I rimedi risarcitori sono esperibili dall'internato? L'art. 35-ter ord. penit. “di nuovo” al vaglio della Consulta

01 Giugno 2017

L'art. 35-ter ord. penit. contrasta o meno con gli artt. 3,24,25, comma 1, 117, comma 1, Cost., quest'ultimonella parte in cui non prevede gli internati tra i soggetti legittimati a proporre la relativa istanza?
Massima

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 35-ter ord. penit., come introdotto dall'art. 1, comma 1, d.l. 26 giugno 2004, n. 94 (Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subìto un trattamento in violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo della polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 2014, n. 117, sollevate, in riferimento, agli artt. 3, 24, 25, comma 1, 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 Cedu, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la l. 4 agosto 1955, n. 848.

Il caso

Il magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 35-ter ord. penit., in riferimento agli artt. 3, 24, 25, comma 1, e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 Cedu. Egli, infatti, chiamato a pronunciarsi su una domanda di risarcimento proposta, ai sensi dell'art. 35-ter ord. penit., da persona destinataria di una misura sicurezza detentiva, la quale deduceva di essere stata sottoposta a condizioni inumane tali da comportare la violazione del parametro di cui all'art. 3 Cedu, riteneva, da un lato, provata la violazione de qua per un periodo di 132 giorni, in cui il soggetto era stato internato in una cella con spazio vitale inferiore ai tre metri quadrati per persona ma, dall'altro, sosteneva che non potesse trovare applicazione, nel caso di specie, l'istituto di cui all'art. 35-ter ord. penit. A parere del giudice, infatti, l'interpretazione letterale del menzionato meccanismo gli avrebbe impedito di accogliere la domanda risarcitoria, in quanto, pur essendo contenuto nella rubrica della norma il riferimento letterale sia al detenuto sia all'internato, nel corpo della stessa viene richiamato esclusivamente il detenuto, con la conseguenza che il precetto troverebbe applicazione solo durante l'espiazione di una pena detentiva e non nell'ipotesi di espiazione di una misura di sicurezza detentiva, in spregio al parametro di cui all'art. 3 Cost. La lesione del medesimo principio sarebbe sussistente anche con riguardo agli internati che abbiano già un ricorso pendente davanti alla Corte edu, dato che l'art. 2, comma 2, d.l. 92 del 2014, che ha introdotto l'istituto de quo, al fine di prevenire la pronuncia del giudice europeo, ha consentito solo a questi ultimi di utilizzare il rimedio di cui all'art. 35-ter ord. penit. Sarebbe parimenti leso l'art. 117, comma 1, Cost., in relazione agli artt. 3, 6 e 13 Cedu, posto che l'assenza di rimedi contro la detenzione patita in condizioni disumane comprometterebbe l'equità del processo, che deve essere garantita anche nella fase esecutiva, e l'effettività dei ricorsi interni, non reprimendo, tra l'altro, le violazioni del divieto di tortura. È dedotta, inoltre, la lesione dell'art. 25, comma 1, Cost., dal momento che l'internato, non disponendo di rimedi giudiziali, sarebbe privato del giudice naturale costituito dal magistrato di sorveglianza. Oltre ai menzionati parametri, sarebbe, infine, violato l'art. 24 Cost. sia perché l'internato non potrebbe agire in giudizio sia perché, quand'anche potesse agire, l'art. 35-ter ord. penit. non gli attribuirebbe una tutela adeguata.

La questione

La questione posta all'esame della Consulta è, dunque, la seguente: l'art. 35-ter ord. penit. contrasta o meno con i precetti di cui agli artt. 3, 24, 25, comma 1, 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 3, 6 e 13 Cedu, nella parte in cui non prevede gli internati tra i soggetti legittimati a proporre la relativa istanza?

Le soluzioni giuridiche

La Corte costituzionale si allinea, nel percorso argomentativo utilizzato nella sentenza in epigrafe, alla precedente decisione emessa in riferimento all'applicabilità del meccanismo di cui all'art. 35-ter ord. penit. nei confronti degli ergastolani (Corte cost. 21 luglio 2016, n. 204).

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice rimettente, l'una consequenziale all'altra in ordine logico, sono volte, dunque, a consentire all'internato un'azione per richiedere la riparazione per il trattamento disumano subìto e di configurare in favore dello stesso idonei strumenti riparatori.

La Corte ritiene infondata la prima questione proposta.

Nonostante, infatti, l'eccezione di inammissibilità formulata dall'Avvocatura di Stato, secondo cui il giudice rimettente avrebbe dovuto interpretare la disposizione secundum costitutionem prima di sollevare l'incidente di costituzionalità, i giudici delle leggi ritengono, che, allorquando il rimettente si prospetta la via dell'interpretazione adeguatrice, come accaduto nel caso di specie ma la esclude, consegue che la questione non possa dichiararsi inammissibile a causa dell'erroneità della conclusione a cui si è pervenuti, ma debba essere valutata nel merito.

Ciò premesso, la Corte sostiene che sia stata effettuata una errata lettura della norma censurata, lettura in cui si omette di considerare che l'art. 35-ter ord. penit. richiama l'art. 69, comma 6, lett. b), ord. penit., allo scopo di ricondurre la violazione dell'art. 3 Cedu nell'ambito della competenza del magistrato di sorveglianza. Proprio il rinvio al precetto de quo,la cui formulazione lessicale contempla in modo esplicito l'internato, permette di arricchire la dizione contenuta nell'art. 35-ter ord. penit. « con una corrispondente, inequivoca, espressione linguistica ». L'interpretazione inclusiva dell'internato tra i soggetti legittimati ad agire si rileva, a parere dei giudici, come l'unica capace di soddisfare la Costituzione, oltre che la più corretta da un punto di vista logico-sistematico, dal momento che « salda la disciplina normativa a regime, per tale profilo, con quanto il legislatore aveva già previsto espressamente con riguardo al periodo transitorio (art. 2, comma 2, d.l. 92 del 2014) e rende armonico il contenuto della norma ».

Anche la seconda questione per cui l'art. 35-ter ord. penit. non offrirebbe all'internato un rimedio utile a fronte del danno patito è da ritenersi, a parere della Consulta, infondata, in quanto basata su un duplice, erroneo, presupposto interpretativo.

Il giudice a quo reputa, infatti, inapplicabile l'istituto in parola perché le misure di sicurezza detentive diverse dall'ospedale psichiatrico giudiziario e dall'assegnazione ad una casa di cura e di custodia non sarebbero soggette ad un termine massimo di durata, da cui poter, dunque, scomputare il periodo che spetta di sottrazione. Egli, infatti, accede, secondo i giudici, ad una lettura inesatta dell'art. 1, comma 1-quater, d.l. 31 marzo 2014, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla l. 30 maggio 2014, n. 81 (Disposizioni urgenti per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), ritenendo che esso si riferisca solo agli ospedali psichiatrici giudiziari ed alle case di cura e di custodia e non alla totalità delle misure di sicurezza detentive, per le quali continuerebbe ad operare la regola pregressa, che lega la durata delle stesse alla persistenza della pericolosità sociale (artt. 207 e 208 c.p.). Siffatto approccio ermeneutico è, però, errato, a parere della Consulta, e si contraddice con il chiaro dettato normativo che si rivolge all'insieme indistinto delle misure di sicurezza detentive, specificando solo che tra queste è compreso il ricovero nelle residenze istituite per l'esecuzione di tali misure, specificazione che non permette di ritenere che il precetto si rivolga esclusivamente a tali ultimi mezzi. Posto, dunque, che tutti gli strumenti di sicurezzahanno una durata massima, sarebbe astrattamente possibile, approssimandosi il termine di durata, operarne una riduzione a titolo di risarcimento, ai sensi dell'art. 35-ter, comma 1, ord. penit.

È ovvio, però, che, mentre la durata della detenzione è sempre predeterminata, per ciò che riguarda le misure di sicurezza essa dipende dal perdurare della pericolosità del destinatario. Il limite massimo oggi imposto dalla novella del 2014 è, infatti, meramente eventuale, dato che la misura viene spesso revocata prima dello spirare dello stesso. In tali situazioni il risarcimento del periodo trascorso in condizioni inumane non può avvenire per detrazione; mancando il relativo minuendo, all'internato spetterà il risarcimento in forma monetaria.

In ragione di siffatta ricostruzione interpretativa, a parere dei giudici, si evidenzia l'erroneità anche del secondo argomento posto a base della questione di legittimità costituzionale ossia che tale forma di risarcimento sia consentito solo per completare una tutela già accordata, seppur parzialmente, attraverso la detrazione della durata della misura da scontare. Nel richiamare i principi già espressi nella sentenza n. 204 del 2016, i giudici di legittimità ribadiscono che il risarcimento patrimoniale del danno ha carattere subordinato rispetto al ristoro in forma specifica ma autonomo, nel senso che il primo compete quando il secondo, in tutto o in parte, non sia attribuibile. Pertanto, l'internato che non possa godere di alcuna riduzione della durata della misura di sicurezza detentiva è legittimato a richiedere il risarcimento integrale del danno in forma patrimoniale.

Osservazioni

La decisione della Corte costituzionale che si commenta, come già in precedenza sottolineato, si lega, da un punto di vista contenutistico ed argomentativo, in modo indissolubile con il percorso interpretativo tracciato dalla precedente sentenza n. 204 del 2016. Il nodo interpretativo involge, infatti, il medesimo istituto, l'art. 35-ter ord. penit., rubricato Rimedi risarcitori conseguenti alla violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali nei confronti dei soggetti detenuti ed internati, inserito nel corpo delle disposizioni disciplinanti il sistema penitenziario in seguito alle sollecitazioni contenute nella sentenza della Corte Edu Torreggiani c. Italia, che, come ben noto, indicava, tra l'altro, la necessità di prevedere all'interno del nostro ordinamento rimedi effettivi, sufficienti ed accessibili al fine di garantire la riparazione delle violazioni dell'art. 3 Cedu, derivate dal sovraffollamento carcerario (il c.d. rimedio compensativo).

Le difficoltà ermeneutiche che hanno determinato un nuovo intervento della Consulta derivano, invero, da una equivoca ed incompleta costruzione sistematico-normativa del rimedio, dettata dalla volontà del Legislatore italiano, non tanto, di ragionare circa le possibili conseguenze derivate da una determinata impostazione lessicale, quanto piuttosto dalla “fretta” di fornire una risposta, almeno formalmente, adeguata rispetto alle indicazioni dei giudici europei.

Il percorso seguito dalla Corte costituzionale è, comunque, ineccepibile ed i risultati a cui perviene non possono che essere condivisi.

Se, da un lato, la prima questione sollevata circa la inapplicabilità dell'istituto di cui all'art. 35-ter ord. penit. nei confronti dell'internato sulla scorta di una lettura eccessivamente rigida,ma comunque fedele del dato letterale, può essere, dalla Corte, superata attraverso una “semplice” operazione interpretativa, che permette di accedere ad una visione più ampia del precetto, fondata non solo sul richiamo alla rubrica dello stesso, in cui è presente il riferimento all'internato, ma anche con la valorizzazione del rinvio all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. penit. Dall'altro, più complesso appare, l'approccio ermeneutico in riferimento alla seconda questione per cui l'art. 35-terord. penit. non offrirebbe un rimedio utile per il danno patito da un soggetto sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva.

Sia consentita, comunque, sul punto precedente, una rapida riflessione. Non sarebbe, di certo, necessario compiere una seppur “semplice” operazione ermeneutica, se il Legislatore evitasse di formulare i precetti con la trascuratezza che connota ormai da troppo tempo la normativa vigente, circostanza che non può non essere stigmatizzata soprattutto quando le disposizioni vedono quali destinatari persone che subiscono forti limitazioni di diritti garantiti da fonti nazionali ed europee.

Ciò doverosamente sottolineato, costituisce, in ogni caso, un imprescindibile punto di partenza il riconoscimento della legittimazione dell'internato a fruire del meccanismo di cui all'art. 35-ter ord. penit., presupposto da cui è necessario muoversi per affrontare le altre questioni proposte, su cui, come detto, si incentrano le maggiori difficoltà a fronte di una costruzione sistematica della norma, ancora una volta, tutt'altro che soddisfacente.

I problemi, in particolare, attengono l'individuazione del criterio di riparazione fruibile da parte del destinatario di una misura di sicurezza detentiva. Il rimedio risarcitorio in analisi si fonda, infatti, su due differenti forme di riparazione. L'interessato può ottenere a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare, nella durata di un giorno per ogni dieci in cui ha subìto il pregiudizio accertato (art. 35-ter, comma 1, ord. penit.) ovvero un ristoro in forma monetaria, pari ad otto euro per ogni giorno di pregiudizio subìto, quando il periodo di detenzione ancora da scontare non consente la detrazione dell'intera percentuale o quando esso è inferiore a quindici giorni (art. 35-ter, comma 2, ord. penit.) o quando il soggetto ha subìto il pregiudizio de quo in stato di custodia cautelare ovvero, infine, quando ha terminato di espiare la pena detentiva in carcere (art. 35-ter, comma 3, ord. penit.).

L'individuazione del criterio di ristoro per l'internato incontra le medesime riserve affrontate dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 204 del 2016 con riguardo all'ergastolano.

Il punctum dolens si incentra, infatti, sul rapporto tra le due differenti forme di riparazione indicate dalla norma. I giudici nella decisione menzionata, con uno sforzo ricostruttivo, invero, non agevole, hanno spiegato come, dalle indicazioni letterali contenute nell'art. 35-ter ord. penit., si debba trarre il criterio logico necessario per risolvere la questione. Il legislatore, attraverso il richiamo “complementare” al rimedio pecuniario, contenuto nei commi 1 e 2 dell'art. 35-ter, ord. penit., ha solo inteso indicare quale criterio prioritario la riparazione in forma specifica, senza che, però, da ciò debba determinarsi una perdita di autonomia applicativa del ristoro economico, che opera, in via principale, allorquando non possa essere compiuta una riduzione di pena.

Acquisita siffatta impostazione, la soluzione ermeneutica elaborata rispetto alla figura dell'internato risulta consequenziale. Il soggetto sottoposto ad una misura di sicurezza detentiva, il quale non possa godere di alcuna riduzione della durata della stessa, è legittimato a domandare il risarcimento integrale del danno patito per il periodo trascorso in condizioni disumane in forma patrimoniale.

Nessun dubbio circa la correttezza della lettura offerta dalla Corte costituzionale, che non sopisce, però, le perplessità in riferimento ad un legislatore che ha ormai quasi del tutto abdicato al suo ruolo.

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