Ricongiungimento familiare: il divieto di discriminazione per orientamento sessuale si applica anche alla disciplina dell'immigrazione

Matteo Winkler
22 Agosto 2016

Il divieto di discriminazione per orientamento sessuale, sancito dall'art. 14 in combinato disposto con l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, si applica anche alla disciplina nazionale dell'immigrazione, in particolare alla concessione del ricongiungimento familiare.
Massima

Il divieto di discriminazione per orientamento sessuale, sancito dall'art. 14 in combinato disposto con l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, si applica anche alla disciplina nazionale dell'immigrazione, in particolare alla concessione del ricongiungimento familiare a favore di stranieri che desiderano convivere con un partner dello stesso sesso nel territorio dello Stato.

Il caso

Con la sentenza resa il 26 febbraio 2016 nel procedimento Pajić c. Croazia, la Corte europea dei diritti umani applica al settore dell'immigrazione il divieto di discriminazione per orientamento sessuale sancito dal combinato disposto dell'art. 14 e dell'art. 8 CEDU.

Il caso trae origine dal ricorso di una donna della Bosnia Erzegovina che da tre anni viveva una relazione affettiva con una donna croata. Non potendo soggiornare liberamente sul territorio croato in quanto straniera, la ricorrente si limitava a trascorrere con la compagna il tempo massimo di tre mesi consentito dalla legge croata per la permanenza sul territorio a fini turistici.
Dopo aver deciso di stabilirsi nella città di Sisak con la compagna, la ricorrente domandava all'autorità croata la concessione del permesso di soggiorno a titolo di ricongiungimento familiare, ma la sua istanza veniva rigettata prima dal Dipartimento di polizia locale e poi dal Ministro dell'Interno. La donna si rivolgeva quindi all'autorità giudiziaria, ma neppure qui la sua richiesta veniva accolta. Sia la Corte amministrativa di Zagabria sia la Corte costituzionale croata, infatti, negavano che all'unione omosessuale potesse riconoscersi la qualificazione come «famiglia» vuoi ai sensi del diritto croato, vuoi in virtù delle disposizioni della CEDU, sicché nessun diritto al ricongiungimento familiare poteva attribuirsi alla ricorrente rispetto alla sua compagna.
La Corte individua nell'atteggiamento delle autorità croate una violazione del principio di non discriminazione per orientamento sessuale, atteso che «escludendo tacitamente le coppie dello stesso sesso dal proprio ambito di applicazione», la legge croata «introduce una differenza di trattamento fondata sull'orientamento sessuale delle persone interessate».

La questione

La questione sottoposta alla Corte di Strasburgo concerne dunque la compatibilità con la CEDU delle norme dell'ordinamento croato che riservano la possibilità di godere del diritto al ricongiungimento familiare alle sole coppie di sesso diverso sposate o conviventi.

Le soluzioni giuridiche

L'Aliens Act del 2007, modificato nel 2009, garantisce agli stranieri la possibilità di ottenere il ricongiungimento familiare in relazione a soggetti qualificabili come «membri familiari diretti» (immediate family member). Tali sono, secondo l'art. 56 della citata legge, sia il coniuge, sia ogni persona «who live[s] in an extramarital relationship in accordance with Croatian legislation». Questa norma è stata peraltro emendata nel 2011 e nel 2013 onde ricomprendervi esclusivamente l'unione tra un uomo e una donna (conviventi da tre anni o anche meno tempo, se dalla relazione è nato un figlio).
Peraltro, l'art. 73 del Same-Sex Union Act del 2003 stabilisce che il partner dello stesso sesso in una relazione informale durata più di tre anni ha il diritto di presentare richiesta di soggiorno temporaneo in Croazia, «as provided by special legislation».
Proprio il richiamo alla legislazione speciale, che incorpora espressamente il paradigma eterosessuale, impedisce alla ricorrente di ottenere effettivamente il permesso di soggiorno. Infatti, secondo la Corte amministrativa di Zagabria a cui la donna si era rivolta, «dati gli effetti limitati dell'unione tra persone dello stesso sesso, la possibile esistenza di siffatta unione non rappresenta la base per il ricongiungimento familiare. L'art. 56 dell'[Aliens] Act», continua il giudice croato,«enumera espressamente le persone che devono essere considerate membri familiari diretti o che devono essere eccezionalmente qualificate come tali, il che porta a concludere che essa non possa estendersi a persone che vivono una relazione dello stesso sesso».
La ricorrente sosteneva che questa conclusione rappresentasse una discriminazione per orientamento sessuale vietata dalla CEDU. Nella propria sentenza, la Corte europea dei diritti umani affronta le due questioni – l'una processuale preliminare e l'altra di merito – sottopostele rispettivamente dal governo croato e dalla ricorrente.

Sotto il primo profilo, il governo convenuto sosteneva che la ricorrente non avesse esaurito la totalità dei ricorsi interni messi a disposizione dall'ordinamento croato. Ella non aveva, infatti, esperito il procedimento civile per discriminazione ai sensi dell'art. 17 del Prevention of Discrimination Act del 2008, che consente appunto l'accesso all'autorità giudiziaria per le vittime di discriminazione per qualsiasi ragione.
La Corte risponde all'argomentazione del governo evidenziando che «la regola dell'esaurimento dei ricorsi interni deve essere applicata con una certa flessibilità e senza eccessivo formalismo. Allo stesso tempo, si richiede in via di principio che le censure che si intendono presentare a livello internazionale siano state rese note alle autorità interne, almeno nella loro sostanza e alle condizioni previste dall'ordinamento nazionale» (par. 42). A tal riguardo, la Corte ritiene che la ricorrente abbia «sufficientemente sollevato le proprie doglianze di discriminazione dinanzi alle autorità nazionali competenti. Non le era dunque richiesto di perseguire un altro rimedio» (par. 46). In altre parole, «la Corte non ha ragione di dubitare dell'uso proprio fatto dalla ricorrente dei rimedi disponibili dinanzi alle autorità nazionali competenti, inclusa la Corte costituzionale» (par. 47).
È però nel secondo aspetto – quello della discriminazione per orientamento sessuale – che la Corte europea afferma una serie di principi interessanti e in parte innovativi.
Essa ribadisce anzitutto che «l'articolo 14 rappresenta un complemento alle altre previsioni della Convenzione e dei suoi Protocolli. Non ha un'esistenza indipendente, dal momento che produce effetto solamente in relazione al "godimento dei diritti e delle libertà" ivi garantite» (par. 53). Inoltre, la Corte puntualizza che «solo le differenze di trattamento fondate su una caratteristica identificabile o uno status sono in grado di costituire una discriminazione ai sensi dell'articolo 14» (par. 55). Infine, «non ogni differenza di trattamento costituisce una violazione dell'articolo 14. Una differenza di trattamento è discriminatoria se non è sorretta da una giustificazione oggettiva e ragionevole; in altre parole, se non persegue un fine legittimo o non sussiste alcun rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e l'obiettivo che si intende conseguire» (ibid.).
«Quando si tratta di una questione di immigrazione», continua la Corte di Strasburgo, «uno Stato ha il diritto, in virtù di consolidate norme di diritto internazionale e nel rispetto degli obblighi pattizi, di controllare l'ingresso degli stranieri sul proprio territorio e la loro residenza. La Convenzione non garantisce il diritto di uno straniero di entrare o risiedere in uno Stato particolare» (par. 58). E tuttavia, anche nell'applicare la propria disciplina dell'immigrazione lo Stato non può discriminare in base all'orientamento sessuale e, qualora una discriminazione si sia verificata, deve comunque presentare «ragioni particolarmente convincenti e di peso a giustificazione [di tale discriminazione]» (par. 59).

Nel fare applicazione di questi principi al caso di specie, la Corte rileva anzitutto l'applicabilità dell'art. 8 CEDU nella parte in cui riconosce a ciascuno «il diritto al rispetto della vita privata e familiare». Ribadisce poi, come da giurisprudenza consolidata, che la nozione di famiglia nella CEDU «non è confinata alle relazioni fondate sul matrimonio e può comprendere altri legami ‘familiari' di fatto dove le parti convivono al di fuori del matrimonio» (par. 63). La Corte EDU, in aggiunta, riconosce di avere per lungo tempo limitato il riconoscimento delle unioni omosessuali alla «vita privata», rifiutandosi perciò di estendere alle stesse i benefici derivanti dalla qualificazione come famiglie (cfr. la sent. 10 maggio 2001, ric. n. 56501/00, Mata Estevez c. Spagna).
Ora, però, è mutata la percezione sociale di tali unioni all'interno del contesto europeo, e la Corte non può non tenerne conto. Da una parte, il Consiglio d'Europa con le sue risoluzioni ha assunto una posizione nettamente a favore del riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali come famiglie a tutti gli effetti. Dall'altra, con un interessante dialogo orizzontale, la Corte ricorda che a livello di Unione Europea, dalla Carta dei diritti fondamentali fino al diritto secondario, si è più volte affermata la necessità di combattere ogni discriminazione per orientamento sessuale. Coerenza impone, allora, anche alla luce del consenso esistente nelle due organizzazioni, di ritenere «artificiale sostenere che, in contrasto con le coppie di sesso diverso, quelle dello stesso sesso non possono godere della ‘vita familiare' ai sensi dell'articolo 8» (par. 64).
Dunque la disciplina croata dell'immigrazione, sancendo il diritto delle sole coppie di sesso diverso ad accedere all'istituto del ricongiungimento familiare «a tacita esclusione delle coppie dello stesso sesso dal proprio ambito di applicazione», contempla un trattamento differenziato basato sull'orientamento sessuale delle persone coinvolte (par. 74, ove la Corte cita la sent. 7 novembre 2013, ric. n. 29381/09 e 32684/09, Vallianatos c. Grecia).
A tal riguardo, risulta dagli atti del processo come il governo croato non abbia presentato alcuna giustificazione a sostegno della differenza di trattamento. La Corte ricorda qui che «le autorità nazionali competenti non hanno avanzato alcuna giustificazione, né il governo ha addotto alcuna ragione particolarmente convincente o di peso al fine di giustificare la differenza di trattamento tra coppie dello stesso sesso e coppie di sesso opposto nell'ottenimento del ricongiungimento familiare» (par. 83).
Di qui, l'inevitabile conseguenza: «le previsioni rilevanti dell'Aliens Act contemplano un'esclusione generalizzata delle persone che vivono in una relazione omosessuale dalla possibilità di ottenere il ricongiungimento familiare che non può ritenersi compatibile con lo standard della Convenzione».

Osservazioni

La sentenza rappresenta la conseguenza naturale della qualificazione delle relazioni stabili e responsabili tra persone dello stesso sesso come realtà familiari in senso proprio, iniziata con il caso Schalk e Kopf c. Austria (sent. 24 giugno 2010, ric. n. 30141/04) e riaffermata nei più recenti casi Oliari c. Italia (sent. 21 luglio 2015, ric. n. 18766/11 e 36030/11) e McCall e Taddeucci c. Italia (sent. 30 giugno 2016, ric. n. 51362/09), quest'ultima proprio sul tema del permesso di soggiorno per ragioni familiari. Se il riconoscimento delle famiglie incentrate su una coppia omosessuale produce un qualche effetto utile in termini di dignità giuridica e sociale, tale effetto consiste nel consentire a due persone che intendono vivere insieme di non essere discriminate in base al loro orientamento sessuale. È questa l'affermazione più importante e interessante della pronuncia in epigrafe.
Due sono le osservazioni che si possono effettuare qui. La prima è che proprio nel settore dell'immigrazione, tipica estensione del principio di sovranità territoriale, il riconoscimento della natura familiare delle unioni omosessuali si manifesta con evidenza dirompente. Si tratta infatti di una disciplina che, coinvolgendo gli stranieri, afferma l'universalità del principio di discriminazione e dunque la sua applicazione anche in ambiti tradizionalmente riservati alla sovranità statale e a soggetti.
La seconda osservazione è che il divieto di discriminazione per orientamento sessuale, che pure risulta affermato sul piano interno dalla Costituzione croata così come da tutte le costituzioni statali, entra nelle pieghe degli ordinamenti nazionali in modo dirompente. Infatti, il meccanismo tipico di tale divieto, imponendo un'inversione dell'onere della prova a favore dello Stato che rende molto difficile, per quest'ultimo, sostenere la legalità della misura discriminatoria alla luce delle giustificazioni addotte, consente una tutela forte della vittima della discriminazione. Non a caso, in nessuna delle pronunce della Corte europea riguardanti una discriminazione per orientamento sessuale, il governo convenuto è stato in grado di dimostrare la ragionevolezza e la sufficienza delle proprie ragioni. Proprio per questa sua forza espansiva, il divieto di discriminazione si presta a sviluppi futuri, indubbiamente interessanti anche e soprattutto per la sua possibile – anzi probabile – incidenza sui diritti nazionali degli Stati contraenti.

Guida all'approfondimento

- L. Giacomelli, “Se il legislatore tace, il giudice dice no”: il dialogo tra corti e la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali nell'esperienza italiana, in D. Ferrari, Lo status giuridico delle coppie same sex: una prospettiva multilivello, Padova, 2014, 47, spec. 71

- G. Genova, Anche il coniuge dello stesso sesso del cittadino comunitario ha diritto di stabilirsi in Italia ai sensi del t.u. sulla circolazione e sul soggiorno dei cittadini dell'U.E., in Fam. e dir., 2013, 790

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