Giudizio di paternità: sì alla prova del DNA in fase cautelare

Luca Dell'Osta
20 Marzo 2017

Il Tribunale di Milano è chiamato ad esprimersi su tre questioni: la disciplina della convivenza, la condizione del nascituro e, infine, la possibilità di concedere una cautela inaudita altera parte al fine di ricavare un profilo genetico dal materiale biologico del presunto padre, conservato presso un'azienda sanitaria, da utilizzarsi nella futura azione di merito.
Massima

É ammissibile l'azione cautelare, promossa dalla madre del nascituro, concepito fuori dal matrimonio, dopo la morte del padre, per accedere al materiale biologico del medesimo, al fine di conservare elementi di prova da spendere nel futuro giudizio di paternità, da instaurare ex art. 269 c.c.; l'azione può in particolare essere promossa qualora, come nel caso di specie, il corpo del presunto padre non possa essere oggetto di esumazione, attesa l'intervenuta cremazione.

Il caso

A e B instauravano una relazione affettiva e procedevano a rendere una apposita dichiarazione anagrafica presso il comune di residenza, decidendo di non contrarre matrimonio ma di limitarsi a convivere. Durante tale relazione nascevano due minori. In seguito, nel novembre 2015, A decedeva e, come da disposizioni, il suo corpo veniva cremato. Poche settimane dopo, B veniva a conoscenza di essere incinta. Dal momento che B aveva anche appreso che presso la ASL, dove il convivente era stato ricoverato prima del decesso, era conservato del materiale biologico, per quantità e qualità idoneo ad un accertamento del DNA, richiedeva al Tribunale di Milano la nomina di un consulente d'ufficio per gli opportuni accertamenti emato-genetici, anche al fine di preservare la prova per un instaurando giudizio in cui accertare la paternità di A rispetto al neonato. Nel proprio ricorso, B evidenziava l'urgenza della richiesta: difatti i campioni di sangue, ancorché crioconservati, erano suscettibili di progressivo deterioramento e il trascorrere del tempo ne avrebbe potuto impedire l'utilizzo al fine dell'accertamento del DNA.

La questione

Il Tribunale di Milano, con l'ordinanza in commento, è chiamato ad esprimersi su tre questioni. La prima riguarda la disciplina della convivenza, anche alla luce delle recenti innovazioni introdotte dalla l. n. 76/2016. La seconda concerne la condizione del nascituro. La terza, infine, riguarda la possibilità di concedere una cautela inaudita altera parte al fine di ricavare un profilo genetico dal materiale biologico del presunto padre, conservato presso un'azienda sanitaria, da utilizzarsi nella futura azione di merito.

Le soluzioni giuridiche

Per ciò che concerne la convivenza di fatto tra A e B, il giudice milanese la ritiene provata sulla base di alcune circostanze di fatto, tra le quali la nascita di due figli (sintomatica «di un habitat familiare formatosi al di fuori di un vincolo matrimoniale»), la presenza di un certificato anagrafico e la coabitazione tra A e B al momento del decesso di A.

Preso atto di tale circostanza, il Tribunale sposta la propria attenzione sul concepimento, ritenendolo certamente anteriore rispetto alla morte di A; tale circostanza induce a ritenere assai probabile che proprio A sia l'effettivo padre del concepito. E dal momento che B ha espresso la volontà, una volta venuto alla luce quest'ultimo, di agire al fine di accertare giudizialmente la paternità di A, si rende necessario perimetrare la tutela da riconoscere al soggetto concepito ma non ancora nato.

Al momento attuale, infatti, in quanto non ancora persona fisica, il concepito non può essere titolare dell'interesse richiesto per promuovere l'azione di cui all'art. 269 c.c.; solamente con l'evento della nascita il soggetto acquista piena soggettività giuridica e, seppur con la rappresentanza della madre, potrebbe procedere al fine di ottenere una dichiarazione giudiziale di paternità. Tuttavia, nel caso di specie vi sono due circostanze che debbono essere tenute in considerazione: la prima è che A è stato cremato (e quindi non può, in ogni caso, procedere all'esumazione della salma per effettuare le più idonee indagini) e la seconda è che presso la ASL dove era stato ricoverato A prima della sua morte sono conservate due provette di sangue idonee all'esecuzione di indagini genetiche, ma nel solo caso in cui si agisca con sollecitudine onde evitare di incorrere in alterazioni che possano renderle non più fruibili. È qui che il giudice di Milano sposa l'indirizzo giurisprudenziale – espresso dalla Corte di cassazione anche a Sezioni Unite (Cass. civ., S.U., 22 dicembre 2015, n. 25767) – per il quale è possibile riconoscere forme di protezione al nascituro, considerandolo oggetto di tutele, pur senza postularne la soggettività giuridica (soggettività che si acquista, come noto, al momento della nascita): nel caso di specie si ritiene che la tutela del concepito possa e debba concretizzarsi con un'analisi immediata del campione ematologico di A conservato presso la ASL, in modo che nel successivo giudizio di paternità possa essere utilizzata una prova certa e principe (ossia l'esame ematologico) invece che una dimostrazione probatoria indiretta e condizionata dalle variabili del processo, quale potrebbe essere quella basata sulla convivenza tra A e B (comunque da sola non idonea, ai sensi dell'art. 269, comma 4, c.c., a dimostrare la paternità di A). Attendere la nascita del concepito significherebbe compromettere il materiale biologico di A conservato presso la ASL, che non sarebbe più fruibile per analisi ematiche e genetiche. E, si legge ancora nel provvedimento, la necessità di anticipare la tutela va ricercata nella necessità di garantire il diritto costituzionale alla conservazione dei legami familiari e all'identità personale del concepito.

È a questo punto che il giudicante affronta analiticamente l'ultima questione significativa che viene in rilievo nella vicenda di cui ci si occupa, ossia quella relativa al procedimento cautelare. Il ricorso introduttivo – con il quale B richiedeva al Tribunale di Milano la nomina di un consulente d'ufficio per gli opportuni accertamenti emato-genetici, anche al fine di preservare la prova per un instaurando giudizio in cui accertare la paternità di A rispetto al neonato – viene qualificato come istanza ex art. 700 c.p.c., sulla base di due elementi:

- il nesso tra quanto richiesto e l'interesse da far valere nel successivo giudizio;

- il contenuto (atipico) della richiesta, che esula dal mero accertamento tecnico.

E, alla luce del disposto di cui all'art. 276 c.c., il contraddittorio deve essere instaurato, fin dalla fase cautelare, con gli eredi di A. Tuttavia, essendo questi i due figli di A e B, rappresentati dalla madre B, si profila un conflitto di interessi, che può essere sciolto solo nominando d'ufficio un curatore speciale. Contraddittore necessario sarà anche la ASL in possesso delle provette di sangue.

Osservazioni

Seppur indirettamente, il Tribunale di Milano si sofferma su uno dei punti controversi che hanno impegnato i primi commentatori a seguito dell'approvazione della l. n. 76/2016 in tema di convivenze di fatto, ossia la valenza della dichiarazione anagrafica ex art. 13, comma 1, lett. b d.P.R. n. 223/1989 (c.d. regolamento anagrafico).

La questione è nota: dal testo della nuova legge non è precisato se la dichiarazione anagrafica abbia o meno efficacia costitutiva.

Il giudice dell'ordinanza sposa, correttamente, la tesi negativa, ritenendo la citata dichiarazione uno «strumento privilegiato di prova e non anche [un] elemento costitutivo» della convivenza di fatto. Non è infatti sostenibile che si sia in presenza di una convivenza solamente qualora le parti provvedano a effettuare la dichiarazione di cui all'art. 13, comma 1, lett. b, d.P.R. n. 223/1989: l'adesione a tale impostazione rappresenterebbe un arretramento rispetto alla giurisprudenza di merito e di legittimità che, ormai da molti anni, valorizza altri elementi (ben più pregnanti e sostanziali di una mera dichiarazione) e che anzi, più volte, non ha ritenuto sufficiente la dichiarazione anagrafica al fine della dimostrazione della convivenza di fatto.

Per ciò che concerne, più specificamente, l'azione di paternità, va letta con uguale favore la scelta del giudice di preferire la prova del DNA. Se è vero che l'art. 269 c.c. ammette il ricorso a elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della paternità (Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1279), va però ricordato che la Corte di Cassazione è più volte intervenuta chiarendo che la consulenza tecnica immunoematologica ha funzione di mezzo obiettivo di prova dal momento che costituisce lo strumento più idoneo, avente margini di sicurezza elevatissimi, per l'acquisizione della conoscenza del rapporto di filiazione naturale (Cass. civ., sez. I, 29 maggio 2008, n. 14462; più recentemente Cass. civ., sez. I, 25 marzo 2015, n. 6025, per la quale l'efficacia delle indagini ematologiche ed immunogenetiche sul DNA non può essere esclusa per la ragione che esse sono suscettibili di utilizzazione solo per compiere valutazioni meramente probabilistiche: infatti, tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche hanno questa natura anche se espresse in termini di “leggi”, e tutte le misurazioni, anche quelle condotte con gli strumenti più sofisticati, sono ineluttabilmente soggette ad errore, sia per ragioni intrinseche (cd. errore statistico), sia per ragioni legate al soggetto che esegue o legge le misurazioni (cd. errore sistematico), spettando al giudice di merito, nell'esercizio del suo potere discrezionale, la valutazione dell'opportunità di disporre indagini suppletive o integrative di quelle già espletate, di sentire a chiarimenti il consulente tecnico di ufficio ovvero di disporre la rinnovazione delle indagini). Addirittura il rifiuto di sottoporsi a tale sistema (che presenta «margini di sicurezza elevatissimi») è un comportamento valutabile, ai sensi dell'art. 116 comma 2 c.p.c., e di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda (Cass. civ., sez. I, 25 marzo 2015, n. 6025).

Conclusivamente, la scelta del giudice milanese appare fondata e condivisibile: nell'ambito dell'azione per il riconoscimento giudiziale della paternità l'analisi del DNA appare come la scelta da privilegiarsi per la sostanziale certezza dei risultati che garantisce; nel caso concreto, l'unica modalità per garantire tale mezzo di prova è quello di disporre, nell'ambito del procedimento cautelare, l'analisi della sostanza ematica conservata presso la ASL, prima che quest'ultima si deteriori e diventi inutilizzabile.

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