La Grande Camera della Corte di Strasburgo ritorna sulla maternità surrogata

26 Luglio 2017

Al centro del caso di specie vi sono le misure adottate dalle autorità italiane che hanno determinato la separazione definitiva del minore dai ricorrenti e l'applicabilità alla vicenda dell'art. 8 CEDU.
Massima

Non viola l'articolo 8 CEDU la decisione delle autorità italiane di allontanare il minore nato all'estero ricorrendo alla maternità surrogata. Laddove manchino legami biologici tra minore ed aspiranti genitori e vi sia una breve durata dei rapporti, l'art. 8 non rileva quanto alla vita familiare. Esso trova applicazione in relazione allanozione di vita privata, con riguardo all'allontanamento del minore e al suo collocamento in vista dell'adozione. Tale interferenza non viola l'articolo 8, se conforme alla legge, se ha perseguito uno o più obiettivi legittimi e se è necessaria in una società democratica per il raggiungimento di tali obiettivi.

Il caso

La Corte EDU, con la sentenza del 27 gennaio 2015, aveva statuito che nel caso Paradiso e Campanelli c. Italia l'allontanamento del minore dal contesto familiare, misura da utilizzare solo quale extrema ratio per proteggere il minore da un pericolo immediato, interferisse con la vita privata e familiare dei ricorrenti ex art. 8 CEDU.

La Camera, pertanto, pur apprezzando la preoccupazione delle autorità italiane di tutelare l'interesse pubblico e di proteggere un minore considerato abbandonato, aveva ritenuto che i giudici avessero assunto le decisioni senza valutare concretamente le condizioni di vita del minore con i ricorrenti e l'interesse superiore dello stesso. Così la circostanza di ritenere che il minore avrebbe sviluppato legami più stretti con i ricorrenti, qualora fosse rimasto più a lungo con loro, non era sufficiente a giustificarne la rimozione. Pur tuttavia, la sentenza non aveva disposto la riconsegna del minore ai ricorrenti atteso che nel frattempo egli avrebbe sviluppato legami emotivi con la nuova famiglia.

Il caso è stato in seguito deferito alla Grande Camera della Corte che ha pronunciato una sentenza sostanzialmente differente il 24 gennaio 2017. Il Governo «ha ritenuto opportuno proporre il riesame del caso dinanzi alla Grande Camera, in relazione al rischio dell'introduzione nell'ordinamento di un terzo criterio di filiazione, diverso da quello basato sul legame genetico con almeno uno dei due genitori e, soprattutto, alla forte compressione, in un settore sensibile e che tocca argomenti di diritto costituzionale europeo, del principio del margine di apprezzamento in combinato con il principio di sussidiarietà, entrambi a presidio delle prerogative sovrane degli Stati come recentemente proclamati con il Protocollo n. 15» (Presidenza del Consiglio dei Ministri, L'esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dello Stato italiano. Legge 9 gennaio 2006, n. 12, Relazione al Parlamento per l'anno 2014, 34).

La questione

Al centro del caso di specie vi sono le misure adottate dalle autorità italiane che hanno determinato la separazione definitiva del minore dai ricorrenti. La questione giuridica principalmente rilevante è se sia applicabile alla vicenda l'art. 8 CEDU e, in caso affermativo, se le misure in parola costituiscano una ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto della vita privata e familiare.

A differenza di casi simili (Corte EDU, sez. V, 26 giugno 2014, n. 65192/11; Corte EDU, sez. V, 26 giugno 2014, n. 65941/11; Corte EDU, sez. V, 21 luglio 2016, nn. 9063/14, 10410/14; Corte EDU, sez. V, 19 gennaio 2017, n. 44024/13), il minore non è un ricorrente nel procedimento dinnanzi alla Corte che è chiamata ad esaminare le doglianze sollevate dai ricorrenti che agiscono solo in nome proprio. Pertanto, nella fattispecie in esame non rilevano questioni legate all'identità del minore e al suo diritto a conoscere le proprie origini, poiché la posizione dello stesso non può essere fatta valere in giudizio dai ricorrenti.

Tuttavia, nelle vicende testé citate, le autorità non hanno disposto l'allontanamento del minore e si è comunque in presenza di un legame biologico tra il padre e i figli. Oggetto delle stesse è la registrazione di un certificato di nascita rilasciato all'estero e il riconoscimento della filiazione rispetto a un minore nato da un accordo di gestazione per conto terzi.

I casi francesi rappresentano dei precedenti molto importanti poiché non impongono agli Stati l'obbligo di disciplinare accordi in materia di maternità surrogata né di riconoscerli sotto il profilo della tutela della vita familiare degli aspiranti genitori, ma impongono lo stesso obbligo sotto il profilo della tutela della vita privata dei minori. In sostanza il Governo francese può vietare gli accordi di maternità surrogata sul suo territorio ma, applicando il principio del migliore interesse del minore, non può rifiutarsi di riconoscere i minori nati all'estero da madre surrogata.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha ritenuto che nella vicenda in commento mancassero le condizioni per poter delineare una vita familiare de facto. Gli elementi che confermano questa conclusione sono l'assenza di legami biologici tra il minore e gli aspiranti genitori, la breve durata delle relazioni con il minore e l'incertezza dei legami dal punto di vista giuridico.

La Grande Camera ha constatato, invece, che l'immediata e irreversibile separazione del minore dai suoi genitori sono equivalenti ad una interferenza con la vita privata degli stessi genitori. Pertanto, l'art. 8 CEDU trova applicazione a questo titolo in quanto i ricorrenti sono stati danneggiati dalle decisioni giudiziarie che hanno portato all'allontanamento del minore e alla presa in carico di quest'ultimo da parte dei servizi sociali ai fini dell'adozione.

Tale interferenza non viola l'art. 8, se conforme alla legge, se ha perseguito uno o più obiettivi legittimi e se è necessaria in una società democratica per il raggiungimento degli stessi. Nella misura in cui il comportamento dei ricorrenti ha violato la legge sull'adozione e il divieto previsto nell'ordinamento italiano circa la riproduzione eterologa, i provvedimenti adottati nei confronti del minore hanno perseguito l'obiettivo di “prevenire l'illegalità” e di proteggere “diritti e libertà” altrui. Le autorità statali possiedono la competenza esclusiva di riconoscere una relazione genitoriale solo laddove sia legittima ovvero solo nel caso di parità biologica o di adozione legittima. Per quanto riguarda la proporzionalità, in un caso del genere, gli interessi pubblici in gioco hanno avuto un peso maggiore rispetto agli interessi dei ricorrenti di perseguire il proprio progetto parentale.

Sebbene l'art. 8 CEDU non tuteli il diritto di adottare né tantomeno il diritto di diventare genitore o il desiderio di creare una famiglia, la Corte ha comunque bilanciato il dolore causato ai ricorrenti dall'allontanamento del minore. Tuttavia, ha anche considerato che lo scenario opposto avrebbe legalizzato ciò che i ricorrenti avevano imposto alle autorità italiane come “un fatto compiuto” in violazione di importanti regole della legge italiana.

La Corte ritiene dunque che i giudici italiani, avendo appurato con un ragionamento non superficiale o stereotipato che il minore non avrebbe subito un pregiudizio grave o irreparabile per via della separazione, hanno garantito un giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco, rimanendo nei limiti dell'ampio margine di apprezzamento loro riservato.

Pertanto, concludendosi per la non violazione dell'art. 8 CEDU, rispetto al diritto alla vita privata dei ricorrenti, sono prevalsi l'interesse per la prevenzione dell'illegalità e la tutela dell'ordine pubblico.

Osservazioni

Mentre la sentenza è stata salutata con soddisfazione dalla maggioranza dei giudici, opinioni dissenzienti (Giudici Lazarova Trajkovska, Bianku, Laffranque, Lemmens e Grozev) hanno riguardato principalmente le seguenti questioni che è utile riassumere perché agevolano notevolmente i termini del dibattito: 1) la distinzione tra le famiglie “legittime” e “naturali”, che nella causa ha svolto un ruolo fondamentale per ritenere che la vita familiare non esistesse, è stata respinta dalla Corte molti anni fa a favore del principio secondo il quale l'esistenza o meno di una “vita familiare” è essenzialmente una questione di fatto (es. caso Marckx c. Belgique, 13 giugno 1979); 2) la proclamazione del minore come abbandonato dalle autorità italiane non riconosce la piena nozione di genitorialità che comprende principalmente la genitorialità fattuale; 3) la questione non è se la legge italiana deve disciplinare accordi di maternità surrogata, ma piuttosto in che modo le autorità intendono “gestire” una situazione di fatto in Italia derivante da eventi avvenuti in un paese straniero.

Invero si tratta di valutare se le scelte operate nel caso di specie abbiano contemperato un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e i competing interests. Rispetto ad altri casi precedentemente citati, in questo all'esame, possiamo ragionevolmente affermare che il margine di apprezzamento delle autorità nazionali abbia in parte compromesso il principio del migliore interesse del minore. Tale diverso trattamento è dovuto evidentemente all'assenza del legame genetico tra il minore e il signor Campanelli che ha portato, in un primo momento, al non riconoscimento del certificato di nascita, successivamente, all'allontanamento del minore dichiarato abbandonato e, infine, all'impossibilità dei ricorrenti di agire per conto del “proprio” figlio durante il procedimento dinnanzi alla Corte europea.

In particolare, le misure adottate nei confronti del minore – l'allontanamento e la collocazione sotto tutela – sollevano dubbi circa il requisito della proporzionalità e inducono all'interrogativo se gli interessi dello stesso siano stati sufficientemente presi in considerazione dalle autorità italiane. In Wagner et JMWL c. Luxembourg del 28 giugno 2007, le autorità nazionali, pur non avendo riconosciuto il legame giuridico genitoriale stabilito all'estero per contrarietà con l'ordine pubblico, hanno mantenuto il figlio nell'ambiente familiare, pervenendo ad un giusto equilibrio tra gli interessi concorrenti: quelli del minore, dei due genitori e dell'ordine pubblico.

Sin dall'origine, nella causa Paradiso e Campanelli, i Giudici italiani hanno affermato che non si trattava di una surrogazione di maternità «tradizionale», visto che non era stato usato il materiale biologico dei ricorrenti. Hanno così ritenuto che il certificato di nascita avesse un contenuto impreciso a causa di azioni fraudolente. Tuttavia, secondo la legge russa, all'epoca dei fatti, era possibile registrare un figlio indipendentemente dal legame genetico con gli aspiranti genitori (v. F. Pisano, La maternità surrogata all'estero non integra alterazione di stato, in ilFamiliarista.it).

Ed, infatti, il certificato in questione riportava semplicemente la circostanza che i ricorrenti fossero i «genitori», senza specificare se fossero i genitori biologici. D'altro canto, al momento in cui i giudici nazionali hanno disposto l'allontanamento del minore, la responsabilità penale dei ricorrenti non era stata dimostrata. Inoltre, ai fini delle considerazioni che seguono è utile ricordare che i ricorrenti erano stati ritenuti idonei all'adozione e che un equipe di assistenti sociali, designata dal tribunale competente, aveva dichiarato che i ricorrenti si erano fatti carico del bambino «in maniera ottimale».

La Corte, tuttavia, non si esprime sul punto, non spiegando la ragione per cui la mancanza di vincolo genetico impedisca il riconoscimento della filiazione validamente costituita all'estero. E difatti, per quanto riguarda il motivo di ricorso relativo alla impossibilità di ottenere la registrazione del certificato di nascita russo, la Corte si limita ad osservare che la Camera ha accolto l'eccezione concernente il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne e, secondo giurisprudenza consolidata, "la causa" rinviata dinnanzi alla Grande Camera è il ricorso così come dichiarato ricevibile dalla Camera.

Né la Corte ha esaminato, per i motivi sopra evidenziati, se l'allontanamento abbia violato la vita privata e familiare del minore anche alla luce dell'art. 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo che dispone che «il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi», al fine di garantire nel tempo la sicurezza e la stabilità della famiglia.

La conclusione raggiunta dalla Corte collide peraltro con l'orientamento maturato dallo stesso Giudice verso una maggiore protezione delle famiglie de facto rispetto alle famiglie legate elusivamente dalla genetica. Negli ultimi anni il concetto di vita familiare si è evoluto in modo da esprimere una “realtà funzionale”, con l'attenzione principale verso la tutela degli interessi dei minori. Il criterio genetico sino ad ora predominante poco alla volta sta cedendo il passo ad un'esigenza sociale quale fattore decisivo per delineare una “vita familiare legale”. Così il principio fondamentale sotteso alle legislazioni più moderne in materia di filiazione è la certezza del diritto e la protezione delle famiglie già formatesi.

Tuttavia, è utile rimarcare la circostanza che i legami parentali esistono solo attraverso la genetica e che, se la genitorialità è un concetto giuridico che si sviluppa nel tempo (v. V. Montaruli, Il legislatore e la giurisprudenza alle prese con nuove forme di genitorialità, in ilFamiliarista.it), pratiche sperimentali “importate”, contrarie al contesto giuridico nazionale, porteranno seri problemi di conflitto con l'ordine pubblico. Gli interessi ad esso sottesi intendono proteggere da quelle pratiche che “generano” bambini a fini dell'adozione e spingono le donne dei paesi in via di sviluppo, per motivi di sussistenza, a concludere accordi di maternità surrogata rischiosi per la salute. Difatti, le statistiche dimostrano che le gestazioni per conto terzi sono portate avanti da persone povere o nei paesi poveri.

Nonostante sul punto non si è giunti a conclusioni definitive, a causa della complessità della questione e della diversità degli approcci degli Stati del Consiglio d'Europa, l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE dispone il diritto di ogni persona alla propria integrità fisica e psichica e, alla lettera c), sancisce il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro. Non è chiaro, tuttavia, se, nel tutelare interessi pubblici fondamentali quali la salute, il rispetto dei diritti e delle libertà altrui, nella sentenza in commento, siano stati presi in debita considerazione gli interessi migliori del minore.

Ad ogni modo, appare falso vietare la surrogazione di maternità nel proprio paese per proteggere le donne che vi abitano, ma permettere di ricorrere ad essa all'estero. Sarà interessante osservare in che modo la Corte europea tratterà casi simili nel prossimo futuro e se riconsidererà i suoi argomenti.

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