«Tra moglie e marito non mettere il dito»? Il sindacato del giudice sugli accordi conclusi dai coniugi nel corso del processo di divorzio

22 Marzo 2017

La questione affrontata dalla Corte di Cassazione riguarda i rapporti tra l'autonomia negoziale dei coniugi nella stipulazione di accordi separativi o divorzili (in corso di processo) e il potere del giudice di discostarsi dai medesimi, mediante statuizioni integrative o modificative, ritenute necessarie per garantire l'equità dei patti medesimi.
Massima

Durante il procedimento di divorzio i coniugi possono pervenire ad accordi compositivi della lite, in particolare anche prevedendo il trasferimento di diritti reali su immobili a titolo di assegno divorzile c.d. una tantum. All'esito dei patti raggiunti, i coniugi possono formulare conclusioni congiunte al fine di provocare una decisione conforme dell'organo giudicante. Il giudice di merito è in linea di principio tenuto a deliberare gli accordi delle parti ma mantiene il potere anche di modificarli o integrarli se ritenuti non equi.

Il caso

Al termine di un giudizio divorzile, il Tribunale di Frosinone pone a carico dell'ex marito un assegno di divorzio in favore della ex moglie quantificato in euro 1.000; in capo al medesimo, viene altresì posto il mantenimento indiretto dei due figli, mediante corresponsione di un importo mensile di euro 1.500. L'onerato interpone appello avverso la decisione: davanti alla Corte d'appello di Roma, i coniugi raggiungono un accordo. In virtù del patto, il padre si impegna a versare ai figli la somma di euro 750 mensili ciascuno oltre il 50% delle spese straordinarie; gli ex coniugi stabiliscono anche un assegno divorzile una tantum in favore della ex moglie, mediante il trasferimento di determinati diritti reali su immobili. La Corte d'appello recepisce l'accordo ma conferma l'assegno divorzile mensile fissato in favore della ex moglie sino al perfezionamento dei trasferimenti immobiliari. Avverso la decisione del giudice di appello, l'ex marito propone ricorso per Cassazione dolendosi del fatto che il giudice del gravame abbia statuito oltre il patto delle parti, senza offrire motivazione sul punto. La Suprema Corte respinge il ricorso.

La questione

La questione affrontata dalla Corte di Cassazione riguarda i rapporti tra l'autonomia negoziale dei coniugi nella stipulazione di accordi separativi o divorzili (in corso di processo) e il potere del giudice di discostarsi dai medesimi, mediante statuizioni integrative o modificative, ritenute necessarie per garantire l'equità dei patti medesimi.

Le soluzioni giuridiche

Inquadramento. In linea di principio, durante la pendenza del procedimento di separazione o divorzio, i coniugi possono pervenire ad accordi che abbiano ad oggetto le situazioni giuridiche soggettive controverse oppure aspetti del procedimento. In tale ultimo caso, i coniugi danno luogo a negozi c.d. processuali o, come definiti dalla manualistica classica, negozi di diritto processuale. In queste fattispecie, l'autonomia privata consente alle parti di negoziare aspetti del processo (nei limiti in cui la legge ne consente la disponibilità) e i litiganti (contraenti) generano accordi «sul processo». In buona sostanza, il negozio processuale costituisce una dichiarazione di volontà che ha per contenuto il regolamento convenzionale di profili del procedimento o dell'intero processo (autorevolmente si include in questa categoria anche il pactum de non petendo o il pactum de foro prorogando). Gli studiosi non esitano a collocare in questa categoria finanche la clausola compromissoria (negozio sostanziale con effetti processuali) e ritengono che i negozi de quibus non abbiano un carattere diverso da qualsiasi altro negozio giuridico, per il sol fatto di avere ad oggetto rapporti giuridici processuali. Ricollegano, insomma, la facoltà delle parti di stipularli, alla generale clausola di autonomia privata (art. 1322 c.c. per i contratti). La categoria dei negozi processuali è pacificamente ammessa dalla giurisprudenza (si veda Cass. civ., S.U., 16 marzo 2006 n. 16993 che qualifica il ricorso per saltum come negozio processuale; Cass. civ., sez. III, sent. 12 novembre 2010, n. 22956). Nella materia dei procedimenti di famiglia, sussistono diversi esempi di negozi processuali ad hoc: basti pensare all'accordo con cui i coniugi scelgono la legge applicabile al loro procedimento giurisdizionale (art. 5, lett. c, Reg. UE n. 1259/2010); un patto processuale è anche quello con cui i coniugi si accordano nel senso di non eccepire la intervenuta riconciliazione (che non è rilevabile ex officio dal giudice). Il negozio processuale può spingersi sino a determinare in modo convenzionale l'esito della lite. In questi casi, le parti si avvalgono in modo pieno del c.d. principio dispositivo (iudex iuxta alligata et provata iudicare debet) nel senso di determinare, in modo vincolante per il giudice, l'ambito dell'oggetto del processo. Ciò accade là dove i litiganti presentino delle conclusioni “congiunte” al giudice, quanto a dire un ventaglio di domande giudiziali uguali. Secondo l'insegnamento classico, la precisazione “congiunta” delle conclusioni determina un vincolo per il giudice: ai sensi dell'art. 112 c.p.c., il Tribunale deve pronunciare su tutta la domanda ma «non oltre i limiti di essa» (Trib. Milano, sez. IX, 6 novembre 2013). Per l'effetto, al cospetto di una presentazione delle conclusioni condivise dalle parti, il giudice – in linea di principio – è tenuto a non discostarsi dalle stesse. Il negozio processuale che vincola la decisione del giudice ha, in genere, effetti diretti sul diritto controverso: si afferma, infatti, che l'accordo processuale sull'esito della lite corrisponde, in genere, ad un patto anche sostanziale che incide sull'oggetto stesso del procedimento. Una così ampia facoltà delle parti si giustifica là dove il titolare goda della disponibilità del diritto sostanziale; tuttavia, in alcuni casi, il diritto controverso non è nella piena disponibilità dei litiganti. L'Ordinamento stesso, peraltro, ammette che la tutela giurisdizionale dei diritti possa essere prestata «quando la legge lo dispone, anche (…) d'ufficio» (art. 2907 c.c.). Ecco perché, come noto, il principio di cui all'art. 112 c.p.c. non trova applicazione al cospetto di diritti non pienamente disponibili, ove l'interesse pubblico primario coinvolto impone al giudice di surrogarsi alle stesse parti se le situazioni giuridiche soggettive controverse rischiano di essere vulnerate dalla volontà (anche comune) dei litiganti. Un caso emblematico è quello del procedimento minorile. La Cassazione, in tal senso, sin da data risalente, ha affermato che il giudice ha il potere-dovere, indipendentemente da un'iniziativa di uno dei coniugi o del pubblico ministero, di adottare i provvedimenti necessari alla tutela degli interessi morali e materiali dei figli, ivi compresi quelli inerenti al loro affidamento. Tale principio non si pone in contrasto con i precetti di cui agli artt. 3 e 24 Cost., atteso che l'indicato intervento del giudice ex officio è rivolto a soddisfare esigenze e finalità pubblicistiche in una materia sottratta alla disponibilità delle parti, diversamente da quella inerente ai rapporti patrimoniali fra coniugi (Cass. civ., sez. I, 25 gennaio 1983, n. 693). Un'altra ipotesi di diritto non pienamente disponibile è quella dell'assegno di divorzio. Secondo il costume tradizionale della giurisprudenza, l'assegno divorzile ha un fondamento essenzialmente solidaristico (infatti è anche definito assegno “postmatrimoniale”) e si distingue, dunque, per la sua natura squisitamente assistenziale: tant'è che la ratio dell'istituto è nella c.d. solidarietà post-coniugale e, per l'effetto, la sua funzione è quella di «far fronte all'esigenza, socialmente avvertita, di soccorrere anche dopo lo scioglimento del vincolo del matrimonio la persona con la quale si era realizzata la comunione di vita materiale e morale che, proprio a causa del divorzio, subisca un deterioramento del suo livello esistenziale». La modalità elettiva di corresponsione dell'assegno divorzile è quella della somministrazione periodica di contenuto pecuniario ma, come noto, la novella del 1987 ha introdotto la possibilità di liquidare tale assegno frazionato nel tempo, in una unica soluzione (c.d. assegno una tantum). La natura assistenziale e tendenzialmente pubblicistica dell'assegno divorzile esclude un regime di libera disponibilità e, pertanto clausole dispositive del diritto al sostegno solidaristico devono essere vagliate dall'Autorità Giudiziaria (tant'è che, in Dottrina, si qualifica l'assegno “una tantum” come deroga eccezionale al regime della indisponibilità legalmente fissato). In particolare, la pattuizione uno acto, mirando a regolare per il futuro, il diritto all'emolumento divorzile, incide in modo significativo sul regime di indisponibilità cui poc'anzi si è fatto cenno (e su cui si veda App. Milano, dec.10 luglio 2002) e, conseguentemente, richiede un sindacato di congruità da svolgere in sede giurisdizionale; in difetto, come noto, ogni pattuizione che miri a regolare il diritto non disponibile, per il futuro, è da intendersi nulla per avere arrecato una irreparabile compromissione di un obiettivo di ordine pubblico (Corte cost. 21 gennaio 2000 n. 17). L'indisponibilità del diritto infrange il principio di (tendenziale) insindacabilità dell'autonomia privata e risponde a una funzione giurisdizionale doverosa e non rinunciabile. É quanto è avvenuto nel caso affrontato dalla Suprema Corte, nella decisione in commento.

La decisione della Corte. Nel caso affrontato dalla Cassazione, i coniugi avevano entrambi concluso per il diritto della ex moglie ad avere un assegno divorzile, ex art. 5 l. n. 898/1970. Ciò nondimeno, avevano optato per una soluzione uno acto, mediante corresponsione di una somma una tantum. La corresponsione della somma una tantum era, però, prevista “in natura” ossia mediante cessione di un diritto reale. Tuttavia, nell'accordo, la cennata cessione era prevista non in modo attuale, bensì dopo un lasso di tempo non predeterminato. Convalidando l'accordo così come stipulato dagli ex coniugi, alla ex moglie il diritto al sostegno alimentare sarebbe concretamente spettato dopo il formale perfezionamento dei patti diretti a trasferire il diritto reale: quanto a dire, subordinatamente a un comportamento non fungibile assunto in futuro dall'ex marito (es. stipulare il rogito). Questo avrebbe sostanzialmente “sospeso” il riconosciuto diritto dell'ex moglie ad un assegno alimentare. Da qui la scelta del giudice di non convalidare l'accordo se non mediante una integrazione: prevedere l'assegno divorzile in forma mensile, sino alla sua effettiva sostituzione con l'importo in natura una tantum. La Suprema Corte, bocciando le censure avanzate a questa decisione, esprime un importante principio di diritto: durante il procedimento di divorzio i coniugi possono pervenire ad accordi compositivi della lite, in particolare anche prevedendo il trasferimento di diritti reali su immobili a titolo di assegno divorzile c.d. una tantum. All'esito dei patti raggiunti, i coniugi possono formulare conclusioni congiunte al fine di provocare una decisione conforme dell'organo giudicante. Il giudice di merito è in linea di principio tenuto a deliberare gli accordi delle parti ma mantiene il potere anche di modificarli o integrarli se ritenuti non equi.

Osservazioni

La decisione in commento ammettendo una ingerenza del giudice negli accordi dei coniugi in sede di divorzio, rispetto al cd. una tantum, disvela un favore per la tesi tutt'oggi prevalente in giurisprudenza che predica la natura assistenziale non pienamente disponibile dell'assegno di divorzio. La decisione valorizza anche il ruolo del giudice nei processi di famiglia: non mero spettatore passivo bensì attore dinamico che può anche correggere, integrare la volontà dei coniugi al fine di salvaguardare gli interessi pubblici in gioco. Questo sindacato del giudice è così “intenso” e “pieno” che si spinge oltre le maglie dell'art. 112 c.p.c., consentendo il superamento finanche dei negozi processuali direttamente incidenti sulla situazione giuridica soggettiva oggetto di tutela. É opportuno osservare, però, come nel caso di specie abbia deposto nel senso di un maggiore intervento del giudice, il silenzio delle parti circa aspetti importanti della fattispecie e la carenza di alcune componenti rilevanti dell'accordo (tempo di realizzazione del diritto). Ciò va segnalato perché, in linea di principio, l'indisponibilità sostanziale dell'assegno divorzio si accompagna, di fatto (e spesso) alla sua disponibilità processuale (si pensi, semplicemente, all'accordo di divorzio in cui gli ex coniugi si dichiarano indipendenti; si pensi anche all'ex coniuge che rinuncia alla domanda di divorzio, etc.).

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