Rimborso delle spese sostenute e risarcimento del danno al genitore che si occupa da solo del figlio

24 Giugno 2016

Al genitore che ha cresciuto il figlio da solo può liquidarsi il danno non patrimoniale derivante dalla impossibilità di condividere con l'altro genitore il ruolo genitoriale, la crescita e l'accudimento della prole in quanto ciò determina presuntivamente dolore, turbamento e un peggioramento della qualità della vita.
Massime

Il genitore che ha provveduto al mantenimento del minore in via esclusiva ha il diritto di ripetere nei confronti dell'altro genitore una quota delle spese sostenute secondo quanto prevede l'art 1229 c.c. in tema di regresso tra condebitori solidali. Il genitore richiedente ha l'onere di fornire la prova degli esborsi sostenuti, anche in via presuntiva, ed a tal fine può farsi riferimento ai dati ISTAT sulla spesa media delle famiglie.

Al genitore che ha cresciuto il figlio da solo può liquidarsi il danno non patrimoniale derivante dalla impossibilità di condividere con l'altro genitore il ruolo genitoriale, la crescita e l'accudimento della prole in quanto ciò determina presuntivamente dolore, turbamento e un peggioramento della qualità della vita.

Il caso

Nel 1974, quando il costume sociale era molto più conservatore ed esisteva ancora il filtro di ammissibilità alle azioni di riconoscimento della paternità, poi eliminato dalla Corte Costituzionale nel 2006 (C. Cost., 10 febbraio 2006, n. 50), due giovani hanno una breve relazione sentimentale, dal mese di luglio al mese di dicembre. L'uomo, non appena apprende che la donna è in stato di gravidanza, dapprima la invita ad interromperla (cioè a commettere il reato che all'epoca era previsto e punito dall'art. 546 c.p. poi abrogato dalla l. 22 maggio 1978, n.194) e quindi le comunica che non riconoscerà il bambino, anzi la bambina, che nasce nell'anno successivo. Nel corso degli anni la donna ripetutamente si rivolge al padre, persona agiata, la cui famiglia gestisce un ristorante, per essere aiutata. L'uomo rifiuta sempre di incontrare la figlia, e alle pressanti richieste della madre di essere aiutata non risponde nemmeno personalmente, delegando questa incombenza alla di lui sorella. Quando la donna gli comunica che la bambina farà la prima comunione, l'uomo dichiara di non volere avere notizie della figlia. E' quindi la madre a sostenere in via esclusiva la figlia, materialmente e moralmente, fino al 1997, quando la ragazza contrae matrimonio. Nelle more viene promossa l'azione di accertamento giudiziale della paternità e nel 2013, dopo il passaggio in giudicato della sentenza sullo status, che accerta la filiazione, la madre promuove una azione civile contro il padre, chiedendo il rimborso pro quota delle spese sostenute per il mantenimento ed il risarcimento del danno non patrimoniale, dichiarando di avere subito una profonda crisi esistenziale, turbamenti psicologici e ripercussioni sociali per il fatto che il padre si è sottratto ai suoi obblighi. Il convenuto non si costituisce e non si presenta neppure a rendere il deferito interrogatorio formale.

La questione

Due le questioni rilevanti affrontate nella sentenza: la prima è relativa all'an ed al quantum della liquidazione dei rimborsi per le maggiori spese sostenute dal genitore che ha cresciuto la figlia senza alcun apporto da parte dell'altro, che si è così sottratto agli obblighi previsti dall'art. 316 bis c.c.; la seconda è relativa alla possibilità di liquidare il danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. non già alla figlia, privata della figura genitoriale, ma alla madre, perché privata della collaborazione non solo economica ma anche nella assistenza morale, nella cura e nell'educazione della prole.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza riconosce sia il diritto al rimborso per le maggiori spese sostenute che il danno non patrimoniale per lesione del diritto fondamentale a condividere le cure genitoriali. Sul diritto al rimborso si afferma che il genitore che ha provveduto al mantenimento del figlio in via esclusiva ha diritto di ripetere nei confronti dell'altro, qualora questi non abbia partecipato alle spese di mantenimento, una quota delle spese sostenute, secondo i principi posti dall'art. 1229 c.c. in tema di regresso tra condebitori solidali. Si afferma inoltre che è possibile applicare matematicamente al tempo passato la misura del contributo di mantenimento da fissarsi per il futuro, solo qualora con l'applicazione dei criteri presuntivi questo parametro appaia congruo, mentre quando non si possa ricorrere a tale criterio, il genitore che formula la domanda di regresso è onerato di fornire la prova, quanto meno presuntiva, degli esborsi effettivamente sostenuti (Cass., 4 novembre 2010, n. 22506). Ricostruite le condizioni economiche delle parti ed accertato che il padre si era totalmente disinteressato della figlia, il giudice romano ha stimato che il contributo al mantenimento della figlia doveva essere ripartito nella misura del 70% a carico del padre, soggetto economicamente più forte e del 30% a carico della madre, in attuazione del principio di proporzionalità di cui all'art. 316 bis c.c. Si è quindi fatto riferimento ai dati ISTAT sulla spesa media di una famiglia di due persone per il mantenimento ordinario, anno per anno calcolata, comprendendo in essa anche le spese di istruzione, svago e mediche, e liquidando a parte solo i costi del battesimo, della comunione e del matrimonio. Sulla cifra così ottenuta si sono apportati alcuni correttivi, ad esempio per le spese di abitazione, al fine di personalizzare ed adattare il calcolo alla concreta situazione in cui avevano vissuto madre e figlia.

La sentenza riconosce e liquida alla madre anche il danno non patrimoniale iure proprio e cioè per la violazione da parte del padre del dovere di collaborazione nell'adempimento dei doveri genitoriali. Si è osservato che l'art. 30 Cost. riferisce ad entrambi i genitori il dovere di mantenere, educare ed istruire i figli e pertanto la violazione di quest'obbligo arreca un vulnus a diritti costituzionalmente garantiti non solo del figlio, ma anche dell'altro genitore. Alla madre è stato quindi liquidato il danno non patrimoniale (30.000,00 euro) derivante dalla «impossibilità di condividere con il padre di sua figlia il ruolo genitoriale» il che oltre a provocare dolore e turbamento ha comportato per la donna un peggioramento della qualità della vita.

Osservazioni

Il riconoscimento della indennità da maggiori spese sostenute nell'interesse del figlio segue le linee poste da consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito. Secondo la Suprema Corte nel caso in cui al mantenimento cui abbia sopperito in via esclusiva uno dei due genitori, si tratta, più che di risarcimento, di una azione assimilabile a quella di ripetizione di indebito (Cass. civ. sez. I, 22 luglio 2014, n.16657). Consolidata è anche l'affermazione che l'obbligazione di mantenimento dei figli sorge con la nascita per il solo fatto di averli generati e persiste fino al momento del conseguimento della loro indipendenza economica con la conseguenza che il genitore che ha assunto l'onere esclusivo del mantenimento anche per la parte dell'altro genitore, ha diritto di regresso nei confronti dell'altro per la corrispondente quota (Cass. civ. sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652). La Corte ha affermato inoltre che il rimborso ha natura in senso lato indennitaria, essendo diretto ad indennizzare il genitore, che ha riconosciuto il figlio, per gli esborsi sostenuti da solo per il mantenimento della prole; il giudice di merito può utilizzare il criterio equitativo per determinare le somme dovute a titolo di rimborso poiché è principio generale che l'equità costituisca criterio di valutazione del pregiudizio non solo in ipotesi di responsabilità extracontrattuale ma anche con riguardo ad indennizzi o indennità previste in genere dalla legge. La valutazione equitativa deve farsi dando conto del percorso logico e valutativo seguito e degli elementi di fatto apprezzati ed il giudice è tenuto ad individuare dei validi criteri di giudizio, parametrati alla specificità del caso da esaminare in funzione di una personalizzazione della liquidazione, ma in ogni caso senza superare l'importo della quota delle spese sostenute, anche presuntivamente determinate (Cass. civ. sez. I, 15 marzo 2016 n. 5090; Cass. civ. sez. I, 01 ottobre 1999, n. 10861). La sentenza in esame opera la scelta di determinare in via presuntiva i costi sostenuti dalla madre, facendo riferimento ad un parametro oggettivo di rilievo nazionale quali i dati ISTAT, che ha l'indubbio vantaggio di potere essere utilizzato per garantire la uniformità di giudizio in tutti i casi analoghi.

La decisione è sicuramente innovativa nella parte in cui riconosce il danno da mancata condivisone del ruolo genitoriale e considera i diritti e doveri dei genitori non atomisticamente, ma in termini di relazione e cioè come un rapporto che intercorre non solo tra i genitori e figlio, ma anche tra i genitori stessi, che sono tenuti a collaborare nell'interesse della prole. Il riconoscimento del danno non patrimoniale è stato ancorato alla corrente interpretazione dell'art. 2059 c.c. (Cass. civ. S. U., 11 novembre 2008, n. 26972) e cioè che può essere risarcito il pregiudizio di natura non patrimoniale, quando il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, che hanno tutela costituzionale. Qui si individua il punto critico della sentenza: è infatti la prima volta che si afferma che la condivisione del ruolo genitoriale costituisce diritto fondamentale costituzionalmente protetto, ed è facile immaginare che non tutti saranno d'accordo con questa affermazione, nonostante in sentenza si dichiari esplicitamente che il riferimento è all'art. 30 Cost. Fino ad oggi la norma costituzionale è stata letta nel senso che essa tutela il diritto del figlio a non esser privato dell'apporto di uno dei genitori (Cass. civ sez. VI, 16 febbraio 2015, n. 3079; Cass. civ. sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652; Trib. Modena sez. II,20 febbraio 2015,n. 272) e non anche “orizzontalmente” cioè in termini di diritto del genitore alla collaborazione dell'altro, ma non è escluso che la lettura evolutiva proposta dal giudice romano, e chiaramente ispirata al dettato dell'art. 8 CEDU, acquisti consensi. L'affermazione del principio è consapevolmente sostenuta: si deve notare infatti che il giudice romano non sceglie la via, possibile e meno esposta a critiche, di affermare che il rifiuto di collaborazione ha leso la dignità della madre per le modalità con le quali è stato attuato, che pure nella fattispecie sono state particolarmente odiose.

Infine, la sentenza non esamina il profilo della prescrizione dei diritti, perché in difetto di costituzione del convenuto non è stata sollevata la relativa eccezione ed il giudice romano si limita a citare quell'orientamento di giurisprudenza che esclude la rilevanza dell'inerzia o del ritardo nel richiedere l'accertamento della paternità (Cass., 22 novembre 2013, n. 26205). Di regola però la costituzione del convenuto porta con sé l'eccezione di prescrizione: la prescrizione del diritto al rimborso è decennale (art. 2946 c.c.) e, secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, decorre dal passaggio in giudicato della sentenza sullo status (Cass., 4 aprile 2014, n. 7986; Cass. 30 luglio 2010,n. 17914; contra Trib. Roma, 1 aprile 2014, n. 7400), mentre il diritto al risarcimento del danno endofamiliare è soggetto alla prescrizione quinquennale secondo la regola posta dall'art. 2947 c.c. (Cass., 8 aprile 2016, n. 6833).

Guida all'approfondimento

C.M. Bianca, La legge italiana conosce solo figli, in Riv. Dir. Civ., 2013, 1, 10001

R. Amagliani, L'unicità dello Stato giuridico di figlio inRiv. Dir. Civ. 2015, 3, 554

F. Danovi, Gli illeciti endofamiliari: verso un cambiamento della disciplina processuale?inDir. Fam. e Pers (Il), fasc. 1, 2014, 293

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