L'inerzia dell'amministratore di sostegno assume valenza penale

Francesco Rubino
18 Maggio 2017

L'amministratore di sostegno che non deposita il rendiconto di gestione commette il reato di rifiuto di atti d'ufficio ex art. 328, comma 1, c.p..
Massima

La condotta dell'amministratore di sostegno che omette di adempiere al deposito del rendiconto finale delle sue attività integra il reato di cui all'art. 328, comma 1, c.p.. L'omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione costituisce un reato di pericolo in quanto incide su beni di valore primario tutelati dall'ordinamento, nella specie da compiere per ragioni di giustizia e senza ritardo, indipendentemente dallo specifico atto e dal nocumento che possa derivarne.

Il caso

L'amministratore di sostegno è stato condannato in primo grado in quanto riconosciuto responsabile del reato di cui all'art. 328, comma 1, c.p. per avere indebitamente rifiutato un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia, doveva essere compiuto senza ritardo, ossia per aver omesso di depositare il rendiconto di gestione dell'amministrazione di sostegno nonostante le ripetute richieste da parte del giudice tutelare, l'ultima delle quali – anch'essa rimasta inevasa – ingiungeva all'amministratore di sostegno il deposito del rendiconto entro 45 giorni dalla sua notifica, effettuata a mani dello stesso amministratore.

La Corte d'Appello ha confermato il giudizio di colpevolezza pronunciato dal Giudice di prime cure condividendone sia la ricostruzione del fatto sia le conclusioni, ossia ritenendo il delitto di rifiuto d'atti d'ufficio un reato di pericolo presunto che si perfeziona con il verificarsi della mera omissione del provvedimento richiesto.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per Cassazione il difensore dell'imputato deducendo – con il primo motivo – vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 328, comma 1 e 43, c.p. e, in particolare, rilevando che (i) il reato di cui all'art. 328 c.p. non può interpretarsi come reato di pericolo presunto, ma richiede un accertamento in concreto delle conseguenze dannose del comportamento omissivo, conseguenze che il comportamento dell'imputato non avrebbe provocato; (ii) nel caso di specie, difetta l'urgenza sostanziale impositiva del compimento dell'atto, quindi la valutazione circa la pretesa indifferibilità dell'azione e le conseguenze della stessa; (iii) la sentenza di secondo grado è del tutto priva di motivazione sia in relazione al tipo di apprezzamento che l'imputato avrebbe potuto e dovuto esperire sulla base delle sue competenze e conoscenze, sia con riferimento all'elemento psicologico del reato. Con il secondo motivo il predetto difensore ha denunciato vizio di violazione di legge per la mancata qualificazione del fatto come omissione prevista dall'art. 328, comma 2, c.p., essendosi risolta la condotta dell'imputato in una forma di inerzia, a fronte della richiesta del giudice tutelare, sostenendo sul punto che il discrimen tra l'ipotesi di cui al comma 1 e quella di cui al comma 2 non è ravvisabile nella natura dell'interesse (pubblicistico o privato) tutelato, trattandosi di reato avente natura plurioffensiva.

La questione

La questione in esame è se integra il reato di rifiuto d'atti d'ufficio l'amministratore di sostegno che, nonostante i ripetuti solleciti da parte del giudice tutelare, si limiti a non depositare il rendiconto di gestione senza avanzare un espresso rifiuto.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile «per mancanza di specificità e manifesta infondatezza dei motivi di ricorso», richiamando un pacifico insegnamento giurisprudenziale secondo cui «la condotta tipizzata nella fattispecie normativa di cui all'art. 328, comma 1, c.p. costituisce un reato di pericolo che si perfeziona con la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione, in quanto incidente su beni di valore primario tutelati dall'ordinamento, nella specie da compiere per ragioni di giustizia e senza ritardo, indipendentemente dallo specifico atto e dal nocumento che possa derivarne» (ex multis Cass. pen., sez. VI, 04 luglio 2006, n. 34066).

I Giudici di legittimità, infatti, hanno pienamente condiviso la tesi sostenuta dalla Corte di merito, la quale ha ritenuto sussumibile il fatto contestato all'imputato nello schema descrittivo tipizzato nella fattispecie incriminatrice di cui all'art. 328, comma 1, c.p. ponendo in risalto il carattere indebito del rifiuto, in quanto non giustificato dalla pertinente normativa civilistica che disciplina i doveri facenti capo all'amministratore di sostegno, né da alcuna riconoscibile situazione di impossibilità nell'adempimento dell'incarico attribuito al ricorrente.

Correttamente, dunque, i Giudici di merito hanno posto in rilievo come l'imputato avesse ricevuto ripetuti solleciti da parte del giudice tutelare a depositare il rendiconto di gestione, da ultimo con la «notifica, a mani dell'imputato, di un provvedimento che gliene ingiungeva il deposito entro il termine di 45 giorni, invito anche questo andato deserto e che, per la sua chiarezza, con riguardo alla redazione di un analitico inventario del patrimonio e quindi del rendiconto di gestione, non era suscettibile di fraintendimento».

Il provvedimento del giudice tutelare, intervenuto nell'ambito di una procedura disciplinata dalle disposizioni del codice civile (artt. 404 ss. c.c.) che regolano l'attività dell'amministratore di sostegno ponendo a suo carico specifici obblighi, è pertanto – secondo la Suprema Corte – pienamente idoneo ad integrare «un ordine che solleciti un comportamento certo e determinato per ragioni di giustizia, non potendosi pertanto ravvisare nella condotta dell'imputato, una mera inerzia».

Da ultimo, quanto all'elemento soggettivo, la Corte di Cassazione ha ritenuto necessario e sufficiente il dolo generico, inteso quale consapevolezza da parte del pubblico ufficiale «del proprio contegno omissivo», dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il mancato adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere giuridico di azione.

Osservazioni

La Suprema Corte ha ritenuto il caso a mani sussumibile nella fattispecie di reato di cui all'art. 328, comma 1, c.p., sottolineando il carattere indebito del rifiuto da parte dell'amministratore di sostegno di compiere un atto del suo ufficio, ossia quello di «tenere regolare contabilità della sua amministrazione e renderne conto ogni anno al giudice tutelare», come previsto dall'art. 380 c.c., espressamente richiamato dall'art. 411 c.c., disposizione che individua le «Norme applicabili all'amministrazione di sostegno».

Al fine di individuare con chiarezza le ragioni del giudizio di colpevolezza elaborato dalla Corte di Cassazione nei confronti dell'amministratore di sostegno, occorre fare due premesse: la prima attiene al fatto che – secondo la normativa civilistica vigente, la quale richiama espressamente le norme relative alla responsabilità tutoria – sul medesimo gravano obblighi specifici sin dal momento della sua nomina, nell'adempimento dei quali egli è tenuto ad usare la «diligenza del buon padre di famiglia» ex art. 382, comma 1, c.c., ovvero la diligenza e la cura tipiche dell'”uomo medio”.

Secondariamente è bene sottolineare che la giurisprudenza di legittimità è unanime nell'attribuire all'amministratore di sostegno la qualifica di pubblico ufficiale (cfr. ex multis Cass. pen., n. 50754/2014) in ragione della disciplina civilistica applicabile al medesimo, che ne regola l'attività negli stessi termini del tutore (artt. 404 ss. c.c.).

In particolare, depongono a favore della qualità di pubblico ufficiale i seguenti elementi: a) la prestazione del giuramento prima dell'assunzione dell'incarico (art. 349 c.c.); b) il regime delle incapacità e delle dispense (artt. 350-353 c.c.); c) la disciplina delle autorizzazioni, le categorie degli atti vietati, il rendiconto annuale al giudice tutelare sulla contabilità dell'amministrazione (artt. 374-388 c.c.); d) l'applicazione, nei limiti di compatibilità, delle norme limitative in punto di capacità a ricevere per testamento (artt. 596 e 599 c.c.) e capacità di ricevere per donazioni (art. 779 c.c.).

Nel caso in esame, la natura pubblicistica della funzione svolta dall'amministratore di sostegno è posta in rilievo dall'obbligo di redazione dei rendiconti periodici al giudice tutelare e dal riconoscimento in capo al medesimo della relativa potestà certificativa nonché dalla previsione del potere di nomina (art. 405, comma 1, c.c.) e di controllo esercitato da un organo pubblico – appunto il giudice tutelare – sull'operato del primo.

Il fatto che l'amministratore di sostegno possa essere considerato come un pubblico ufficiale, comporta che l'inadempimento dei suoi specifici doveri possa ben sfociare in una responsabilità non solo civile, ma anche penale in quanto la sussistenza in capo al soggetto agente di tale qualifica lo rende soggetto destinatario di prescrizioni di carattere penale, tra le quali certamente rientra il rifiuto di atti d'ufficio di cui all'art. 328 c.p..

Sebbene, infatti, la figura dell'amministratore di sostegno sia nata nell'alveo del diritto civile con la nota l. n. 6/2004, non mancano con riferimento alla stessa profili di contatto con altre branche giuridiche, tra le quali, appunto, quella penale.

In sintesi, sul piano civilistico, qualora l'amministratore di sostegno non adempia correttamente ai suoi obblighi potrà essere condannato a risarcire i danni derivanti al beneficiario dalla sua condotta non conforme ai dettami di legge a titolo di responsabilità contrattuale ex art. 382 c.c. considerato che tra l'amministratore e il beneficiario intercorre un rapporto obbligatorio derivante dal decreto istitutivo. Di conseguenza, qualora il medesimo voglia andare esente da responsabilità, incombe su di lui la prova che l'inadempimento degli obblighi che discendono dalla sua funzione non sia a lui imputabile.

Diversamente, nel caso in cui si verifichi in concreto quanto astrattamente previsto da una norma penale e venga a configurarsi un reato è necessario che vi sia una violazione a livello sostanziale della disposizione penale, attraverso la perpetrazione della condotta incriminata. Nella fattispecie in commento ciò è accaduto con riferimento al mancato compimento di un atto d'ufficio da parte dell'amministratore di sostegno malgrado l'espressa richiesta da parte dell'autorità giurisdizionale, inadempimento che ha inevitabilmente posto in pericolo gli interessi patrimoniali e personali del beneficiario.

Ciò detto, nel caso di specie, la Suprema Corte ha classificato il delitto de quo quale reato di pericolo presunto, ravvisandone la sussistenza dei presupposti di reato sul piano oggettivo nell'inottemperanza degli intervenuti richiami da parte del giudice tutelare con riferimento al deposito del conto di gestione – da ultimo, come detto, con la notifica, a mani dello stesso imputato, di un provvedimento che gliene ingiungeva il deposito entro 45 giorni – i quali sono pienamente idonei ad integrare un ordine che solleciti un comportamento certo e determinato “per ragioni di giustizia”, impedendo di valutare la condotta tenuta dall'amministratore quale mera inerzia, rilevante nell'ipotesi di cui al comma 2; sul piano soggettivo, ai fini del dolo, nella consapevolezza da parte dell'amministratore, in qualità di pubblico ufficiale, del proprio contegno omissivo.

Secondo la Corte di Cassazione, dunque, nel caso a mani ciò che rileva è semplicemente l'offesa in senso giuridico – e non naturalistico – del bene tutelato dall'ordinamento.

La pronuncia in commento è di assoluta novità in quanto per la prima volta la giurisprudenza di legittimità qualifica la condotta omissiva tenuta dall'amministratore di sostegno rispetto alla gestione patrimoniale svolta in favore del beneficiario quale “rifiuto d'atti d'ufficio”, superando il concetto di mera inattività.

Ciò in quanto l'accento viene posto dalla Suprema Corte sul diniego – peraltro del tutto immotivato – indirettamente espresso dal pubblico ufficiale tramite il “proprio contegno omissivo” rispetto al sollecito avanzato dal giudice tutelare. La persistenza nell'inazione da parte dell'agente, dunque, – a giudizio della Corte di Cassazione – non ha costituito una semplice mancata risposta, bensì un vero e proprio rifiuto rilevante ai sensi dell'art. 328, comma 1, c.p. in quanto tra i suoi presupposti figurano la ricezione di una richiesta specifica e l'urgenza di tutelare determinati interessi in pericolo.

Le conclusioni nella specie tratte dalla Corte con riferimento allo specifico obbligo del rendiconto annuale, appaiono pacificamente estendibili all'inadempimento di tutti gli altri obblighi previsti dal codice civile (artt. 410 ss. c.c.) in capo all'amministratore di sostegno – quali ad esempio la redazione dell'inventario dei beni quando il giudice lo richiede oltre che annualmente; l'informazione tempestiva del beneficiario circa gli atti da compiere, nonché del giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso; la richiesta, in via preventiva delle autorizzazioni al giudice tutelare per gli atti di straordinaria amministrazione e per quelli previsti nel decreto di nomina; il rendiconto periodico dell'attività svolta e delle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario – nonché all'inosservanza della serie di prescrizioni al medesimo imposte da parte del giudice tutelare ad esempio con riferimento ai limiti di spesa stabiliti nel decreto di nomina (art. 411 c.c.).

Il giudice tutelare, infatti, – avuto riguardo all'interesse del beneficiario – può disporre nel decreto con il quale nomina l'amministratore di sostegno o in un decreto successivo – motivato – che determinati «effetti, limitazioni o decadenze, previsti da disposizioni di legge per l'interdetto o l'inabilitato, si estendano al beneficiario dell'amministrazione di sostegno» (art. 411 c.c.).

Gli obblighi e le prescrizioni sopra richiamati contribuiscono al perseguimento di determinate finalità, in ossequio alla ratio stessa sottesa all'impianto normativo civilistico di riferimento, ossia la prestazione di un servizio di utilità collettiva, essenziale per la salvaguardia degli interessi di soggetti privi, in tutto o in parte, di autonomia attraverso la minor limitazione possibile della loro capacità di agire (cfr. Cass. Civ., sez. I, n. 4866/2010).

La violazione di tali precetti assume – sostiene la Suprema Corte – rilevanza penale a prescindere dalla valutazione delle conseguenze dannose verificatesi in concreto.

Diversamente, la difesa ricorrente, nel richiedere la verifica degli effetti dannosi derivanti dalla condotta tenuta dall'amministratore di sostegno ai fini dell'accertamento del reato, pare aver fatto confusione tra la fattispecie prevista nel comma 1 e quella indicata al comma 2 della norma in esame.

Sul punto non può non rilevarsi come la condotta illecita, sia nel comma 1 che nel comma 2 dell'art. 328, presenti la medesima struttura, consistente nel fatto di rifiutare il compimento di un atto d'ufficio, nonostante generalmente sembri invece che di un vero e proprio rifiuto possa parlarsi solo nel caso di cui al comma 1, mentre in quello di cui al comma 2 parrebbe più consono parlare di omissione o ritardo nel compimento dell'atto, come evidenziato dalla stessa rubrica dell'articolo, la quale indica distintamente “rifiuto” ed “omissione”.

Tale distinzione si rinviene anche nel testo della norma, la quale solo al comma 1 parla espressamente di “rifiuto”, mentre al comma 2 parla di “non compimento” dell'atto, e di suo “ritardo”.

Da ciò è derivato, in passato, l'equivoco di considerare l'ipotesi di cui al comma 1 quale reato commissivo di pericolo e quella di cui al comma 2 quale reato omissivo di danno.

In realtà, il fatto che anche la fattispecie di cui al comma 2 ruoti intorno ad un rifiuto, lo si evince agevolmente se si attenziona la circostanza che rifiutarsi di fare una cosa significa semplicemente non fare ciò che si è richiesti di fare, essendo consapevoli della richiesta ricevuta: tutti elementi pacificamente presenti nella struttura dell'ipotesi delittuosa di cui al comma 2.

La condotta illecita è infatti, in entrambi i casi, omissiva e sostanzialmente consiste in un comportamento negativo: il mancato compimento di un atto dovuto.

Sul piano puramente formale, dunque, la differenza tra le due fattispecie di cui all'art. 328 è ravvisabile semplicemente nel fatto che il concetto di “rifiuto di un atto” è unico ed è indicato al comma 1 in forma sintetica (“rifiuta“), mentre al comma 2 è espresso in forma analitica (“non compie l'atto” dopo la richiesta).

Unico vero discrimen effettivamente tracciabile tra le due ipotesi di reato analizzate sussiste dal punto di vista sostanziale ed è declinabile in quattro distinti profili: (i) le ragioni dell'atto dovuto, (ii) il momento a decorrere dal quale l'atto non potrebbe più dirsi tempestivamente compiuto, (iii) la forma della richiesta, (iv) la rilevanza di un'eventuale risposta da parte del pubblico agente.

In particolare, (i) il delitto di cui al comma 1 si caratterizza per il rifiuto di compiere un atto che deve essere posto in essere senza ritardo “per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità”; quello di cui al comma 2 consiste invece nel rifiuto di compiere un atto “fuori dai casi previsti dal primo comma” e, comunque, senza che vi siano ragioni di urgenza quanto alla sua realizzazione.

(ii) Diverso è, inoltre, il momento entro il quale l'atto deve essere compiuto, e superato il quale, pertanto, il compimento dello stesso diventa tardivo e la relativa condotta omissiva assume rilevanza penale. Nel caso di cui al comma 1 è punito il rifiuto di compiere un atto che, per le ragioni sopra indicate, deve essere realizzato senza ritardo: si tratta di un termine elastico, ed il momento a partire dal quale il mancato compimento dell'atto diviene penalmente rilevante deve essere valutato in concreto caso per caso; nell'ipotesi di cui al comma 2, invece, il termine finale è indicato in modo rigido: il rifiuto, infatti, assume rilevanza penale solo laddove si traduca nel mancato compimento dell'atto dovuto entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della richiesta.

(iii) Ulteriore profilo di diversità è poi la forma che deve assumere la richiesta dell'atto da parte dell'interessato: solo nel caso di cui al comma 2 è espressamente previsto che la richiesta sia “redatta in forma scritta”; nel caso di cui al comma 1, invece, anche per la natura urgente dell'atto richiesto e per l'impellenza delle ragioni che lo rendono dovuto, non è necessario che la richiesta sia fatta per iscritto. Inoltre, mentre in quest'ultimo caso non rileva chi avanzi la richiesta, potendo la stessa essere utilmente presentata da chiunque, nell'altro caso occorre invece che la richiesta provenga da un soggetto che abbia legittimazione a farlo.

(iv) Infine, diversa è la rilevanza dell'eventuale “esposizione delle ragioni del ritardo” da parte del pubblico ufficiale. In linea di principio, nel caso di cui al comma 1 è irrilevante che il pubblico ufficiale fornisca al richiedente una spiegazione della propria inattività. Al contrario, nell'ipotesi prevista dal comma 2 la responsabilità penale del pubblico ufficiale è espressamente condizionata al fatto che questi, entro il termine di trenta giorni dalla ricezione della richiesta, non risponda “per esporre le ragioni del ritardo”.

Per concludere su questo punto, dunque, mentre la fattispecie di cui al comma 1 è animata dall'urgenza di fronteggiare una situazione di pericolo a carico di determinati interessi – ed a questo inevitabilmente si informa la ricostruzione di tutti i suoi elementi tipici – la fattispecie di cui al comma 2 è invece strutturata in termini spiccatamente procedimentali ed infatti è imperniata sulla successione della serie di passaggi (prestabiliti) sopra puntualmente descritti.

Alla luce delle considerazioni svolte, risulta, pertanto, difficile pervenire ad una conclusione diversa da quella sostenuta dalla Suprema Corte in quanto il caso di specie pare chiaramente inquadrabile nell'ambito delineato dal comma 1 dell'art. 328 c.p.

Ciò innanzitutto perché oggetto del rifiuto contestato all'amministratore di sostegno è evidentemente un atto che egli ha il dovere “per ragioni di giustizia” di compiere tempestivamente quale risultato concreto dell'esercizio dei poteri riconosciutigli da un'autorità giurisdizionale, il giudice tutelare, in sede di nomina al fine di perseguire determinate finalità, ossia – come detto – la prestazione di un servizio di utilità collettiva, essenziale per la salvaguardia degli interessi di soggetti privi, in tutto o in parte, di autonomia (cfr. Cass. civ., sez. I, n. 4866/2010).

Sul punto, la Suprema Corte ha precisato che «per atto di ufficio che per ragione di giustizia deve essere compiuto senza ritardo [al pari di quanto previsto dall'art. 650 c.p.] si intende qualunque ordine o provvedimento autorizzato da una norma giuridica per la tempestiva attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile o più agevole l'attività del giudice, del pubblico ministero o degli ufficiali di polizia giudiziaria. La ragione di giustizia si esaurisce con l'emanazione del provvedimento di uno degli organi citati, non estendendosi agli atti che altri soggetti sono tenuti eventualmente ad adottare in esecuzione del provvedimento dato per ragione di giustizia» (Cass. pen., Sez. VI, 25 gennaio 2010, n. 14599).

L'ipotesi criminosa di cui al primo comma, dunque, si riferisce al rifiuto di atti d'ufficio “qualificati”, ossia emessi per il raggiungimento di obiettivi specifici che, nel caso di specie, si concretano in ragioni relative all'esercizio dell'attività giurisdizionale del giudice tutelare.

Da ultimo, quanto al profilo dell'elemento soggettivo, l'inerzia che rileva in tal senso deve consistere in un'inerzia consapevole. È dunque necessario e sufficiente che l'agente pubblico si astenga dal compiere l'atto dovuto con piena coscienza e volontà.

Nell'omettere di depositare al giudice tutelare il rendiconto di gestione l'amministratore ha scelto di non compiere un certo atto che, invece, avrebbe avuto il dovere giuridico di compiere a fronte di un'esplicita richiesta. Egli “sceglie”, ossia decide di non tenere una determinata condotta e manifesta poi tale scelta tramite il “proprio contegno omissivo”.

Non hanno, dunque, rilevanza alcuna né eventuali ulteriori finalità perseguite dal reo né le effettive conseguenze dannose procurate dalla sua inattività, trattandosi, come detto, di ipotesi di reato di pericolo presunto – non di danno – che, come tale, si consuma non nel momento dell'effettiva lesione del bene giuridico protetto, ma nel momento della sua esposizione al pericolo, in ossequio alla natura preventiva della sua stessa ratio.

La sentenza in commento, dunque, si evidenzia per essere una delle prime pronunce con cui la Suprema Corte ha valutato la volontaria persistenza dell'agente nel mantenersi inerte a fronte dei ripetuti solleciti diretti nei suoi confronti da parte dell'autorità giurisdizionale – il giudice tutelare, al cui controllo lo stesso è sottoposto – in termini di rifiuto di un atto d'ufficio anziché di mera inattività rilevante semplicemente quale fattispecie più lieve ex art. 328, comma 2, c.p.

L'operazione ermeneutica eseguita dalla Corte di Cassazione è di estrema novità in quanto pone in rilievo i caratteri dell'indifferibilità e della doverosità propri dell'attività gestionale svolta dall'amministratore di sostegno in favore del beneficiario, caratteri che sono indefettibili e come tali impassibili di rimanere ingiustificatamente inadempiuti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.