato utile e a tutelare la salute della donna; ii) ottenere, nell'ambito dell'intervento di procreazione medicalmente assistita, l'esame clinico e diagnostico sugli embrioni, con il conseguente obbligo, in capo alla struttura sanitaria, di procedere al trasferimento in utero della ricorrente solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie dalle quali il ricorrente risultava essere affetto, nonché al rimborso, stante l'indisponibilità iniziale del Policlinico ad eseguire la metodica di diagnosi preimpianto, delle spese sostenute per effettuare le dette analisi nei centri medici stranieri.

I ricorrenti hanno, poi, chiesto al Tribunale, in via subordinata, di: i) disapplicare l'art. 1, comma 1 e 2 e l'art. 4, comma 1, l. n. 40/2004 per contrasto con l'art. 8 CEDU; ii) sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, e dell'art. 4, l. n. 40/2004, per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost., nonché per violazione degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost..

La struttura sanitaria si è costituita in giudizio contestando la sussistenza dei requisiti del fumus boni iuris, giacché il rifiuto all'erogazione della prestazione era stato esclusivamente determinato dalla mancanza della strumentazione e delle specifiche competenze necessarie, e non in ragione del disposto della l. n. 40/2004 e del periculum in mora, adducendo tra le varie motivazioni che la diagnosi preimpianto e la procreazione medicalmente assistita, in una coppia giovane come i ricorrenti, sarebbero stati procedimenti «ripetibili indefinitamente nel tempo in caso di insuccesso» e che «il test genetico e le tecniche di procreazione medicalmente assistita richieste dai ricorrenti non rientravano tra le prestazioni poste a carico del servizio sanitario nazionale», così concludendo per la dichiarazione di inammissibilità e infondatezza delle richieste di parte ricorrente.

La questione

Stante la rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale (sollevata dai ricorrenti) in relazione agli artt. 1, commi 1 e 2, e dell'art. 4, comma 1, l. n. 40/2004, per contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost. e per violazione degli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost. e la successiva dichiarazione di manifesta inammissibilità della stessa per carenza di interesse, in ragione delle statuizioni contenute nella sentenza n. 96/2015 (con la quale la Consulta ha deciso su un petitum di contenuto analogo, v. S. Veronesi, La Consulta riconosce l'accesso alla procreazione medicalmente assistita anche alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche gravi in www.ilFamiliarista.it), il Tribunale di Milano si è interrogato sulla fondatezza delle domande formulate da parte ricorrente alla luce di quanto statuito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 96/2015 e sulla possibilità di rilevare nel caso di specie i requisiti – gravità del danno/pericolo derivante alla madre dalla prosecuzione della gravidanza e necessità di un accertamento da parte di apposita struttura pubblica specializzata - individuati dai Giudici della Consulta al fine di valutare la liceità dell'accesso delle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili ai trattamenti di Procreazione Medicalmente Assistita.

Le soluzioni giuridiche

i) La sentenza n. 96/2015. Con sentenza n. 96/2015, la Consulta si è posta il problema del coordinamento delle disposizioni censurate (artt. 1, commi 1 e 2, e 4, comma 1, della l. n. 40/2004) con la l. n. 194/1978 in materia di interruzione volontaria di gravidanza, così rendendo la l. n. 194/1978 il parametro di valutazione per determinare i casi di ammissione alla diagnosi preimpianto delle coppie fertili, evidenziando come il divieto di diagnosi genetica preimpianto (da effettuarsi sull'embrione in vitro) sia del tutto irragionevole se solo si consideri che l'art. 6, comma 1, lett. b), l. n. 194/1978 ammette la possibilità di ricorrere all'aborto terapeutico (dopo i primi 90 giorni), qualora siano riscontrate gravi malattie del feto destinate ad inevitabili ripercussioni sul benessere psico-fisico della donna.

Infatti. La diagnosi preimpianto non soloconsente di prevenire gli stessi problemi in una fase ancora più anticipata, e, dunque, con minori rischi per la salute della donna, ma, altresì, permette a quest'ultima la preventiva acquisizione di informazioni sulle condizioni di salute dell'embrione; dunque, nel bilanciamento di contrapposti interessi si è data prevalenza alla tutela della salute della donna - intesa in senso ampio, come salute psico-fisica - rispetto alla tutela dell'embrione.

Con sentenza n. 96/2015 la Corte ha, pertanto, dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1, commi 1 e 2, e dell'art. 4, comma 1, della l. n. 40/2004 nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità di cui all'art. 6, comma 1, lettera b), della l. n. 194/1978 accertati da apposite strutture pubbliche, così individuando due requisiti per la liceità dell'accesso delle coppie fertili portatrici di malattie geneticamente trasmissibili alle tecniche di PMA.

ii) Primo criterio: gravità del danno/pericolo derivante alla madre dalla prosecuzione della gravidanza. La patologia genetica deve essere valutata alla stregua del criterio di “gravità”, di cui all'art. 6 comma 1, lettera b), della l. n. 194/1978 che prevede che: «L'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi novanta giorni, può essere praticata: b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».

La Corte traccia un evidente parallelismo tra aborto dopo i primi 90 giorni ed accesso alla PMA delle coppie fertili. A tal proposito, giova ricordare che ai sensi del citato art. 6 sia la «realtà e la gravità del danno o del pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione» a costituire la giustificazione costituzionalmente difendibile per consentire una regressione di tutela del concepito; né, peraltro, la selezione preventiva degli embrioni, in simili casi, può considerarsi volta alla selezione di un embrione “sano” o dotato di particolari caratteristiche biotipiche (e quindi per il perseguimento di “illegittimi fini eugenetici”), ma esclusivamente alla scelta dell'embrione privo della specifica e grave patologia geneticamente trasmissibile di cui è portatore uno dei genitori.

iii) Secondo criterio: accertamento da parte di struttura pubblica specializzata. Con riferimento a tale requisito, la Corte Costituzionale ha evidenziato che le patologie dovranno essere «adeguatamente accertate, per esigenze di cautela, da parte di apposita struttura pubblica specializzata», pertanto dotata dei requisiti organizzativi, strutturali e tecnologici adeguati all'espletamento della procedura di diagnosi preimpianto.

iv) Applicabilità dei criteri sopra enunciati al caso concreto e provvedimento finale. In merito al primo requisito della gravità, la Corte si è interrogata sulla reale necessità di fornire alla salute della madre una tutela tale da legittimare una protezione del concepito, onde giustificare la diagnosi genetica preimpianto nel percorso di PMA e ha evidenziato che le circostanze emerse dalla relazione svolta dal Consulente Tecnico quali la probabile deformità degli arti, il dolore associato alla malattia, la necessità di sottoporsi a continui interventi chirurgici e le evidenti ripercussioni negative sulla vita quotidiana del nascituro, fossero tali da far ritenere, in via presuntiva, che il fatto di intraprendere una gravidanza di un embrione affetto da Osteocondromi multipli ereditari (HMO), nonché la procreazione di un concepito affetto dalla detta patologia, avrebbe causato un serio rischio per la salute psichica della ricorrente.

I Giudici Milanesi hanno, poi, ritenuto, altresì, integrato il secondo requisito indicato dalla Corte Costituzionale - carattere pubblico della struttura e specializzazione della stessa - trattandosi di Ospedale - la Fondazione IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano - nel quale la diagnosi genetica preimpianto veniva già effettuata; ad ogni modo, ad una idoneità dal punto di vista organizzativo e strutturale, il Tribunale non ha fatto seguire una idoneità dal punto di vista tecnologico, stante la mancanza della “specifica strumentazione necessaria“, il che, comunque, non può mettere in discussione la tutela di un diritto fondamentale, quale il diritto alla salute.

Infatti tale diritto va comunque sempre tutelato anche qualora la struttura sanitaria pubblica si trovi nell'impossibilità di erogare tempestivamente la prestazione in forma diretta, dovendo, in una simile ipotesi, erogarla in forma indiretta, mediante il ricorso ad altre strutture sanitarie.

Infine, con riguardo al requisito del periculum in mora, il Tribunale ha osservato come, anche in ragione dell'età della ricorrente e della grave patologia del ricorrente, il decorrere del tempo necessario per la tutela ordinaria dei loro diritti sicuramente avrebbe causato un pregiudizio, non risarcibile, alla salute fisica e psichica di entrambi, in ragione dell'aumento della percentuale di insuccesso delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Alla luce di tali osservazioni, il Tribunale di Milano, ha:

a) accertato il diritto dei ricorrenti ad ottenere, nell'ambito dell'intervento di PMA, l'esame clinico e diagnostico sugli embrioni e il trasferimento in utero della ricorrente solo degli embrioni sani o portatori sani delle patologie dalle quali il ricorrente risultava affetto;

b) ha condannato la struttura sanitaria ad effettuare la diagnosi genetica preimpianto, o a provvedere all'erogazione della prestazione anche in altra struttura in caso di mancanza della strumentazione;

c) dichiarato inammissibile la domanda relativa ad ottenere il rimborso delle spese sostenute per effettuare i trattamenti di diagnosi genetica preimpianto in centri medici stranieri.

Osservazioni

Il provvedimento in esame è lodevole giacché, ancora una volta, sono i Giudici (la Consulta prima –con una “pronuncia additiva” - e il Tribunale di Milano poi) a indicare il principio generale cui ispirarsi in presenza di un vuoto normativo individuando, in attesa dell'intervento del Legislatore, la regola da applicare al caso concreto, al fine di garantire una tutela effettiva dei diritti fondamentali e inviolabili della persona.

Trattasi, nel caso specifico, del diritto di due soggetti di mettere al mondo un figlio non affetto dalla medesima patologia genetica dalla quale è affetto uno dei due genitori, la cui tutela ha trovato un ostacolo – sinché non è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 96/2015 - nella stessa fertilità dei ricorrenti, che ai sensi della l. n. 40/2004, ha sempre costituito un limite per l'accesso alle tecniche di PMA, riconosciuto soltanto alle coppie sterili o infertili.

Tale rigidità normativa ha determinato, nella realtà dei fatti, non solo un aumento dei soggetti che, al fine di accedere alle tecniche di PMA (il cui accesso in Italia era loro vietato), si sono recati presso strutture sanitarie straniere così incrementando il fenomeno del “turismo procreativo”, ma altresì, una evidente discriminazione tra i soggetti più abbienti (gli unici a potersi permettere tali “viaggi”) e quelli meno abbienti che hanno dovuto rinunciare a realizzare il loro sogno di genitorialità, ovvero sono stati costretti ad affrontare il rischio di intraprendere una gravidanza con un embrione affetto dalla stessa patologia genetica di uno dei genitori, impedendo così loro di esercitare alcuni diritti costituzionalmente garantiti quali il diritto a una procreazione cosciente e responsabile, nonché il diritto alla salute e all'autodeterminazione (consentita dalla conoscenza dello stato di salute dell'embrione) e alla realizzazione della personalità attraverso la genitorialità.

A ciò si aggiunga la violazione della vita privata e familiare (come, peraltro, evidenziato anche dalla Corte EDU che nella sentenza Costa e Pavan contro Italia – sent. 28 agosto 2012 - Ricorso n. 54270/10 - ha affermato che il «desiderio dei ricorrenti di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui sono portatori sani e di ricorrere, a tal fine, alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto rientra nel campo della tutela offerta dall'art. 8. Una tale scelta costituisce, infatti, una forma di espressione della vita privata e familiare dei ricorrenti») che trova la sua fonte normativa nell'art. 8 CEDU e nell'art. 7 Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, diritti ai quali, ai sensi degli artt. 6, 13 CEDU e 47 della Carta dei Diritti deve essere garantita una tutela effettiva.

Tale tutela – richiesta dai soggetti e non fornita dalla l. n. 40/2004 – è stata garantita e resa effettiva soltanto dai numerosi interventi dei Giudici, e in particolare della Corte Costituzionale che ha, sinora, pian piano smantellato la l. n. 40/2004, il che è un segnale evidente di come tale legge sia stata incapace, negli anni, di fornire una risposta alle esigenze primarie – come quelle procreative – delle persone, che avrebbero dovuto essere pienamente tutelate dal Legislatore e, invece, hanno trovato una chiusura da parte dell'ordinamento, della quale prova evidente è il carattere fortemente proibizionistico di tale legge.

Tutto ciò, oltre che comportare notevoli lacune a livello normativo ha, altresì, causato un forte allontanamento dell'ordinamento italiano rispetto agli ordinamenti europei (e extraeuropei) sia di civil law sia di common law, il che continua a far apparire il nostro sistema come fortemente conservatore e, probabilmente, più attento alla cura delle questioni etiche, che alla tutela dei diritti (fondamentali) soggettivi.

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