I diritti e i doveri dei conviventi
27 Giugno 2016
Giurisprudenza e quadro normativo
Il legislatore con la l. n. 76/2016 ha recepito diritti e doveri già riconosciuti ai conviventi da svariate pronunce di legittimità negli ultimi decenni. La convivenza more uxorio, infatti, ha assunto il rilievo di formazione sociale da cui scaturiscono, sotto vari aspetti, conseguenze di natura giuridica. E' stata affermata la responsabilità aquiliana sia nei rapporti interni alla convivenza (Cass. civ., 15 maggio 2005, n. 9801) sia nelle lesioni provocate da terzi al rapporto configurato in un'unione stabile e duratura (Cass. civ., 21 marzo 2013, n. 7128; Cass. civ., 16 settembre 2008, n. 23725). Muovendo, inoltre, dal rapporto di detenzione qualificata di un'abitazione che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, si è affermato che l'estromissione violenta o clandestina dall'abitazione, compiuta dal convivente proprietario nei confronti del convivente non proprietario, consente a quest'ultimo la tutela possessoria consentendogli l'azione di spoglio (Cass. civ., 21 marzo 2013, n.7214). Inoltre, i doveri morali e sociali che trovano la loro fonte nella convivenza, influiscono secondo un orientamento consolidato della Cassazione, sui rapporti di natura patrimoniale, nel senso di escludere il diritto del convivente di ripetere le attribuzioni patrimoniali effettuate durante la convivenza nel rispetto dei principi di proporzionalità e adeguatezza (Cass. civ., 15 gennaio 1969, n. 60; Cass. civ., 20 gennaio 1989, n. 285; Cass. civ., 13 marzo 2003, n. 3713; Cass. 15 maggio 2009, n.11330). Anche la legislazione ha attribuito rilevanza giuridica alle convivenze di fatto. La l. 10 febbraio 2012, n. 219 e il d. lgs. n. 154/2013 hanno abolito ogni discriminazione tra figli legittimi e naturali. In tema di affido condiviso la l. 8 febbraio 2006, n. 54 ha esteso la disciplina ai procedimenti relativi a figli di genitori non coniugati. Sulla fecondazione assistita la l. 19 febbraio 2004, n. 40 ha previsto l'accesso da parte di coppie di fatto di sesso differente. La l. 9 gennaio 2004 in relazione ai criteri di cui all'art. 408 c.c., per la scelta dell'amministratore di sostegno, prevede che questa possa ricadere sulla persona convivente nonché prevede in relazione all'art. 417 c.c. che interdizione ed inabilitazione possano essere promosse dalla persona convivente. Le norme per il contrasto della violenza di genere hanno l'obiettivo di prevenire il femminicidio e proteggere le vittime contro abusi esercitati non solo dal coniuge ma anche dal convivente. Ai sensi della l. n. 119/2013 sono stati resi più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni dei maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori. È stata, pertanto, aumentata la pena di un terzo se alla violenza assiste un minore di anni 18, se la donna è incinta o se l'autore della violenza è il coniuge, anche se separato o divorziato, o il partner pure se non convivente, equiparando, dunque, la figura di quest'ultimo a quella del coniuge. Definizione di "conviventi di fatto"
All'esito dell'approvazione in via definitiva della l. n. 76/2016 è stato colmato un vuoto normativo in materia di disciplina delle convivenze tra persone dello stesso sesso, mediante l'istituzione delle unioni civili, ed è stata regolamentata la disciplina delle convivenze tra coppie omosessuali ed eterosessuali. I commi dal 36 al 65 dell'unico articolo della legge contengono la disciplina della famiglia fondata sulla c.d. “convivenza di fatto”. Senza tener conto della paradossale antitesi (trattandosi di figura regolamentata dalla legge, non può più essere considerata di fatto), l'ambito di applicazione del comma 36 è riferito alla coppia, eterosessuale o omosessuale, e definisce “conviventi di fatto” due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile. Elementi costitutivi della convivenza sono la stabilità di essa e il legame affettivo della coppia. La stabilità, inoltre, deve essere accertata in termini quantitativi e qualitativi. Il primo aspetto richiede una certa continuità e durata temporale, valutabile caso per caso dal giudice. In termini qualitativi, per stabilità si fa riferimento alla consapevole e coerente osservanza, da parte dei componenti della coppia, della reciproca assistenza materiale e morale, già richiamata per il matrimonio, art. 143 c.c., e per le unioni civili, art. 1 comma 11 l. n. 76/2016. Mentre per quest'ultimi istituti si tratta di un obbligo giuridicamente rilevante, per i conviventi la reciproca assistenza materiale e morale discende da una scelta libera ed autonoma degli stessi. Il concetto innovativo di legami affettivi appare di difficile accertamento. La ratio, sottesa alla previsione normativa, deve intendersi nel senso di escludere dall'ambito applicativo della legge le convivenze che trovano il loro fondamento esclusivamente in ragioni pratiche di convenienza economica e non dirette a realizzare una comunanza di vita materiale e spirituale. Devono ritenersi esclusi, ragionevolmente, dal novero di coloro che possono definirsi conviventi di fatto i minorenni. Pare, invece, discutibile l'esclusione dei parenti da ritenersi fino al sesto grado, con la conseguente esclusione dalla applicazione della legge di quelle coppie che, nonostante i vincoli di parentela, potrebbero sposarsi ai sensi dell'art. 87 c.c.. Appare non del tutto condivisibile l'esclusione dalla definizione di conviventi di soggetti già vincolati da matrimonio o unione civile con terze persone. Trattandosi di coppie di fatto, accade che in alcuni casi uno o entrambi i componenti della nuova coppia siano ancora coniugati, ma separati di fatto (o legalmente); pertanto, il comma 36 in esame riduce notevolmente la sfera di applicazione del nuovo regime. La disposizione appare incoerente con la natura di rapporto di fatto e la ratio della legge, che è quella di porre tutele anche in assenza di qualunque convenzione predisposta dai partner. Peraltro la giurisprudenza formatasi in materia non ha mai ritenuto questo elemento ostativo al riconoscimento di diritti (si pensi al risarcimento del danno per morte del convivente). Non si può escludere, quindi, il tentativo che sarà operato di includere l'applicazione della legge anche a coppie soltanto separate - certo con una forzatura del dato normativo - che in passato però non è mancata, per esempio nella disciplina dell'impresa familiare, concepita solo per i coniugi ma in via giurisprudenziale non applicata ai coniugi separati, considerato lo stato di separazione propedeutico al divorzio. La registrazione della convivenza e la circolare del ministero dell'interno n. 7/2016
Il comma 37 prevede che ai fini dell'accertamento della stabile convivenza è necessario fare riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui agli artt. 4 e 13 comma 1 lett. b) d.P.R. n. 223/1989, in sostanza quindi la convivenza può essere provata dalla dichiarazione anagrafica. Tale precisazione impone all'interprete una doppia interpretazione della definizione di conviventi di fatto: una sostanzialista e una formalistica (cfr. G. Buffone in Guida al Diritto, 2016). Secondo la prima interpretazione possibile, che pare essere quella maggiormente condivisibile, elemento costitutivo della convivenza di fatto è semplicemente “la stabile convivenza”. La dichiarazione anagrafica quindi non ha valore costitutivo della convivenza ma costituisce uno strumento di accertamento che non è neppure l'unico (in tal senso vedi Trib. Milano, 31 maggio 2016) Trattasi di una prova caratterizzata da scarsa rilevanza: è infatti sicuramente ammessa la prova contraria della insussistenza dei presupposti di cui al comma 36 nonostante la presenza della dichiarazione anagrafica; specularmente è ammessa la prova della convivenza, nonostante la mancanza della dichiarazione anagrafica. La seconda opzione invece, prevede che conviventi di fatto, destinatari della protezione prevista dalla l. n. 76/2016 possano definirsi solo coloro che non solo rispondano ai requisiti di cui al comma 36 ma che abbiano dichiarato anagraficamente la loro convivenza. Tale interpretazione pare fondarsi sulla Circolare emanata dal Ministero degli interni (Circ. Min. Int. n. 7/2016) che prescrive agli Ufficiali di stato civile gli adempimenti da seguire per la registrazione delle convivenze di fatto e dei contratti di convivenza regolamentati dalla l. n. 76/2016 (creazione di una scheda individuale e di una scheda comune; obbligo di registrazione dei contratti di convivenza sia sulla scheda comune sia sulla scheda anagrafica). Le prime prassi applicative degli Enti locali sembrano corroborare tale interpretazione: il Comune di Milano, ad esempio (www.comune.milano.it/wps/portal/ist/it/servizi/anagrafe/matrimonio_unioni_civili/convivenze_di_fatto) definisce come conviventi di fatto solo coloro che sono liberi di stato, hanno una residenza anagrafica comune e abbiano provveduto a registrarsi come tali presso gli Uffici dell'Anagrafe. Al di là del valore dell'incidenza delle prassi applicative sull'interpretazione della norma, è evidente che un approccio eccessivamente formalistico finirebbe per snaturare l'istituto delle convivenze, trasformate da realtà fattuale (la legge definisce appunto i conviventi “di fatto”) a realtà sottoposta a un obbligo di registrazione in realtà inesistente. Diritto di visita e assistenza in caso di malattia e ricovero
Particolare attenzione meritano i rapporti giuridici che insorgono non solo tra i conviventi, ma con i terzi. Ai sensi del comma 39 della legge in caso di malattia o di ricovero, i conviventi di fatto hanno diritto reciproco di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari. Anche prima dei commi 39, 40 art. 1 della l. n. 76/2016, qualunque persona poteva designare mediante la stipulazione di una procura speciale la persona convivente, affinché fosse autorizzata a svolgere le predette attività. Oggi, per effetto della presente legge, non è più necessaria la rimessione all'autonomia privata per consentire l' assistenza nonché l'accesso alle informazioni personali in caso di malattia o ricovero. La novità legislativa va accolta positivamente vista la delicatezza della materia e l'imprevedibilità del tema salute nella vita di una coppia. Il successivo comma 40 prevede che ciascun convivente può designare l'altro quale rappresentante con pieni o limitati poteri in due ipotesi. La prima concerne i poteri di rappresentanza in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e volere in relazione alle decisioni in materia di salute; la seconda conferisce i poteri di rappresentanza al convivente superstite in caso di morte dell'altro, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. Designazione da effettuarsi in forma scritta e autografa, oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone. Questa disposizione suscita non poche perplessità, laddove conferendo ampi poteri rappresentativi in capo ai conviventi, riconosce facoltà che invece sono negate ai coniugi e ai componenti dell'unione civile, anticipando una disciplina, non ancora in vigore, riguardante le scelte relative ai trattamenti di fine vita. Casa familiare
La disciplina della casa familiare è prevista dal comma 42 dell'articolo unico della legge, salvo quanto previsto dall'art. 337 sexies c.c. In caso di morte del convivente di fatto proprietario della casa familiare è necessario distinguere due ipotesi. La prima, riguarda il caso in cui non vi siano figli minori, il convivente ha diritto ad abitare ex lege (artt. 540, 1022 c.c.) nella casa per un periodo uguale agli anni della convivenza, ossia due anni se la convivenza ha avuto durata inferiore a due anni, da due a cinque anni se la convivenza ha avuto durata superiore a due anni, ma comunque entro il limite massimo di cinque anni. La seconda, invece, disciplina il caso in cui vi sia la presenza di figli minori o figli disabili del convivente superstite, in capo al quale si configura il diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni. Trattasi di un'innovazione dispositiva che sembra introdurre una fattispecie di successione necessaria. Il diritto di cui al menzionato comma viene meno qualora il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o nel caso in cui contragga matrimonio, sia parte di una unione civile o instauri una nuova convivenza di fatto. Viene data anche puntuale regolamentazione in ambito locatizio. In caso di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione, il convivente ha la facoltà di succedergli nel contratto. È disciplinata, inoltre, l'assegnazione di alloggi di edilizia popolare, nel caso in cui l'appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l'assegnazione degli appartamenti, possono godere di tale titolo o causa di preferenza, a parità di condizioni, i conviventi di fatto.
Impresa familiare
Particolare importanza assume la disciplina concernente il rapporto giuridico tra conviventi qualora uno di essi presti la propria attività lavorativa all'interno dell'impresa dell'altro convivente. Ai fini dell'analisi della disciplina non si può prescindere da una valutazione normativa e giurisprudenziale. A norma dell'art. 230 bis c.c., partecipanti all'impresa familiare sono il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado dell'imprenditore. La giurisprudenza di legittimità, in contrasto con la giurisprudenza di merito, escludeva il convivente di fatto dall'elenco dei partecipanti, perché considerava tale norma tassativa ed eccezionale, e perché l'elemento caratterizzante dell'impresa familiare sarebbe la famiglia legittima (Cass. civ., 2 maggio 1994, n. 4204). Contro questa visione parte della dottrina (C. M. Bianca, Diritto Civile, II, Milano, 1985, 371) era favorevole all'estensione al convivente more uxorio di una tutela già riconosciuta al coniuge. Si era, dunque, sviluppato un ampio dibattito volto a stabilire se le convivenze di fatto potessero trovare spazio nella nozione di impresa familiare. Il problema interpretativo dell'art. 230 bis c.c. nasceva dall'esigenza di apprestare strumenti di tutela alle unioni non formalizzate dal vincolo matrimoniale. La giurisprudenza di legittimità riteneva che l'impresa familiare presupponesse la famiglia legittima e che soltanto il matrimonio ponesse a carico dei coniugi precise conseguenze, mentre la convivenza doveva restare una situazione di fatto, caratterizzata da precarietà. Le prestazioni di lavoro tra conviventi di fatto potevano così sia rientrare fra le prestazioni “gratuite”, sia costituire esecuzione di un vero contratto di lavoro subordinato, con conseguente diritto alla retribuzione. Compito del giudice di merito era accertarne la sussistenza, formando il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori rilevanti e la propria valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da errori logico-giuridici, non era censurabile in sede di legittimità. Con l'entrata in vigore della l. n. 76/2016, l'ampio dibattito giurisprudenziale e dottrinale ha trovato una risposta. Il comma 46 ha introdotto l'art. 230 ter c.c., disposizione costruita sul modello dell'art. 230 bis c.c., con la conseguenza che l'impresa familiare non presuppone più solamente la famiglia legittima, ma prevede che al convivente, il quale presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente, spetti la partecipazione agli utili dell'impresa familiare e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Circostanze non previste nel caso in cui tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Diritto agli alimenti
In caso di cessazione della convivenza di fatto, ai sensi del comma 65 della legge in esame, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall'altro convivente gli alimenti in due ipotesi, la prima, se l'altro versi in stato di bisogno, la seconda, se non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. La disposizione continua prevedendo che gli alimenti vengono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura stabilita dall'art. 438, comma 2 c.c., rispettando l'ordine degli obbligati ex art. 433 c.c. ossia con precedenza su fratelli e sorelle. Il disegno di legge originario prevedeva addirittura un diritto al mantenimento; il testo definitivo, così come formulato, si limita al riconoscimento del diritto agli alimenti, ricalcando la disposizione di cui all'art. 438, comma 1 c.c., palese riflesso della solidarietà post-matrimoniale, fondata sull'art. 2 Cost. La disposizione suscita perplessità di ordine costituzionale, in quanto la convivenza - a differenza del matrimonio (e delle unioni civili)- si fonda pur sempre su una libera scelta, sempre revocabile. La disposizione continua prevedendo che «gli alimenti sono assegnati per un periodo proporzionale alla durata della convivenza e nella misura determinata ai sensi dell'articolo 438, secondo comma, del codice civile»: ne consegue, presumibilmente, che il diritto agli alimenti non potrà essere riconosciuto per un periodo più lungo della durata della convivenza. Come noto, il diritto agli alimenti è subordinato alla dimostrazione, da un lato dello stato di bisogno, dall'altro della impossibilità per l'alimentando di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di attività lavorativa confacente alle proprie attitudini ed alle proprie condizioni sociali (Cass. civ., 14 febbraio 07, n. 3334). Considerando i profili processuali, in ordine all'obbligazione alimentare, per determinare ove essa sia sorta, occorre avere riguardo alla data di insorgenza dello stato di bisogno e, dunque, la competenza territoriale è del luogo in cui ha domicilio o residenza l'alimentando. E' anche competente il luogo di residenza del convenuto. Altri diritti: ordinamento penitenziario, misure di protezione degli adulti vulnerabili, danno endofamiliare
In continuità con precedenti disposizioni normative e pronunce giurisprudenziali, la legge ha disciplinato altri aspetti della convivenza, facendo proprie prassi ormai consolidate. Al comma 38 prevede che al convivente spettino gli stessi diritti riconosciuti al coniuge dall'ordinamento penitenziario, sebbene gli artt. 18, 28, 29 e 30 della l. n. 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) prevedano, già, la facoltà del detenuto di indicare persone diverse dai parenti e dal coniuge, per comunicazioni, avvisi e visite. Ai sensi del comma 47 è stata apportata una modifica al testo dell'art. 712, comma 2, c.p.c., il quale prevede che nel ricorso per l'interdizione o inabilitazione si debbano esporre i fatti sui quali la domanda è fondata e debbano essere indicati il nome e cognome e la residenza del coniuge e, oggi, anche del convivente, dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado e, se vi sono, del tutore o curatore dell'interdicendo o dell'inabilitando. Viene allargato in questo modo attraverso il dato legislativo il novero dei soggetti che devono essere elencati nel ricorso per la domanda di interdizione o di inabilitazione. Il successivo comma 48 della legge, prevede che il convivente di fatto possa essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno qualora l'altra parte venga dichiarata interdetta o inabilitata, possibilità già disciplinata dall'art. 408 c.c., il quale prevede che nella scelta dell'amministratore di sostegno il giudice preferisca il coniuge o il convivente stabile. Per la quantificazione del danno non patrimoniale spettante al convivente, in caso di decesso dell'altro, derivante da fatto illecito di un terzo, ai sensi del comma 49, si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite. Invece, in caso di lesione causata da fatto illecito di un terzo al convivente, nell'individuazione del danno risarcibile alla vittima secondaria si procede all'applicazione dei medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge leso (Cass. civ. n. 8976/2005). In conclusione
La l. n. 76/2016, rappresenta una delle più importanti riforme del diritto di famiglia dalla novella del 1975. Si tratta di una riforma storica che riconosce accanto al paradigma classico del matrimonio altre forme di famiglia già esistenti nella società. Deve aggiungersi che, trattandosi di convivenze di fatto, la legge pone delle regole per rapporti che, per interpretazione letterale e per scelta dei conviventi, non richiedevano puntuale disciplina (si pensi soprattutto alla disciplina dell'impresa familiare, degli alimenti, del diritto di abitazione della casa di proprietà del defunto convivente). In alcuni casi, diritti e i doveri previsti dal presente testo di legge, per le convivenze di fatto, potevano essere conseguiti mediante ricorso all'autonomia privata, con libertà per gli interessati di scegliere quali regole applicare al proprio rapporto e quali evitare, in perfetta sintonia giuridica e logica con unioni per definizione prive di regole. Forse a ragione, si suppone una posizione di debolezza giuridica (a volte, comunque, conosciuta ed accettata anche nei suoi rischi) da parte del convivente meno abbiente, che necessita quindi di una serie di tutele introdotte dalla normativa, anche in assenza di precisi accordi intervenuti tra i partner. Va accolta in modo favorevole la disposizione che prevede la possibilità per ciascun convivente di poter designare l'altro quale rappresentante con pieni o limitati poteri di rappresentanza in caso di malattia che comporti incapacità di intendere e volere in relazione alle decisioni in materia di salute, dando quindi ingresso implicito nel nostro ordinamento al testamento biologico. |