Il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche

17 Gennaio 2017

Il diritto a conoscere le proprie origini biologiche ed il proprio vissuto è un momento fondamentale per lo sviluppo pieno e sano della personalità e per l'identità personale dell'individuo, proprio sotto l'aspetto di un diritto all'identità biologica o genetica.
Massima

Il diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini non può trovare ostacolo, dopo la morte della madre, nella disposizione di cui all'art. 28, comma 7, l. 4 maggio 1983,n. 184 nel testo sostituito dall'art. 177, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, che prevede la protezione del segreto sino al decorso di 100 anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, perché un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata presuppone che tale limite temporale possa sempre venir meno per effetto della revoca della scelta dell'anonimato da parte della madre. Per altro verso, con la morte della madre vengono a scomparire o comunque ad affievolirsi quelle ragioni di tutela quo ad vitam che sono alla base del bilanciamento di interessi che legittima, nel sistema della convenzione europea e della nostra costituzione, la possibilità di partorire nell'anonimato.

Il caso

Tizia proponeva istanza al Tribunale per i minorenni di Torino, con la quale esponeva di essere nata presso l'Ospedale AB di CD da una donna, che aveva chiesto di restare anonima; di essere stata adottata e di aver assunto il nome di Tizia; chiedeva inoltre di accedere - avvalendosi di quanto statuito dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 278/2013 - ai dati riguardanti la madre e il parto, contenuti nella cartella clinica relativa alla sua nascita.

Il Tribunale per i minorenni di Torino accoglieva l'istanza di Tizia e richiedeva all'Ospedale AB di CD i dati relativi alla madre biologica. Ottenuta la documentazione e acquisita la notizia del decesso, il Tribunale respingeva l'istanza di Tizia, sul presupposto dell'impossibilità di interpellare la madre sulla sua persistente volontà di mantenere l'anonimato, escludendo con ciò che il decesso della madre potesse essere valutato come revoca implicita della volontà di non essere nominata.

Tizia proponeva quindi reclamo dinanzi alla Corte d'appello di Torino che lo respingeva.

La donna decide dunque di ricorrere per cassazione, ex art. 111 Cost., affidandosi a due motivi di impugnazione con i quali deduce la violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, n. 3, c.p.c. per erronea interpretazione dell'art. 28, comma 7, l. n. 184/1983, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 278/2013 e l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5 c.p.c..

In motivazione

La Suprema Corte parte dalla lunga disamina dei sempre più ampi riconoscimenti internazionali e sovranazionali del diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e alle circostanze della propria nascita. Inizia citando, fra le altre, la Convenzione di New York del 20 novembre 1989 delle Nazioni Unite in materia di diritti dei minori che afferma, all'art. 7, il diritto del minore di conoscere i propri genitori sin dalla nascita, nella misura del possibile. «La Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993, poi, che in tema di protezione dei minori e di cooperazione in materia di adozione internazionale prevede, all'art. 30, che le autorità competenti si impegnino a conservare le informazioni che detengono sulle origini del minore (..), così come i dati sulla storia sanitaria del minore e della sua famiglia ed assicurino l'accesso al minore o al suo rappresentante a queste informazioni nella misura prevista dalla legge del loro Stato». La Raccomandazione n. 1443/2000 (“Per il rispetto dei diritti del bambino nell'adozione internazionale”) dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa che ha invitato gli Stati a predisporre gli strumenti che assicurino «il diritto del minore adottato a conoscere le proprie origini al più tardi al compimento della maggiore età e ad eliminare dalle legislazioni nazionali qualsiasi disposizione contraria».

Ancora precisa la Corte come la scelta dei mezzi più adatti per assicurare equamente la conciliazione dell'istanza di protezione della madre, che si trova in una condizione di difficoltà tale da non consentirle di assumere il ruolo genitoriale, con la domanda legittima del figlio ad avere accesso alle informazioni sulle sue origini, spetta agli Stati aderenti alla Convenzione. Nel riepilogare, quanto successo è disciplinato dal diritto interno che, all'art. 93 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 prescrive che il diritto all'anonimato si conservi per cento anni dalla formazione del documento, si riallaccia necessariamente poi a quanto deciso nel 2013 dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 278 dispone in ordine alla rimozione dei caratteri di irreversibilità dell'anonimato, prevedendo un interpello della madre biologica all'interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza.

La questione

Il ricorso per cassazione è volto al riconoscimento del diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche e alle circostanze della propria nascita avverso il decreto n. 64/2015 della Corte d'appello di Torino, sez. spec. min., emessa il 5 novembre 2014 e depositata il 4 febbraio 2015; l'art. 93 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 prescrive che il diritto all'anonimato si conservi per cento anni dalla formazione del documento. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 278/2013, ha inteso rimuovere i caratteri dell'irreversibilità dell'anonimato, prevedendo un interpello della madre biologica all'interno di un procedimento caratterizzato dalla massima riservatezza. Nel caso in questione, l'evento morte della madre biologica pone un quesito sul contemperamento della tutela dell'anonimato, perlomeno entro i cento anni dalla confezione del documento di nascita, e il diritto dalla conoscenza delle origini da parte del soggetto che, qualora fossero rispettati i cento anni di attesa, verrebbe inevitabilmente a rimanere non riconosciuto.

Le soluzioni giuridiche

Il diritto a conoscere le proprie origini biologiche ed il proprio vissuto è un momento fondamentale per lo sviluppo pieno e sano della personalità e per l'identità personale dell'individuo, proprio sotto l'aspetto di un diritto all'identità biologica o genetica.

L'interesse primario dell'individuo di conoscere coloro i quali lo abbiano procreato può assumere inoltre un ruolo fondamentale anche per la sua salute, soprattutto quando si sia in presenza di patologie genetiche che impongano l'esame del DNA. Siamo quindi messi davanti alla necessità di operare una valutazione sul se la riservatezza del genitore biologico sia preminente rispetto all'interesse del soggetto a conoscere le proprie origini quando siano in gioco altri diritti fondamentali dell'individuo.

Nel caso di c.d. parto anonimo, dunque, si ritiene che, successivamente alla morte della madre, il figlio sia titolare del diritto di conoscere le proprie origini biologiche accedendo alle informazioni relative all'identità personale della stessa. Perché questo diritto sia esercitabile è necessario superare l'operatività del termine dei 100 anni dalla formazione del documento oltre il limite della vita della stessa, che pur abbia partorito in anonimo, affinché sia rilasciata la copia integrale del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica, comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre e le circostanze della nascita. Ciò oltretutto in contrasto con quanto affermato dalla Corte cost. nel 2013 in relazione al necessario affievolimento o addirittura scomparsa di quelle ragioni che l'ordinamento aveva ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre anche e soprattutto in ragione della revocabilità stessa di tale scelta.

Si può propriamente parlare di ponderazione fra diritti fondamentali con riferimento al momento della scelta della madre di partorire anonimamente perché in questo momento è in gioco il suo diritto alla vita e quello del figlio. Dopo la nascita non è più il diritto alla vita ad essere in gioco e il diritto all'anonimato diventa strumentale a proteggere la scelta compiuta dalle conseguenze sociali e, in generale, dalle conseguenze negative che verrebbero a ripercuotersi in primis sulla persona della madre. In questa prospettiva non è il diritto in sé della madre all'anonimato che viene garantito, ma la scelta che le ha consentito di portare a termine la gravidanza e partorire senza assumere le conseguenze sociali e giuridiche di tale scelta. Solo la madre pertanto in questa prospettiva può essere la persona legittimata a decidere se revocare la sua decisione di rimanere anonima in relazione al venir meno di quell'esigenza di protezione che le ha consentito la scelta tutelata dall'ordinamento.

Conclude, quindi, la Corte, di essere nelle condizioni per esercitare un sindacato circa la scelta e l'effettivo esercizio di tali mezzi di composizione del conflitto e, in particolare, sulla ricerca e la realizzazione di un equilibrio fra i concorrenti interessi e i diritti in gioco. Sostiene la Corte che, di fronte alla volontà del figlio di conoscere le proprie origini biologiche, è infondata l'affermazione per cui la morte della madre non possa essere eletta a circostanza presuntiva della volontà di rimozione del segreto post mortem. L'immobilizzazione post mortem della scelta per l'anonimato effettuata dalla madre si realizzerebbe proprio in presenza dell'affievolimento, se non della scomparsa, di quelle ragioni di protezione – risalenti alla scelta di partorire in anonimo – che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre proprio in ragione della revocabilità di tale scelta. Da ciò discenderebbe in modo inaccettabile la perdita definitiva del diritto fondamentale del figlio a conoscere le proprie origini.

La Corte quindi si determina per l'accoglimento del ricorso, affermando l'impossibilità di ritenere operativo, oltre il limite della vita della madre, il termine previsto dall'art. 93, comma 2, d.lgs. n. 196/2003 perché ciò andrebbe contro quanto previsto dalla Corte costituzionale nella citata sentenza, in quanto lesivo degli artt. 2 e 3 Cost.. La Cassazione dunque decide di abbracciare la tesi secondo cui la morte della madre possa essere ritenuta circostanza presuntiva della volontà di rimozione del segreto post mortem. Ed infatti, non vi è motivo per cui debba rimanere cristallizzata la volontà per l'anonimato nel momento stesso in cui, dopo la morte della madre, son venute ad affievolirsi se non a scomparire quelle ragioni di protezione risalenti alla scelta di partorire in anonimo, che l'ordinamento aveva ritenuto meritevoli di tutela per tutta la vita della madre, sempre sul presupposto della revocabilità di questa scelta. Oltretutto, il diritto del figlio a conoscere delle proprie origini, è di rango costituzionale, soddisfacendo quei vitali bisogni di conoscenza degli aspetti della personalità che racchiudono in sé e risolvono l'identità stessa di un individuo.

Osservazioni

In alcune legislazioni europee il diritto a conoscere le proprie origini è espressamente riconosciuto.

In Germania si qualifica come diritto fondamentale della personalità in quanto espressione del diritto generale alla dignità e al libero sviluppo della persona in seguito alla sentenza 31 gennaio 1989 del Bundesverfassungsgericht.

In Svizzera la Costituzione federale del 1992 riconosce il diritto di ciascuno a conoscere le proprie origini come un diritto della personalità e, in caso di adozione, l'art. 138 della normativa sullo stato civile prevede che la persona interessata a conoscere il contenuto dell'atto di nascita è a ciò autorizzata dall'autorità cantonale di sorveglianza.

Analogamente in Olanda la Corte Suprema, con la sentenza 15 aprile 1994 (Valkenhorst), ha riconosciuto il diritto a conoscere l'identità dei propri genitori biologici nel quadro generale dei diritti della personalità del minore.

In Spagna il Tribunale costituzionale, con la sentenza del 21 settembre 1999 ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 47 della legge sullo stato civile che offriva la possibilità di far figurare sui registri dello stato civile la filiazione da madre sconosciuta.

La Corte europea dei diritti dell'uomo, con la sentenza emessa il 25 settembre 2012 nel caso Godelli contro Italia ha dato un'interpretazione dell'art. 8 CEDU, che riconduce il diritto alla conoscenza delle proprie origini nell'ambito di applicazione della nozione di vita privata e specificamente nella sfera di protezione dell'identità personale. In questa prospettiva, la Corte europea ha affermato che l'art. 8 protegge il diritto all'identità e alla realizzazione personale e quello di intessere e sviluppare relazioni con i propri simili e il mondo esterno. A questa realizzazione della personalità concorrono la conoscenza dei dati concernenti la propria identità di essere umano e l'interesse vitale, protetto dalla convenzione, di ottenere le informazioni necessarie per apprendere la verità su un aspetto importante dell'identità personale, quale l'identità dei propri genitori. La nascita e le sue circostanze rientrano dunque nell'ambito degli elementi della vita privata del bambino e poi dell'adulto, garantiti dall'art. 8 della Convenzione che trova pertanto applicazione in questa materia.

Parallelamente, come nella precedente sentenza emessa il 13 febbraio 2002, nel caso Odièvre contro Francia, la Grande Chambre della Corte E.D.U. ha rilevato l'esistenza di un interesse in conflitto con il diritto alla conoscenza delle proprie origini e che si manifesta in situazioni di difficoltà per la madre tali da indurla a portare a termine la gravidanza e a partorire in condizioni di sicurezza, per la sua salute e quella del bambino, solo se può conservare l'anonimato e vedere tale scelta garantita dall'ordinamento anche successivamente al parto. La Corte, pur dando atto che in Europa il c.d. parto anonimo è ammesso da un numero nettamente minoritario di Stati, riconosce che gli Stati aderenti alla Convenzione possano accordare all'anonimato meritevolezza di tutela sotto due profili: i) salvaguardare la salute della donna consentendole di partorire in condizioni mediche e sanitarie appropriate, proteggendo così sia la salute della donna che quella del bambino durante la gravidanza e il parto; ii) evitare che le condizioni personali della donna la costringano ad abortire e soprattutto la inducano ad aborti clandestini e abbandoni selvaggi del bambino.

Sulla scia delle argomentazioni suesposte, a suffragio della posizione assunta dalla Corte su un tema così delicato, un caso simile ha determinato in una recente sentenza, la Suprema Corte (Cass. civ., sez. I, 9 novembre 2016, n. 22838) a concludere, dunque, per l'accoglimento del ricorso stesso così pronunciandosi sul seguente quesito di diritto: «il diritto dell'adottato – nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata ex art. 30, comma 1, d.p.r. n. 396/2000 – ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui all'art. 93, commi 2 e 3, d.lgs. n. 196/2003 salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti dei terzi dei dati personali conosciuti».

Guida all'approfondimento

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M.R. Marella, Il diritto dell'adottato a conoscere le proprie origini. Contenuti e prospettive, in Giur. It., 2001, c. 1769

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